Roberta Rovelli è un'attrice che incarna la delicatezza e la complessità di chi, pur avendo trovato la propria voce nel mondo del cinema, continua a interrogarsi sul proprio percorso e le proprie emozioni. Il suo approccio alla recitazione è una ricerca costante di profondità, guidata da un bisogno intimo di esplorare se stessa e le dinamiche umane. Nell’intervista sincera e toccante che ci ha concesso, Roberta Rovelli svela le sfide che la maternità e la carriera le hanno posto davanti, e come queste abbiano contribuito a definire la sua arte e la sua interpretazione di Adele in Vermiglio, il film di Maura Delpero Leone d’Argento al Festival di Venezia e in uscita al cinema grazie a Lucky Red.
Roberta Rovelli descrive la sua partecipazione al film come un’esperienza quasi inaspettata, un progetto che inizialmente poteva sembrare piccolo ma che è riuscito a emergere con forza, trovando spazio in un mondo cinematografico dominato da grandi produzioni. La sua adesione al progetto è stata immediata, travolta dalla sceneggiatura di Maura Delpero che l’ha rapita sin dalle prime righe, durante un viaggio in treno. Le immagini, i personaggi, la storia: tutto le è apparso vivido, trascinandola in un mondo lontano dal mainstream, ma profondamente autentico e carico di umanità.
Il ruolo di Adele, la madre di Lucia, ha rappresentato per lei una sfida particolare, non tanto per la difficoltà di comprendere il personaggio, quanto per la necessità di immergersi in un femminile lontano dalle dinamiche moderne. Adele è una figura che trattiene le proprie emozioni, che vive in un contesto dove non si esternano sentimenti di rabbia o delusione come faremmo oggi. È una madre nel senso più antico e profondo del termine, sempre incinta, simbolo di una generazione per la quale la maternità era una realtà complessa, fatta di nascite e di lutti.
Roberta Rovelli riflette anche su come la sua esperienza di madre nella vita reale abbia influito nella comprensione di Adele. Essere madre, per lei, significa vivere una seconda vita, in cui i bisogni dei figli vengono prima di tutto, persino di se stessi. E questo sacrificio, questa dedizione incondizionata, sono tratti che ha trovato in Adele, permettendole di comprendere la profondità del personaggio e delle sue relazioni con gli altri. Ma riflette anche sulla sua esperienza, sicuramente non facile, di figlia, di bambina che per essere vista ha sentito l’esigenza di sparire.
Dietro questa artista si nasconde una donna che ha affrontato le proprie paure e insicurezze, specialmente legate alla malattia psichiatrica della madre, e che ha trovato nella recitazione una via di fuga e una forma di espressione. La sua timidezza e il bisogno di essere vista hanno fatto della recitazione non solo un mestiere, ma un mezzo per esplorare se stessa e il mondo che la circonda. Eppure, nonostante i successi, Roberta Rovelli rimane sempre alla ricerca di qualcosa di più profondo, di una pace interiore che ancora non ha trovato del tutto. Ma senza mai perdere il sorriso o la leggerezza.
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Intervista esclusiva a Roberta Rovelli
“Vermiglio è nato come un progetto che aveva dietro un desiderio e delle aspettative ma forse nessuno di noi immaginava che potesse avere davvero la risonanza e l’appoggio che ha ricevuto”, mi risponde Roberta Rovelli quando le chiedo come ci si sente ad aver preso parte a un film premiato al Festival di Venezia con il Leone d’Argento.
“Che un progetto piccolo riesca a farsi spazio, ascoltare, avere voce e arrivare, in questo mondo di pesci grandi e potenti, tra colossi e grandi star, evidenzia come c’è sempre un’altra possibilità: possono esistere entrambe le cose. E, proprio per questo, sarebbe bello che grandi e piccole produzioni possano convivere, partendo dall’idea che per fare del buon cinema non servono necessariamente i nomi o un mucchio di soldi ma basta una bella sceneggiatura”, continua Roberta Rovelli.
