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“Siamo più impetuosi rispetto al passato”: Intervista esclusiva ai Renanera

Con L’uomo torna mare, i Renanera rilasciano il loro nono album e festeggiano i primi dieci anni di carriera. Li abbiamo incontrati per un’intervista sul loro lavoro, su cosa significhi fare musica etnica oggi e su quanto la nostra società sia cambiata.
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I Renanera hanno pubblicato il loro nono album, L’uomo torna mare, celebrando i loro primi dieci anni di attività del loro progetto di musica etnica. Originati della Basilicata, i Renanera hanno saputo rileggere la musica folk sposandola a ricerca di suoni moderna, contemporanea. Ai testi in dialetto e italiano, in L’uomo torna mare si accompagnano suoni che virano verso l’elettronica, la dub e l’hip hop, con un risultato che sorprende e che nulla ha da invidiare alla musica mainstream.

Chi pensa che la musica etnica sia da ignoranti, dovrà ricredersi. Nelle canzoni dei Renanera c’è sì la tradizione delle numerose storie che appartengono al Sud Italia ma c’è anche una profonda ricercatezza musicale e lirica. I testi di L’uomo diventa mare c’è pura poesia ma anche tanta politica: i Renanera non hanno paura di esporsi e di denunciare quanto schifo faccia la società in cui viviamo, una società che ci fagocita e ci proietta verso l’individualismo.

Ed è per questa ragione che i Renanera hanno scelto come singolo di lancio dell’intero album Che tarantella, brano che mostra tutto il loro dissenso verso una società che non progredisce e priva di sostanza. Come pesci spada, siamo costretti a lottare contro le reti umane che ci imbrigliano, come richiama la copertina di L’uomo torna mare disegnata dall’artista potentino Alberto Barra.

TheWom.it ha incontrato i Renanera per capire le ragioni della loro denuncia ma anche per conoscere da vicino il loro mondo, fatto di diversità da abbracciare e includere tra i nostri ascolti. Per scatenarci e ballare anche quando si canta dell’immondizia sociale che ci circonda o dei pregiudizi. A rispondere alle nostre domande è Unaderosa, voce dei Renanera e autrice delle canzoni insieme al marito Antonio Deodati.

Alla realizzazione di L’uomo torna mare, oltre a Unaderosa e Antonio Deodati, hanno partecipato anche Marco Deodati (saz e chitarre), Pierpaolo Grezzi (darbouka e tammorre), Alberto Oriolo (violino e cori), Gaetano Stigliano (mandolino). E, se ascoltando l’album composto da 10 brani (tra cui una rilettura d Fatmah degli Almamegretta), qualche nota vi sembra familiare è perché l’avete sentita nel film La notte più lunga dell’anno, di cui il gruppo ha composto la colonna sonora.

La copertina di L'uomo torna mare.
La copertina di L'uomo torna mare.

INTERVISTA ESCLUSIVA AI RENANERA

È appena uscito il vostro nuovo album, L’uomo torna mare. Il singolo che fa da apripista al vostro lavoro è Che tarantella, un brano che parla dell’immagine stereotipata della Basilicata ma anche delle cantanti che fanno musica folk. Unaderosa, mi sembra di capire che ti volevano femmina bella, dolce, poetessa e cantante di tarantella.

C’è un modello abbastanza diffuso della cantante folk, della donna che fa musica popolare nel sud Italia. In linea di massima, bisognerebbe avere i lineamenti mediterranei, i capelli scuri e lunghi così come gli abiti da indossare. Si tratta di uno stereotipo che inizi a seguire quando intraprendi un percorso nella musica tradizionale; serve come carta d’identità per dire “suono questo genere e lo rappresento”. Ma poi arriva il momento in cui ti rendi conto che la musica etnica ti permette di spaziare molto oltre le tradizioni e di crearne addirittura altre; puoi introdurre qualsiasi elemento di novità.

È fondamentale che i contenuti siano “popolari”, ma anche fare incontrare strumenti di culture lontane tra loro.

Oggi siamo ancora più elettronici, ma non perdiamo di vista l’etnicità, che è la nostra costante. Nei nostri dischi, così come nei concerti, abbiamo introdotto ad esempio il saz armeno. Lo abbiamo integrato ai “nostri” strumenti, a quelli della musica popolare del Sud Italia. La musica popolare di solito viene definita “elementare” rispetto ad altri generi, perché veniva di solito eseguita dai contadini nei momenti di festa, di collettività e di rituali che si ripetevano nel corso dell’anno.

I mass media, dai giornali al cinema e alla televisione, raccontano spesso, soltanto alcuni aspetti della Basilicata. È giusto valorizzare il territorio, le sue bellezze estetiche, paesaggistiche o culinarie. Ma si usano questi argomenti per nascondere la cruda realtà che si vive tutti i giorni e questo non è di certo un bene per “il popolo”.

