Rita Abela è al cinema dall’11 aprile con il film Flaminia, esordio alla regia di Michela Giraud distribuito in sala da Vision Distribution. Nel film, interpreta Ludovica, la sorella che, come un uragano, irrompe nell’esistenza, superficiale e spesso vuota, della sorella Flaminia per riportarla con i piedi per terra e farle scoprire che i valori della sua Roma nord sono nulla a confronto con la vita stessa.
Quello di Ludovica è un ruolo molto particolare. Ispirata a Cristina, la sorella di Giraud, Ludovica è una persona nello spettro dell’autismo ad alto funzionamento. Quando contatto Rita Abela per discuterne, mi risponde con una calma radiosa, condividendo il suo entusiasmo per le cose belle che stanno accadendo nella sua vita.
Parlando di Flaminia, Rita Abela esprime gratitudine per il suo coinvolgimento nel progetto e per il sostegno ricevuto dalla protagonista Michela Giraud e dalla produzione del film. Descrive il suo impegno nel rendere autentico il personaggio di Ludovica, un compito reso più agevole grazie alla guida e alla collaborazione di Michela. Racconta anche come sia stata una scelta naturale per lei immergersi nel personaggio di Ludovica, sia fisicamente che emotivamente. Condivide il suo approccio al lavoro, che comprende una ricerca approfondita sulla rappresentazione del disturbo dello spettro autistico ad alto funzionamento, un aspetto cruciale per il suo ruolo.
In un momento della nostra conversazione, tuttavia Rita Abela si sofferma sulla terminologia legata all'autismo, sottolineando l'importanza delle parole nel definire e rispettare la diversità umana. La sua esperienza al Centro Antiviolenza Ipazia di Siracusa l'ha sensibilizzata ulteriormente sulla necessità di sostegno e inclusione nelle comunità.
Ma riflette anche sul concetto di sorellanza, un tema centrale in Flaminia, e condivide la sua esperienza personale di solidarietà e supporto tra familiari e amici. Sottolinea l'importanza di raccontare storie autentiche che riflettano la diversità umana e incoraggino anche la body positivity.
Rita Abela condivide le sue speranze per il futuro della sua carriera, manifestando gratitudine per l'attenzione che sta ricevendo per il suo lavoro in Flaminia e anticipando nuove sfide e opportunità nel mondo dello spettacolo. Attraverso la sua autenticità, passione e impegno sociale, Rita Abela è consapevole di come la bellezza risieda nella diversità e nell'autenticità di ogni persona. La sua presenza luminosa e il suo talento promettono di portare ancora molte belle sorprese nel futuro.
Intervista esclusiva a Rita Abela
“Va molto bene, sono in una fase piena di cose belle che accadono”, mi risponde subito Rita Abela quando la raggiungo telefonicamente per parlare di Ludovica, il fondamentale ruolo che interpreta nel film Flaminia, in cui è la sorella della protagonista Michela Giraud. “Sono a Roma ma sto sempre con un piede a Siracusa, la città in cui ho casa mia vista mare: quando posso, scappo nella mia tana ma per cause di forza maggiore mi trovo spesso e volentieri nella capitale o dove mi porta il lavoro. Come dice una canzone abbastanza recente, i posti sono semplicemente persone, per cui in definitiva ci portiamo dietro casa, anche dentro alle persone che frequentiamo”.
“Sono contenta di Flaminia, è un progetto nel quale ho lavorato molto bene. Tutte le personalità che ho incontrato sono state straordinarie e non posso che essere grata a Michela Giraud per avermi scelto e per avermi affidato un tesoro così prezioso per lei e alla produzione per essersi fidata della sua scelta. Ho avuto colleghi e colleghe che sono stati eccellenti compagni di viaggio e non posso non ricordare la cura e l’amore che tutti i reparti hanno avuto per me: non c’è stato giorno in cui non sia sentita profondamente amata sul set: è stato forse questa una delle cose che mi hanno permesso di onorare al meglio il compito che mi è stato affidato”.