“Quando dopo il nostro primo incontro Maura Delpero mi ha dato la sceneggiatura, l’ho letta in treno tutta d’un fiato: sono stata catapultata dentro la storia senza mai alzare lo sguardo da quei fogli per tutta la durata del viaggio. Sono stata rapita dalle sue immagini, dal suo modo di raccontare e dalla storia in sé, che ha un fil rouge che porta avanti il tutto, ma anche dalla pienezza delle parole, dei personaggi, delle ambientazioni e delle situazioni”.
Un modo di fare cinema e di raccontare diverso dal mainstream, che ben conosci dal momento che hai preso parte a quello che è stato il titolo Netflix dell’anno, Fabbricante di lacrime.
Ma anche quella è stata un’avventura professionale incredibile sotto molto aspetti. Sono stata sommersa dai messaggi di molti giovani che, alla disperata ricerca di punti di riferimento, li hanno trovati in un film che ha permesso loro in qualche modo di evadere, immaginare e affezionarsi a dei personaggi.
In Vermiglio, interpreti Adele. Chi è per te?
Adele è la madre di Lucia e per me rappresenta uno dei modi di intendere il femminile racchiusi nella storia. Quando ho cominciato ad avvicinarmi al personaggio, ho provato a immaginare che potesse contenere anche un pizzico delle altre donne del film ma anche delle donne che hanno fatto parte della mia vita e che sono state i miei punti di riferimento e i miei affetti. Adele era per me come una grande pancia che racchiudeva al suo interno tante possibilità e sfumature di femminile.
Sfumature di femminile lontane per contesto socio-culturale da quelle che possiamo sposare e comprendere oggi. Hai faticato a calarti nei suoi pensieri?
No, assolutamente. Quando Maura Delpero me ne ha parlato, Adele aveva sin da subito qualcosa che risuonava in me, anche se la mia direzione è ben diversa dalla sua. Un esempio concreto di ciò che intendo è dato dal modo in cui si relazione con il marito interpretato da Tommaso Ragno: in un altro contesto, la reazione di una donna, di una madre e di una moglie avrebbe suonato tasti differenti, come la rabbia, la delusione e di conseguenza la voglia di farsi valere e alzare la testa.
Per Adele, invece, vale tutto il contrario. La sua è una reazione trattenuta: viene sì attraversata dagli stessi sentimenti ma non li esterna proprio perché non vive come oggi in un contesto in cui deve essere tirato fuori tutto ciò che ci passa per la testa. Le grandi emozioni e i grandi sentimenti non sono cambiati nel tempo, è cambiato semmai il modo in cui li veicoliamo verso l’esterno.
Ti ha aiutata essere madre nella vita reale di due figli?
Mi ha molto aiutata. Essere madre ti fa come vivere la tua seconda vita, quella in cui fai un passo indietro perché ti rendi conto che, prima di ogni cosa, anche di te stessa, ci sono i tuoi figli, con i loro bisogni, le loro parole e con la grande fatica che ti richiedono per portare a casa le giornate.
Adele è madre nel senso più profondo del termine. Intanto, è sempre incinta, qualcosa che appartiene a un’epoca che non conosciamo più, fatta anche di figli che nascevano e che poi, purtroppo, morivano anche. Parliamo di famiglie in cui la maternità era vissuta in maniera completamente diversa rispetto a oggi: si diventava genitori anche abbastanza presto perché i figli non erano solo bocche da sfamare ma anche braccia che avrebbero potuto aiutare in casa. Nell’arco dell’anno raccontato in Vermiglio, quindi, la pancia di Adele cresce parallelamente a quella della figlia Lucia, facendo sì che vivano la gravidanza quasi da sorelle più che da madre e figlia.
Essere consapevole di tutto ciò mi ha aiutata a capire profondamente Adele, le sue scelte, le sue relazioni e i suoi rapporti con ognuno degli altri personaggi.
La fatica che si fa a portare la giornata a casa riporta alla mente il discorso che Maura Delpero ha tenuto al momento della premiazione a Venezia: alle donne viene richiesto spesso il doppio del lavoro. Hanno le gravidanze nel tuo caso avuto conseguenze sul mestiere di attrice?