Quanto hanno influito gli ultimi due anni di pandemia sul vostro lavoro?

Ci hanno tolto ogni abitudine, ma nello stesso tempo ci hanno guidati verso l’essenza e verso l’essenziale. Noi liberi professionisti o comunque lavoratori autonomi, abbiamo avvertito la fame, quella vera e ciò ci ha portato a cambiare anche umanamente. La passione ha lasciato il posto al bisogno di guadagnare per sopravvivere. Abbiamo dovuto imparare a dire “no”, anche agli amici o alle collaborazioni gratuite, che da gratificanti e rigeneranti per lo spirito, sono finite nella scatola delle “cose superflue”.

Ci stanno inducendo ad adottare il modello americano, quello che mascherato da “globalizzazione”, ci porta dritti all’individualismo e all’egoismo; la classica società del consumismo, tanto odiata anche da Pasolini. Il motto collettivo oggi è  “si salvi chi può”! Abbiamo il terrore di aiutare il prossimo. Viviamo come se avessimo i minuti contati e difronte alla guerra, non siamo solo disarmati, ma quasi assuefatti e inermi; ci hanno talmente spenti, che non abbiamo neppure più la forza di esprimere le nostre opinioni.

L’uomo deve tornare ad amare, per giocare con il titolo del vostro disco?

Si può giocare con il titolo ma purtroppo a me sembra un’impresa impossibile tornare ad amare. Se tornasse ad amare, significherebbe tornare a fare qualcosa che non ha mai fatto. Potrebbe però tornare a essere “mare”.

La nostra società va sempre di più verso il regresso, la distruzione; probabilmente il genere umano sparirà o muterà, tornando a vivere nei mari come fantastici pesci, o più probabilmente come terribili scorfani, dato che nel mare ormai, abbiamo riversato di tutto!

Chissà! Forse quando torneremo in mare, lui per dispetto si prosciugherà. E come dargli torto?!

In L’uomo torna mare dico cose che tenevo dentro da tempo. Avrei potuto dirle anche in maniera più forte e meno velata, ma non amo la volgarità gratuita nei testi delle canzoni, la trovo inutile. Ho usato però una poetica più “impetuosa” rispetto al passato: tutto l’album è contemporaneo e anche il linguaggio doveva esserlo. Qualche anno fa ho realizzato un album - Terra da cammena’ -, che racconta la nostra terra appunto, e delle sue abitudini, ho scritto brani “sacri” e storie di luoghi dimenticati; sicuramente un progetto rivolto ad un pubblico di nicchia, di appassionati, che per fortuna sopravvivono ancora, che hanno ascoltato e apprezzato molto l’album. Ma avevo bisogno di “urlare” e l’ho fatto.

 Tra le altre cose, gli arrangiamenti di Antonio Deodati, sono così coinvolgenti che riuscirebbero a fornire immagini e sensazioni, esprimendo il nostro stato d’animo, anche se io non scrivessi una sola parola!

In Basta ca sona bon’, chiedete di non essere catalogati in alcun genere. A te, piace cantare e ballare sopra ogni cosa e distinzione.

Quel brano è una sorta di auto intervista, una risposta alle solite domande che mi fanno. Nasce da una motivazione che mi infastidisce da anni. La musica popolare arriva, lo dice il termine stesso, dal popolo, da persone che spesso non sono cantanti né musicisti. Seppur non avessero studiato mai musica per mancanza di soldi, le persone davano vita a nenie meravigliose, con melodie e liriche fantastiche. Chi fa oggi musica popolare viene ritenuto da altri musicisti, un ignorante. Tutti pensano che sia una passeggiata comporre musica etnica o suonarla. Non è affatto così.

Io credo che anche se suoni jazz e lo suoni male, solo per emulare i colossi di New Orleans, che tra l’altro non hai mai conosciuto, sei tu l’ignorante e ovviamente, non la musica che suoni.

Sottovalutano la ricerca quotidiana e la conoscenza che occorre per scrivere un testo che dialoghi con la melodia in maniera armoniosa e sincera. Io ad esempio seguo il mio flusso e compongo di getto, testo e melodia contemporaneamente. Ci vuole anche coraggio per raccontare i cosiddetti “temi pesanti”, che nel mio caso non partono dal bisogno di volersi arruffianare il pubblico, scrivendo testi strappalacrime. Non ho mai scritto una canzone “costruita”, racconto nei miei pezzi cose che ho vissuto o che ho visto vivere; a volte faccio incontrare nello stesso testo, due storie diverse, ma sono sempre molto vera. Attraverso ciò che scrivo, si può sicuramente interpretare il mio pensiero politico e la mia prospettiva sul mondo.