Flaminia è un film che si regge sulle spalle di Michela Giraud ma anche sulle tue. Nell’interpretare certi personaggi, il rischio è quello di risultare sopra le righe o di non essere credibili. Nel tuo caso, il rischio è stato scongiurato.
È molto bello sentirselo dire, grazie. Uno dei primi obiettivi che mi sono posta come attrice e che è emerso anche dal confronto con Michela era lavorare su una strada che fosse di assoluta autenticità. Era fondamentale che lo fosse sia per il lavoro di attrice sia, in modo particolare, per questa storia che merita rispetto e nella quale bisogna entrare in punta di piedi, pur conservando il coraggio di lasciarsi andare e di sporcarsi le mani senza riserve.
Restituire verità e autenticità in ogni secondo era quello che cercavamo tant’è che io e Michela siamo state effettivamente mano nella mano anche fuori dal set, lontano dai ciak: cercavamo costantemente un contatto fisico come i nostri due personaggi. È stato importante farlo, molto totalizzante, ma forse era l’unico modo che avevamo a disposizione.
Tale ricerca di autenticità è stata difficile?
Forse è stata una delle cose più semplici da fare: Michela mi ha guidato molto bene, passo dopo passo e mano nella mano, anche tecnicamente. Abbiamo lavorato su due fronti.
Il primo era quello fisico della rappresentazione: aveva un’idea ben chiara di come Ludovica dovesse apparire, con i suoi abiti, i suoi capelli e il suo trucco, ma anche con la sua andatura, il suo particolare tipo di voce monotono e alcune stereotipie… di mio, ho studiato sia teoricamente sia praticamente quel modo di stare al mondo che mi richiedeva.
Il secondo invece era quello emotivo, non solo per le scene più drammatiche ma anche per tutte quella parte di emotività legata al gioco, allo scherzo e alla complicità che via via si crea fra le due sorelle… un’emotività che nasce da un legame d’amore.
A ciò ho voluto aggiungere gli elementi che già conoscevo per aver approfondito in modo più teorico e strutturale l’argomento dello spettro autistico ad alto funzionamento. Mi era capitato in passato di avere diverse esperienze teatrali, anche di direzione di laboratori e di spettacoli, con persone sia con disabilità sia nello spettro autistico ad alto funzionamento.
Ho cercato dentro di me le finestrelle giuste da aprire all’occorrenza. Del resto, noi attori siamo un filtro: prestiamo corpo, voce, testa e cuore ai personaggi e alle storie che interpretiamo, per cui non so e non saprò mai come si sente nel profondo Ludovica o Cristina, dal momento che in questo caso il riferimento a una persona realmente esistente è chiaro e non è nascosto. Dal canto mio, so però quali possono essere alcuni suoi stati d’animo: li ho conosciuti e li ho vissuti.
Nell’approfondire lo spettro autistico ad alto funzionamento, qual è il cliché che hai abbattuto o la realtà che maggiormente ti ha sorpreso?
Personalmente, non ho mai avuto molti pregiudizi e luoghi comuni, proprio perché sono stata spesso a contatto come dicevo con persone nello spettro autistico. Quello che so è semmai che vedo in giro ancora tanta confusione nel lessico. E, siccome ritengo che (oggi più che mai) le parole abbiano un peso e siano importanti, occorre ribadire che l’autismo è una neurodivergenza e non una disabilità. Spesso le persone classificano ed etichettano le cose con leggerezza e superficialità quando invece sarebbe corretto dare la giusta importanza alle parole: in qualche modo, coincidono con quello che siamo.