Le gravidanze, molto sinceramente, hanno stravolto la mia vita: è difficile riuscire a essere madri in questo paese e con un lavoro come il mio. Devi crederci ogni giorno fino in fondo perché si fa molta fatica a conciliare le due sfere: lavoro e maternità parlano lingue diverse, a meno che tu non sia una di quelle superstar richiestissime che si può permettere di avere dietro uno stuolo di babysitter o di persone che ti aiutano.
Essere madre e prestarsi a una professione che richiede di trasformarti nel profondo e di lavorare su te stessa non è semplice. La giornata non termina quando hai smesso di recitare perché poi c’è il ritorno a casa: tutti danno per scontato che, una volta varcata la soglia, tu ricominci esattamente da dove hai lasciato, con le lavatrici, la cura della casa o la cena da preparare. Ci sono sempre difficoltà dietro l’angolo.
Per Vermiglio, girato in due tranche, una d’estate e una d’inverno, ho lasciato ogni volte due figli a mio marito. Ciò ha richiesto un’organizzazione che è diversa da quella richiesta quando ad andare fuori per lavoro è un uomo, dalle attività più banali a quelle più complesse. La mia fortuna è stata però quella di avere un marito che mi appoggia, che comprende le mie esigenze, che mi aiuta e che è anche sveglio. Senza voler necessariamente fare critiche o differenze di genere, non sempre uomini e donne in casa sono intercambiabili.
Oltre a tuo marito, in chi trovi sostegno nel momento in cui devi gestire lavoro e famiglia?
In mio padre. Mi è sempre stato di grandissimo supporto, soprattutto con la maggiore dei miei figli (adesso, anche lui ha la sua età). È stato preziosissimo, anche per come ha esercitato la sua figura di nonno: con i suoi ritmi diversi dai miei, ha portato effettivamente un altro colore della vita. Ed è un bene che i figli piccoli si abituino ai colori dei nonni: noi genitori li abituiamo altrimenti solo a fare e a riempire… i nonni li aiutano invece a svuotare.
Tuo padre… tra le righe, si legge l’assenza di tua madre.
Purtroppo, sì. Ho avuto una mamma malata. Mi ha però amato molto e credo che questo mi abbia salvata dagli sprofondi che si possono toccare laddove c’è una malattia. Ho sempre avvertito il suo amore però sicuramente non ho avuto accudimento. Per me, il poter contare su mio padre è stato prezioso: ha accudito me e anche mia figlia in maniera simile: è stato un bel bilanciamento.
Cosa significa per te la parola “famiglia”?
È una parola che ha dentro tante sfumature sia positive sia negative. Famiglia può voler dire anche legami faticosi, a volte distruttivi. Può contenere tanta gioia ma anche tanto dolore, come nel caso della maternità: in gravidanza, ad esempio, non è tutto così positivo come lo decantano, almeno non lo è stato nella mia esperienza. Non dipingerei la famiglia con un solo colore ma con una pennellata mista: alti, bassi, grandi felicità e grandi sentimenti, ma anche le fatiche che comporta averne una, portarla avanti e cercare di fare qualcosa di buono sia con quella d’origine sia con quella che ti crei partendo da zero, per la quale nutri grandi aspettative e per cui cerchi di fare quel salto in più rispetto a ciò che hai avuto.
Parlando di Adele abbiamo ricordato che è sempre incinta. E la gravidanza cambia necessariamente il corpo di una donna. Che rapporto hai con la tua fisicità?
Ho sicuramente un buon rapporto. Tuttavia, le gravidanze sono state per me, comunque, delle grandi trasformazioni: non cambiano solo il corpo ma portano con sé cambi ormonali che ti rimettono in gioco in tutta la tua interezza, compresa la testa. E in più portano anche la ferita del parto: ogni tanto ce ne dimentichiamo ma di mio le sento ancora addosso, sia nel ricordo sia nei segni. Il parto ogni tanto è un atto molto violento e non solo romantico: non lo ricorderei come il momento più bello della mia vita… sì, ci sono stati dei frangenti bellissimi ma capita che, a volte prima di dormire, di ripensarci per dirmi che, per fortuna, è passata, l’ho scampata.
