Il regista Riccardo Milani torna a Viterbo per il Tuscia Film Fest 2024, dal 12 al 20 luglio, con il suo ultimo film Un mondo a parte, la commedia di successo interpretata da Virginia Raffaele e Antonio Albanese. Milani ha partecipato più volte al festival, trovando sempre un'accoglienza calorosa e un pubblico attento, caratteristiche che apprezza profondamente e che rispecchiano il suo legame con la provincia italiana. È proprio nelle province che l’autore ha spesso trovato ispirazione per i suoi lavori, sviluppando un forte legame affettivo e una comprensione profonda di queste realtà.
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Nato in un quartiere popolare di Roma, Riccardo Milani ha infatti sempre sentito un forte senso di comunità, una costante nei suoi film. Anche se con il tempo il legame con il proprio quartiere può affievolirsi, quel bisogno di appartenenza e condivisione rimane, portando il regista a riscoprire queste sensazioni nei piccoli centri montani, come quello rappresentato in Un mondo a parte.
Quando nel corso dell’intervista in esclusiva che ci ha concesso a distanza di due anni dalla prima si parla della chiusura della scuola che ha ispirato il film, Riccardo Milani sottolinea che la realtà è spesso diversa da come viene raccontata dai media. La scuola, situata a Villetta Barrea, è chiusa da anni per decisione dei genitori, che desideravano un ambiente più stimolante per i propri figli.
L'amore per il cinema di Milani ha radici profonde, risalenti alla sua infanzia. Cresciuto sopra una sala cinematografica, ha sviluppato una passione per le storie e le immagini in movimento. Anche se oggi il panorama cinematografico è cambiato con l'avvento dei multiplex e delle piattaforme digitali, Riccardo Milani rimane convinto che il cinema debba ritrovare il suo ruolo centrale come luogo di condivisione ed esperienza collettiva.
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Nel corso della sua carriera, Milani ha sempre avuto a cuore il pubblico, cercando di realizzare opere che parlassero direttamente alla gente. Anche durante la pandemia, ha scelto coraggiosamente di far uscire i suoi film in sala, sostenendo il cinema e chi lavora in questo settore con dedizione.
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Il successo di Un mondo a parte, così come quello di C’è ancora domani diretto dalla moglie Paola Cortellesi, testimonia la capacità di Riccardo Milani di creare opere che emozionano e coinvolgono. Il regista continua a lavorare con passione su nuovi progetti, esplorando nuove storie e territori, mantenendo sempre vivo il legame con il pubblico e la sua visione unica del cinema d’autore.
Intervista esclusiva a Riccardo Milani
Perché portare Un mondo a parte in un contesto come quello del Tuscia Festival?
Intanto, perché è un festival che conosco e in cui sono giù stato, accolto sempre in maniera importante. In entrambe le occasioni in cui ho avuto modo di prendervi parte, ho fatto delle conversazioni interessanti con Enrico Magrelli e ho visto una provincia molto attenta. E io non posso non essere sensibile alla provincia italiana: è intorno a essa che ho costruito gran parte dei miei film, compreso Un mondo a parte.
È una realtà che quindi conosco o, meglio, che mi pare di conoscere, che mi ha dato tanto, che mi ha fatto crescere e a cui guardo con tanto interesse e affetto non più con un occhio esterno ma un po’ dal di dentro. Un mondo a parte è un film che ben rappresenta questo mio sguardo interno, sebbene io non sia nato in una città di provincia ma in un quartiere romano popolare come San Giovanni quando Roma era una città di quartieri e il senso di comunità era forte. E, se ci penso, la comunità è un po’ una costante dei miei lavori.
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Puoi andar via dal quartiere ma il quartiere rimane sempre dentro di te: vale anche per Riccardo Milani?
Direi di sì, quel tipo di formazione rimane dentro. Crescendo, quel senso di appartenenza si sbriciola e ci si sente meno parte della comunità perché si prendono altre strade e ci si deve adattare al modello di vita che l’età adulta in qualche modo impone. Ma è anche vero che il quartiere ti rimane dentro in quanto necessità di comunità: c’è sempre la sensazione di condivisione delle esperienze con gli altri. Ed è una necessità che, da un certo punto della mia vita in poi, ho trovato nelle comunità dei piccoli centri montani.
Come hai reagito quando hai letto la notizia della chiusura della scuola che ha ispirato Un mondo a parte?
Pensando che la storia non è così come l’hanno raccontata i giornali. Quella scuola si trova in un altro paesino distante dieci chilometri da Opi, dove ho girato il film, che si chiama Villetta Barrea. È chiusa da diversi anni e lo posso testimoniare io stesso: l’ho visitata per dei sopralluoghi e non era più in funzione da anni.