La canzone Bast ca son bon' è un po’ autoironica: forse col jazz non sei capace, la tarantella ti si addice… ho studiato anche canto jazz, posso assicurarvi che la musica popolare che facciamo noi Renanera e tanti altri gruppi, come gli Almamegretta, è veramente complessa e chi se ne intende, sa che le mie sfumature vocali, rivelano studio ed ecletticità. Ovviamente, non voglio smettere di imparare!

I Renanera in concerto.
I Renanera in concerto.

Che cantate di “politica” si evince anche in Inganni e favole, in cui si parla anche del mondo giovanile. “I giovani sono soli e si stanno azzeccando il cervello”. Perché accade? Avete due figli e vi sarete dati una risposta.

Abbiamo due figli, una di quindici e uno di otto, lobotomizzati completamente durante il lockdown dalle piattaforme di giochi e dai gruppi virtuali che nascono sui social, dove si interagisce con i coetanei, se ti va bene. Si trovavano, loro malgrado, a litigare tantissimo con persone che non hanno mai conosciuto e che mai forse incontreranno. Immaginate la fatica di tutti quei genitori con un po’ di coscienza e responsabilità che si sono dovuti calare nei panni di animatori, insegnanti, nonni, zii… tutti ruoli che sono ovviamente venuti a mancare in quel periodo di “azzeramento totale della socialità”. La sofferenza provata dai ragazzi veniva trasmessa direttamente ai genitori e forse non è del tutto finita.

Chiaro che poi il loro cervello si “azzecca”, si attacca a determinate cose che sono inutili, effimere. Ma non c’era altro intorno a loro. Anche la stessa televisione propinava schifezze per i giovani. Noi adulti ci siamo sentiti soffocare senza contatti visivi ed epidermici con gli altri, figuriamoci loro che sono stati privati anche della passeggiata, di quelle cose che prima della pandemia si davano per scontate e che ora sono preziosissime.

“Sta società” ad esempio, nel ritornello, è il pensiero di mia figlia: Mi dicono che è l’età; mi fa schifo ‘sta società!

L’immagine della società che fa schifo ritorna anche in Muntagne ‘e munnezza, dove si accenna alla guerra. Scritta prima o dopo dei fatti che interessano oggi l’Ucraina?

Si tratta di un brano che non volevo neanche pubblicare, poi ho cambiato idea. Solitamente non torno mai sui testi. Questo all’inizio era tutto in napoletano e ricordava Franco Ricciardi; come se io fossi stata la sua versione “donna”, piacevole come Ricciardi, ma una sorta di imitazione. Ho deciso allora di cambiare qualcosa e mio marito mi ha convinta ad inserirlo, perché ha un sound abbastanza orecchiabile. Quando lo stavamo registrando, di getto mi è venuta voglia di urlare: la “munnezza” di cui canto, non è solo quella dei sacchi di spazzatura, ma è la società.

L’ho scritto prima che scoppiasse la guerra in Ucraina. L’album avrebbe dovuto contenere anche la nostra versione di ‘O surdato nnamurato: le guerre rimangono tali anche se cambiano nella forma. Quella che volevamo raccontare noi era quella guerra che chiamo” CoVid”: per noi, la pandemia è stata una guerra, una minaccia all’umanità, non solo alla specie umana, ma alla moralità, ai valori, alla psiche, alla felicità.

Nella canzone asserisci di sentirti bruciata, stanca, vecchia e fuori moda.

Sì certo, ma anche che è difficile fare tendenza e cultura nella stessa canzone. I talent show spettacolarizzano ogni cosa, facendo “passare di moda” chi vive solo di musica e si diverte a portarla sui palchi, chi gode quando comincia a scrivere una canzone nella sua cameretta fino a quando la registra. L’esibizionismo può essere giustificato nel momento in cui il tuo operato deve essere condiviso con gli altri, altrimenti le cose che dici potresti anche dirtele da solo davanti a uno specchio e nulla avrebbe più senso.

Ma in molti pensano che per essere “ufficialmente bravi”, si debba per forza partecipare ad un talent, come se fossero poi davvero le varie giurie a dover decidere se puoi essere un cantante o restartene a casa, invece sappiamo che non è così.  Se non ti passano nelle radio più conosciute e non hai un ufficio stampa che lavori per te, oggi sei uno “sfigato”, ma nel brano dico tutto questo cantando “M’ sent fuori moda”!