Non lo sostengo io ma la filosofia del linguaggio: Noam Chomsky ci insegna che tutto ciò che non ha un nome non esiste, per cui ogni nome ha un suo valore specifico, tanto più in un campo vastissimo come quello della neurodivergenza. Ogni autismo è un caso a sé: prima si parla di sindrome di Asperger ma è già dal 2013 che anche questa è stata inserita in ciò che più ampiamente si chiama disturbo dello spettro autistico ad alto funzionamento.
Per me, è stato dunque importante in fase di studio rinfrescare la memoria su un certo tipo di terminologia. Non avendo mai avuto molti preconcetti, di base sono partita avvantaggiata.
Già dalla tua risposta emerge il frutto della tua laurea in Teorie della Comunicazione: non so in quanti altri avrebbero potuto citare Chomsky…
È stato un percorso di studi che si è rivelato molto interessante: diverse materie mi permettono oggi di fare dei collegamenti e dei parallelismi con il mio lavoro e con la quotidianità. Ma li facevo già anche ai tempi dell’Università quando mi occupavo principalmente di teatro. Con il cinema, ho iniziato dopo.
Nel caso del disturbo dello spettro autistico, come ha anche detto Michela Giraud in conferenza stampa la scorsa settimana, non parlerei di problema ma di condizione. Incide su chi la vive ma anche su chi sta intorno ma l’ambiente esterno non deve appesantire il tutto con l’utilizzo di parole fuori luogo o etichette che fanno diventare quel corpo di dolore ciò che definisce l’intera esistenza.
Flaminia è anche una bella storia di sorellanza. Cosa ti fa venire in mente questa parola?
Non ho sorelle di sangue ma ho fratello: è ovviamente uno dei legami più forti della mia vita. Siamo cresciuti con un valore e un senso di famiglia altrettanti forti: nonostante sia più grande di me, è come se fosse un fratello minore e cerchiamo di essere presenti il più possibile l’una nella vita dell’altro.
Ho conosciuto la parola ‘sorellanza’ qualche anno fa, quando sono entrata a far parte del Centro Antiviolenza Ipazia di Siracusa: le volontarie fanno un lavoro incredibile di sostegno e accoglienza nei confronti delle donne e dei minori vittime di violenza offrendo assistenza psicologica e legale, case, rifugi e quant’altro serve. Sin dalle prime riunioni, ho appreso il significato della parola e il suo importante valore: in quanto donne, abbiamo vissuto e viviamo tutt’oggi, alcune anche pesantemente, i lasciti del patriarcato.
In Flaminia, la sorellanza è la chiave di volta dei personaggi di Flaminia e Ludovica: il loro è un amore riscoperto che permette a entrambe di andare incontro a una bellissima evoluzione psicologica. Anche nel caso del film, senza spoilerare nulla, anche le parole delineano una realtà ben diversa da quella dell’inizio della storia.
Il loro legame di sorellanza comincia a rinsaldarsi da una scena in particolare: un litigio in macchina che è un punto di rottura molto forte. In quella scena, Ludovica asserisce che desidera provare un abito da sposa perché lei non si sposerà mai.
Il vestirsi da sposa nasconde chiaramente una mancanza profonda di qualcosa che lei sa già non avverrà mai. In tal senso, Ludovica è disarmante: ha in sé la disillusione di chi è consapevole che non potrà mai vivere o fare determinate cose che a lei non sono accessibili. È quella semplicità disarmante che scardina la patina di apparenza e superficialità di Flaminia, riportata con una semplice frase a ciò che nella vita è essenziale.
Cosa ti ha spinta ad avvicinarti al Centro Antiviolenza Ipazia?
Di fronte a determinate situazioni, a un certo punto mi son detta che occorreva fare qualcosa di concreto. È facile lamentarsi e dire che le cose non vanno ma arriva anche il momento di passare all’azione. Sono stata fortunata nel crescere con un’educazione familiare improntata ad avere sempre un occhio verso l’altro: sono sempre stata molto sensibile ai temi che riguardano il sociale, l’inclusione, la disabilità, l’integrazione degli stranieri in Italia e i diritti della comunità LGBTQIA+… ho sempre avuto un’apertura verso tutto quello che viene definito ‘diversità’.