Tra l’altro, se vogliamo dirla tutta, è stata chiusa per volontà dei genitori e non delle istituzioni: poiché i bambini rimasti a frequentarla erano così pochi che per permettere loro di socializzare e praticare altre attività anche sportive, i genitori hanno chiesto che venissero inglobati nel plesso scolastico di un altro paese vicino e un po’ più grande.
Ho avuto anche modo di parlare con la sindaca del posto che, nel confermarmi le ragioni della chiusura, mi ha anche detto che la scuola rimane comunque aperta per le attività pomeridiane.
Di Un mondo a parte, con Virginia Raffaele, è protagonista Antonio Albanese, diventato negli ultimi anni quasi una sorta di tuo alter ego. Cosa ti lega ad Antonio e cosa ti ha portato a sceglierlo per le tue ultime commedie?
Antonio è un grandissimo attore, forse uno dei più grandi di tutti: con lui sono cresciuto molto anch’io. Lo conosco ormai da quasi trent’anni, da quando ci siamo incontrati per una campagna pubblicitaria insieme, e l’ho ritrovato nel 2015 per Mamma o papà. Ha dalla sua la capacità di passare da un registro all’altro in maniera sempre eccelsa riuscendo a far sempre tutto bene e a un grandissimo livello, dalla televisione al cinema. Spazia da un mezzo espressivo all’altro rivelandosi incredibile in ogni cosa che fa, una caratteristica che hanno in pochissimi, e non ha paura – come invece hanno altri suoi colleghi - di perdere credibilità misurandosi con la commedia, campo in cui ha costruito interpretazioni nobili che rimarranno negli anni.
Antonio è un uomo che fa questo mestiere con enorme passione, esattamente come me. Un punto di incontro che ci trascina nelle operazioni che facciamo, che ce le fa sviscerare e assaporare, pur mantenendo una certa distanza nei confronti di un mondo che per altri aspetti non ci appartiene. Se da un lato abbiamo una profonda dedizione e una totale passione per il mestiere e per le persone con cui lo condividiamo, dall’altro lato non ci vedrai mai in una terrazza o in un salotto nei circolini che contano. Gli voglio un gran bene.
Un mondo a parte: Le foto del film
1 / 26Tu hai cominciato a far cinema da molto giovane. Cos’è che ti ha portato ad avvicinarti al cinema?
Mi emozionavo davanti ai film. Ricordo che quando c’era quell’evento che si chiamava Fiera di Roma, non so per quale strano meccanismo, si trasmetteva un film la mattina alle 9 e io non ne perdevo nemmeno uno. Si teneva d’estate, le scuole era finite e maturava lì la mia passione per le storie e le immagini in movimento.
Ma ho anche un altro ricordo molto nitido: ero piccolino, avrò avuto tre o quattro anni e dal balcone di casa mi affacciavo sul cinema che stava sotto, l’Airone. Aveva un tetto che si apriva durante l’intervallo, da dove usciva non solo il fumo delle sigarette degli spettatori ma anche le voci dei protagonisti dei film tra la fine del primo tempo e l’inizio del secondo.
È grazie al cinema o alla televisione che da ragazzo ho poi assaporato i grandi romanzi della letteratura, da I ragazzi della via Paal all’Odissea: più che le pagine su carta, mi appassionavano le storie raccontate per immagini e sulle immagini ho costruito film in quantità infinita. Ogni spunto era buono per fantasticare epiloghi o pieghe da far prendere alle vicende. Immaginavo tantissimo e mi lasciavo andare alla fantasia più totale, qualcosa che faccio tuttora: a volte mi costruisco pericoli inesistenti per le mie figlie e vado oltre… è la testa che va verso il cinema!
Cresci abitando sopra una sala cinematografica. Oggi quelle realtà quasi non esistono più, soppiantate dai multiplex. Come hai vissuto la trasformazione del luogo in un non luogo?
Per me, il cinema è il posto in cui ti metti seduto su una poltrona con accanto delle persone e guardi un film. Questo è rimasto tale ed è ancora il cinema, casomai c’è un’identità che negli anni si è sminuita: mentre il teatro continua ad avere un suo forte senso identitario come luogo e i luoghi hanno un’importanza, le sale hanno perso la loro funzione principale.
Un film oggi è fruibile in mille modi diversi, dalle piattaforme alla televisione e agli smartphone. Tutto ciò che dovremmo fare è riportare il cinema a essere il luogo deputato ed esclusivo in cui vedere i film. Sono certo che se il luogo del cinema ritorna a essere esclusivamente la sala, qualcosa cambierà.
Detto ciò, non ho mai visto nessuna trasformazione del luogo cinema dal punto di vista sociale: ci siede insieme ad altri per condividere una visione. Certo, ti può poi capitare di avere accanto persone che non sono lì per il film ma per altro: fa parte del gioco.