Ci facciamo un “cuore” enorme tutti i giorni, ma le regole dello show business sono altre e distanti. Ed è qualcosa che si riversa sull’intero sistema musicale anche a livello economico: se la gente non ti conosce, non compra i tuoi dischi, non viene ai tuoi concerti. Noi come sopravviviamo? Chi siamo davvero? Dove cavolo stiamo andando?

La mia è una stanchezza morale, non riesco a stare al passo con i tempi. Non mi sento all’altezza di questa società: va troppo veloce. Non fai in tempo ad imparare qualcosa di nuovo, che già non ti serve più.

I Renanera in concerto.
I Renanera in concerto.

Che cosa fare quando non ci si sente all’altezza? Piangersi addosso?

Non lo so. Sì, ci sono momenti di sconforto totale ma, essendo impegnata a essere madre e non solo a far da madre, gli sconforti sono anche altri e forse anche più importanti, quindi non perdo tempo a piangermi addosso, ma cerco soluzioni. Non sono quella di una volta; la maternità ti cambia: l’importante è rimanere sempre una persona onesta e voler bene al prossimo, oltre che a se stessi.

Ho capito, ad esempio, che volersi bene è più importante dell’andar d’accordo. Il cercar di andare d’accordo con tutti, come vedete, porta alle guerre e non va bene. Anche quando si è agli antipodi, quando si è diversi, bisogna non provare ad andare d’accordo ma stare insieme e accettare le differenze, senza volersi scavalcare.

Oggi invece tutto è improntato sull’arrivismo, sull’ambizione, che non è più sinonimo di “sogno” ma di “sete”. Come quella degli zombie, sete di sangue. Tutti vogliono conquistare il loro podio, andare in tv per dire “ce l’ho fatta”. Poi ci arrivano pure, ma in alcuni casi, a mani vuote, perché si sono talmente impegnati a capire come scavalcare tutto e tutti, che hanno dimenticato di portarsi dietro “l’arte”, o forse l’hanno persa strada facendo.

Tornando a L’uomo torna mare. Com’è nata la splendida copertina realizzata dall’artista potentino Alberto Barra?

Volevo qualcosa di particolare; non amo mettere il mio viso in copertina, preferisco cercare un simbolo, qualcosa che racchiuda tutto il contenuto dell'album. Lo abbiamo fatto in passato per altre copertine e così è stato anche per L’uomo torna mare.

Ho mandato ad Alberto in preascolto l'album per sapere cosa ne pensasse. Lui è un artista molto quotato e ha una sua personalità artistica molto riconoscibile. Nel giro di un’ora, ha realizzato di getto lo schizzo. Ascoltando le canzoni, ha pensato al pesce spada e agli atteggiamenti che mette in atto quando deve difendersi, tra l’altro, anche da ciò che ha provocato l’uomo. Assume comportamenti molto atavici, primitivi, per scansare il pericolo, per districarsi da quella sorta di rete che per me in tutto il disco è rappresentata dalla società che ci imbriglia.

In L’uomo torna mare, il pesce spada potremmo essere proprio noi: ha come unica arma a suo favore la spada con cui potrebbe tagliare la rete di metallo, cioè, questa maledetta società.

Com’è stato invece collaborare con il regista Simone Aleardi per le musiche del film La notte più lunga dell’anno?

Simone cercava qualcuno in Basilicata per realizzare le musiche del suo film. E una persona, di cui non ricordo il nome perché in realtà non ci conosciamo, gli ha suggerito di ascoltare i Renanera.  Ascoltando su YouTube Ballatarantella, è rimasto folgorato. Ci ha contattati e lo abbiamo incontrato. In quell’occasione, ci ha detto: è come se “Ballatarantella fosse la sinossi del mio film!”. Ed è stato così che abbiamo realizzato tutte le musiche originali de “La notte più lunga dell’anno”.

Io ho anche eseguito un madrigale di Gesualdo da Venosa, qualcosa di una bellezza eterna, cristallizzata. Questa esecuzione mi ha permesso di sfruttare le mie caratteristiche da mezzo soprano, mentre Antonio ha composto brani pianistici, rimettendo a frutto gli anni di studio e di abnegazione totale per la musica. Il film è musicalmente tripartito. C’è la musica dance, ci sono brani pianistici e ci sono alcuni brani dei Renanera, come appunto Ballatarantella e Luce dal sud, dedicata al personaggio di Ambra Angiolini che si chiama “Luce”.

I Renanera festeggiano dieci anni di attività. Cosa si aspetta adesso?

Sicuramente baby-sitter, notti insonni, mal d’auto, viaggi “della speranza” e tanta ansia da prestazione: spero arrivino tanti concerti, perché ho davvero bisogno di sfogare tutta quella adrenalina che ho represso e di tornare a pensare che posso vivere anche solo di musica.

I Renanera in concerto.
I Renanera in concerto.
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