Il Centro Antiviolenza non riguarda propriamente una diversità ma parliamo sempre del bisogno di fare comunità e di sensibilizzazione. Nel parlare con un’amica, sottolineavo come fosse arrivata la necessità non dico di fare attivismo (non mi definirei mai un’attivista perché esserlo richiede un impegno costante, oltre che risorse ed energie) ma di dare una mano. Il Centro stava allora per aprire una nuova sede, sono andata lì, mi sono rimboccata le maniche e sin da subito ho dato una mano a ritinteggiare le pareti… ho contribuito poi “artisticamente” all’inaugurazione e sono tuttora un’attenta osservatrice diretta della preziosissima attività che si porta avanti.
Ti sei mai sentita ‘diversa’?
Più o meno, tutti i giorni. Noi siciliani sappiamo che la diversità è una ricchezza, come dimostra il patrimonio culturale del nostro territorio, attraversato da mille culture: in giro per strada trovi un tempio greco, un casale romano, una porta spagnola, un castello normanno… siamo consapevoli di essere una terra ricca proprio perché attraversata dalla diversità. Ma, nella quotidianità, stando in società, tale ricchezza perde la sua forza e ci sente inferiori, non all’altezza, inadeguati e in colpa per non rispondere a standard condivisi.
Credo che sia capitato a tutti, almeno una volta, di sentirsi fuori posto in un luogo, in una situazione o in un ambiente di lavoro. A me è successo perché comunque ho una fisicità che non è propriamente conforme a quegli standard che la società e il mio lavoro richiedono. Spesso mi è capitato di non avere accesso a certi ruoli e a certi provini perché ancora oggi per i casting si richiedono attrici di bella presenza, laddove la bella presenza ha corrispondenza con determinati parametri, misure e standard fisici.
Io, invece, ritengo che la bellezza sia un concetto molto più ampio: è un enigma che i filosofi non a caso studiano da secoli. La svuotiamo di significato se la riduciamo a standard a cui principalmente le donne ma sempre più anche gli uomini devono adeguarsi: misure, peso, altezza, colore di capelli, forma del naso, conformazione delle mani, lunghezza delle dita… così facendo, ci impoveriamo tutti.
Tale problema esiste anche nella scrittura: spesso e volentieri non si scrivono nemmeno ruoli per chi ha una fisicità non conforme. In tal senso, sono molto grata a Michela Giraud perché ha scritto una storia di persone non stereotipate, di persone non conformi che hanno dei corpi non conformi. È importante che se ne parli e che si abbracci la body positivity: non dico che ‘grasso è bello’ ma che è importante normalizzare, per quanto detesti la parola. Non si possono raccontare storie in cui al centro ci sono sempre figure perfette, corpi perfetti e personalità perfette: anche lo spettatore ha bisogno di rispecchiarsi in qualcosa che lo rappresenti maggiormente, che gli somiglia e che non mira alla perfezione.
Quand’è stata la prima volta che, specchiandoti, ti sei detta che eri bella?
Non ricordo esattamente quando ma è successo tanto tempo fa. Ma più che il proprio specchio è fondamentale quello degli altri, perché aiuta tanto. Ludovica riesce a vedersi bella solo quando si vede con gli occhi della sorella, quelli dell’amore. Sentirselo dire dagli altri aiuta a scardinare certe convinzioni.
Flaminia: Le foto del film
1 / 23Hai cominciato a fare teatro da bambina. Cosa ti ha spinto a farlo?