Nel tuo caso, i tuoi film hanno sempre attirato molto pubblico nelle sale. È capitato però che qualche prodotto abbia riscontrato meno successo rispetto ad altri. Penso ad esempio a quel gioiellino che è Grazie ragazzi, appena sbarcato su Netflix. Ti sei mai chiesto le ragioni di ciò?
La risposta è semplice. Grazie ragazzi è uscito al cinema del gennaio del 2023, quando vivevamo ancora gli ultimi strascichi del CoVid. Ha incassato poco meno di tre milioni di euro, piazzandosi nelle prime due posizioni della top ten Cinetel. Ed è stata una mia ferma decisione quella di farlo arrivare al cinema e di non cederlo alle piattaforme o di posticiparne l’uscita.
Ho voluto in prima persona, d’accordo con produttori e distributori, far uscite ben tre film in sala in epoca pandemia (Grazie ragazzi, Corro da te e Come un gatto in tangenziale – Ritorno a Coccia di Morto): ho voluto fare il mio mestiere e trovavo eticamente corretto che fosse il cinema a ospitarli. Ho tenuto conto del rischio, è chiaro: sapevo che gli incassi sarebbero stati inferiori ma tutto era relativo: si doveva andare incontro al mercato, agli esercenti e a chi faceva questo mestiere in maniera eroica in quei giorni così complicati.
Un mondo a parte è il secondo titolo italiano più visto di questa stagione cinematografica. Il primo è C’è ancora domani, diretto da tua moglie, Paola Cortellesi. Come ci si sente a casa di fronte a tali risultati?
(Ride, ndr). Intanto, ci siamo divisi gli anni al momento: il suo è il film italiano più visto del 2023, il mio quello del 2024… ci siamo spartiti il primato in questo modo. Quello del film di Paola è stato un successo clamoroso e importante, stiamo parlando di un film che ha cambiato molte cose: non solo ha riportato la gente in sala a vedere dei film italiani ma ha anche rappresentato un’importante svolta dal punto di vista etico, culturale e sociale. È il suo un lavoro che meritava, merita e meriterà ancora tutti i riconoscimenti possibili: oltre a essere bello, sta incontrando un successo clamoroso all’estero, dalla Francia all’Inghilterra, perché comunque ha una poetica che emoziona il pubblico.
Una poetica che è la stessa dei film di Milani: emozionano il pubblico e non lo bistrattano, come invece fanno tanti altri nostri titoli. Quanto tieni conto della gente quando scrivi?
Da sempre, ho come obiettivo il pubblico: questo mestiere lo si fa per la gente e non per se stessi o per rispondere a dei parametri non scritti a cui si deve fare riferimento. Non ha deciso nessuno a priori quali sono i film belli o quelli brutti. Anche la stessa definizione di film d’autore mi lascia sempre spiazzato: non capisco cosa voglia dire, considerando come poi spesso non vadano incontro al pubblico. Chi ha scritte le regole per cui qualcosa debba essere classificato come d’autore e altro no? Penso semmai che un film vada definito per la sua bellezza o meno perché son tutti film d’autore, anche le commedie.
Questo è tempo di grandi revival televisivi. Tutti pazzi per amore, tua ormai storica serie tv, è uno dei titoli più visti su Netflix: possiamo sperare in un’eventuale nuova stagione?
Beh, mi piacerebbe fosse possibile… Mi hanno sempre chiesto in molti di riprendere in mano quel racconto e continuano a chiedermelo a maggior ragione oggi, complice il passaggio in piattaforma.
Come mai manchi da così tanto tempo dal racconto televisivo?
Semplicemente perché non è più capitato il progetto giusto. Ho sempre deciso in base a quello e alle cose da dire. Tra l’altro, con Tutti pazzi per amore mi sono divertito moltissimo: era una sfida particolarmente importante. Portavamo un’idea del tutto nuova su Rai 1 ed eravamo chiamati ad affrontare quel pubblico tradizionale con un temi, stile e registro totalmente anomali per la rete. I risultati sorpresero tutti quanti: dalle analisi Auditel, si evinceva come il pubblico stesse cambiando. Rispetto alla media di rete, gli spettatori avevano 15 anni in meno, un target totalmente ribaltato.
Nel frattempo, sei già al lavoro sul tuo prossimo film, una commedia girata in Sardegna…
Stiamo ancora scrivendo ma ho scelto la Sardegna perché è una terra che conosco e a cui sono molto legato. Come sempre accade nelle storie che racconto, avrò il piacere di andare a scoprire l’umanità di quei luoghi e a metterli in luce.
Ma in casa si pensa a un Milani che torna a dirigere Cortellesi?
Non lo so, però la vedo dura. Entrambi abbiamo oggi i nostri impegni in solitaria.
Al pubblico del resto mancate, come è dimostrato dall’affetto per i vostri film, a cominciare da Il posto dell’anima.
Un titolo per cui ho deciso di imboccare la strada del restauro: dopo più di vent’anni, è arrivato il momento di farlo.