Un mio professore delle scuole medie, da sempre appassionato di teatro, mi ha invitata a seguire il laboratorio teatrale che teneva sia a scuola sia in privato. Sono andata perché incuriosita dalla parola ‘laboratorio’: lo immaginavo come un posto in cui si facevano lavori manuali. Da ragazzina timida, molto chiusa e a disagio nel gruppo dei pari, è stato lì che per la prima volta non mi sono trovata a disagio: mi sono sentita protetta, accolta e valorizzata. E sono rimasta perché poi ho capito che risultavo anche brava: la chiave di svolta è stata la gratificazione che ne veniva… era quello che avrei voluto fare per tutta la vita.
Che tu sia brava lo dimostra anche il tuo lungo curriculum teatrale…
Diciamo che ho avuto anche la fortuna di lavorare con i grandi e di rubare un po’ da loro tutte le sfaccettature, infinite e bellissime, di questo mestiere. Sono una grande osservatrice delle quinte: quando non sono in scena, mi piace stare in quinta e guardare come lavorano i colleghi. E, quando guardi gente come Leo Gullotta in scena, non puoi fare altro che imparare.
I tuoi genitori hanno approvato sin da subito il percorso che hai intrapreso?
Ho avuto la fortuna di avere due genitori meravigliosi dotati di una spiccata sensibilità per ciò che è artistico. Papà suonava per diletto la chitarra quando era giovane mentre mamma è stata insegnante di Lettere al liceo classico: sin da bambina, è stata lei a portarmi al Teatro greco di Siracusa a vedere le tragedie o a raccontarmi i miti greci al posto delle favole della buonanotte. I miei non solo non mi hanno mai ostacolato ma mi hanno anche dato fiducia: “È la tua vita, ci fidiamo di te”.
L’importante è che andassi bene a scuola, ragione per cui mi ammazzavo di studio per non deluderli: per loro era importante che arrivassi a certi step come la laurea, traguardo che ho raggiunto nel rispetto della fiducia che mi concedevano. Avere la loro fiducia mi ha permesso di acquisire una sicurezza maggiore per concretizzare ciò che volevo.
Qual è stata la loro reazione quando sei stata scelta da un maestro come Pupi Avati per il film Le nozze di Laura?
Di gioia assoluta: erano felicissimi. Anche perché era stato il primo provino a cui mi ero sottoposta per cinema e televisione dopo anni di solo teatro. Ma sono sempre stati felicissimi per me: papà lo è stato fino alla fine dei suoi giorni (è venuto a mancare due anni fa) mentre mamma lo è tuttora. Da loro, mi sono sempre sentita molto sostenuta e incoraggiata ma sempre senza invadenza. Pur non accompagnandomi mai a un provino, mamma è sempre stata un sostegno importante: mi ha dato radici forti, necessarie a spiccare il volo.
Ricordi quand’è stata la prima volta che papà ti ha detto ‘brava’?
Sì, quando una volta mi ha sentita cantare in uno spettacolo. Da appassionato di musica e canto, non poteva essere diversamente: avrò avuto all’incirca sedici anni quando, orgogliosissimo di me, si è avvicinato, mi ha dato un bacio e mi ha detto ‘brava’… lo ricordo come se fosse accaduto ieri.
Per lavoro, ti sei trasferita a Roma. Cosa ha rappresentato per te lasciare Siracusa?
Un atto di coraggio: è sempre più semplice rimanere nelle proprie zone di comfort e casa non è equiparabile a nessun altro posto. Tuttavia, andare via è stata una scoperta, un salto nel vuoto. Ogni salto nel vuoto, se da un lato fa paura, dall’altro incuriosisce moltissimo: l’ho affrontato dunque con entusiasmo, misto a coraggio e paura.
Senza rete di protezione?
Senza. Per ogni lavoro che si prende funziona così. Ed è giusto che sia così: quando ne sento il bisogno, cerco protezione nelle persone che amo e che mi amano, che seguono i miei passi come io seguo i loro. Sono piena di amici, familiari e persone vicine che tengono veramente tanto a me e io a loro: è un sostegno importante che riempie le mie giornate.
Cosa ti dava il cinema che il teatro non faceva o viceversa?
Sono linguaggi diversi della stessa materia. Il cinema ti richiede però un lavoro in sottrazione: si dice che è sempre bene fare meno. Cambia dunque lo stile di recitazione ma non l’impegno o il processo di studio: il metodo, per me, rimane sempre lo stesso. Studio le cose in teorie e poi cerco di metterle in pratica al meglio delle mie possibilità, facendo anche riferimento, come dicevo prima, al vissuto. Seppur sia diversa l’esposizione, amo cinema e teatro allo stesso modo, senza preferenza per l’uno o per l’altro. Ho imparato che entrambi arricchiscono i colori del bellissimo caleidoscopio che è il mestiere dell’attore.
Se avessi la possibilità di concretizzare il ruolo dei tuoi sogni, quale sarebbe?
A me piacciono i personaggi ‘secondari’. Di Romeo e Giulietta, interpreterei ad esempio volentieri Mercuzio ma non credo che me lo farebbero fare. Mi piacerebbe scardinare alcuni preconcetti legati ai ruoli che vengono definiti in Italia ‘caratteristici’, come se fossero di serie B. Ma il mio sogno più grande è che tutte noi attrici e tutti noi attori venissimo presi in considerazione per interpretare tutti e tutte, senza discriminante alcuna che non sia la bravura.
A proposito di carattere, come ti definiresti?
Sono una persona placida e tranquilla: detesto litigare perché credo di non riuscirci, non è nelle mie corde. Non amo le incomprensioni e amo le persone che parlano chiaro. Sono serena e molto riservata, generosa e talvolta pigra. Sono propensa all’ascolto e all’apertura nei confronti di tutti e amo la gentilezza come approccio, anche se non ne intravedo molta in giro: torniamo noi a essere quelli che fanno il primo passo e a essere gentili… apprezzo moltissimo la gente che ti sorride senza un motivo e senza nemmeno conoscerti. Nell’Idiota, Dostoevskij scrive che la bellezza salverà il mondo e quale bellezza può farlo oggi che soffiano venti asfissianti di guerra e l’ambiente grida pietà se non la gentilezza?
Ti rivedremo presto anche ne Il giudice T., nuovo lavoro di un maestro come Pasquale Scimeca.
Pasquale è sicuramente un grande professionista che sa fare molto bene il suo lavoro. Con lui, mi è accaduto qualcosa di inedito: molto spesso, con lui vale il “buona la prima” ma, senza voler sembrare autocelebrativa, mi è anche capitato che sia valso “buona la prova”. Ci aveva chiesto una prova per una scena che nel frattempo girava: ha mantenuto quella senza che la ripetessimo.
Cosa ti attende adesso?
La promozione di Flaminia mi sta coinvolgendo molto: sono molto felice e grata dell’attenzione che tu e altri colleghi e colleghe mi state riservando: per me, è un onore… e non lo dico per piaggeria. Entro maggio, poi, dovrò concludere alcune attività teatrali e poi vediamo che succede. Noi attori siamo sempre in attesa di risposte: gli esami non finiscono mai, come diceva Eduardo de Filippo, e quindi aspettiamo e capiamo cosa sarà. Per altro, ancora vige il silenzio però qualcosa bolle in pentola.
…gli esami e i giudizi non finiscono mai: siete costantemente sotto la lente del giudizio di tutti, dai casting director al pubblico.
Non nascondo che a volte è complicato: più si va avanti, più si fa fatica. Ma è la natura di questo lavoro: forse bisognerebbe che il nostro Paese avesse un po’ più di rispetto per attori e attrici. Spesso ci è negato anche di stare male o di concederci del tempo per vivere un lutto a causa di impegni e scadenze che vanno onorati e rispettati. Non si ha né il giusto rispetto né talvolta il giusto riserbo: è come se fossimo giullari di corte e non persone che hanno dietro studio, preparazione, fatica e impegno…