Dopo ogni gravidanza, il tuo corpo non è più quello di prima: devi far pace col fatto che non esiste più come l’hai conosciuto, devi abbandonarlo nel momento in cui rimani incinta. È una presa di coscienza molto forte, un distacco, un lasciare andare via per sempre…
Oltre che in Vermiglio, sei presente anche in un episodio di Brennero, serie tv di Rai girata curiosamente anch’essa in Trentino.
Sono protagonista di una delle puntate, con un personaggio del tutto diverso: un’assassina. Ho dovuto abitare qualcosa di molto lontano da me e all’idea di rivedermi mi verrebbe quasi da chiedermi “e ora chi sono?”.
È un po’ il fondamento della recitazione…
Ti chiedi chi sei ogni volta che ti approcci a un personaggio per capire quale strategia mettere in atto, se essere te stessa o se allontanartene. Fondamentalmente, recito perché mi piace guardare dentro me stessa e restituire ciò che può essere l’inferno o il paradiso che vedo. Recitare per me significa capire ogni giorno chi sono: è una ricerca continua che mi permette di conoscermi profondamente, guardarmi da lontano e distanziarmi. Ragione per cui ogni tanto è molto doloroso e faticoso, fino al punto da chiedermi qualche volta chi me l’ha fatto fare. Prima di entrare in scena, anche a teatro, non c’è mai stata una volta in cui sia stata felice o che non abbia pensato che avrei potuto fare tante altre cose nella vita.
Vermiglio: le foto del film
1 / 6E chi te l’ha fatto fare? Hai trovato una risposta convincente?
La mia origine. Vengo da una bambina che faticava a essere vista: ho quindi dovuto trovare un mio modo per esserlo. La malattia di mia madre era di origine psichiatrica, nel suo caso non aveva possibilità di guarigione e spazzava via tutto il resto, compresi i figli. Ero chiamata a farmi spazio attraverso la malattia…
Sono stata una bambina molto timida e introversa. Paradossalmente, per essere vista sono sparita ed è stata la recitazione che mi ha come tirata fuori da un buco: ho cominciato a studiarla a sedici anni approcciandomi a essa come a un gioco. È stato poi negli anni che ho compreso che quel piacere poteva essere una possibilità per la mia vita, una via di fuga per essere vista.
Che sensazione hai provato al primo applauso in scena?
Per carattere, incredulità. Faccio molta fatica a godermi l’applauso o a considerare che ho fatto bene: mi metto continuamente in discussione chiedendomi anche durante lo scroscio delle mani del pubblico cosa avrei potuto fare di meglio. Ed è un tormento continuo che non mi da pace e mi fa essere sempre alla ricerca di qualcos’altro. Che non è la perfezione o il riconoscimento da parte degli altri ma qualcosa di più profondo e intimo.
Non mi sono mai data da sola la grande pacca sulla spalla, anche davanti a delle cose grandi e dei bei successi. Sono arrivata soltanto a delle piccole pacche, non quella definitiva: me la darò quando avrò un po’ più di pace, anche se non so ancora bene cosa voglia dire. Non riesco a darle una forma.
Se dovessi descriverti con tre aggettivi quali sarebbero?
Sicuramente curiosa e disillusa. Il terzo ancora non ce l’ho: magari tra un anno l’avrò scoperto. Voglio lasciare aperta la possibilità: magari troverò l’aggettivo che manca nel momento in cui riuscirò a darmi quella pacca. Tutto ciò che mi definisce mi spaventa un po’: faccio fatica a chiudermi, anche perché le fasi della vita sono così tante che faccio veramente fatica a trovare aggettivi o parole chiave che mi contengano… c’è troppa roba che cambia da un periodo all’altro.
Hai mai avuto paura che la malattia di tua madre potesse intaccare in qualche modo la tua psiche?
Assolutamente sì. Per anni, ho vissuto con questa paura profonda ma mi hanno aiutata l’analisi e il lavoro profondo su me stessa. L’analisi mi è servita molto non a guarire dalle mie paure come in molti pensano ma a saperle riconoscere quando si ripresentano e ad anticiparle. Quando ti abitano, grazie all’analisi, riesci a dare loro un nome e a fronteggiarle e ciò mi ha cambiata: mi ha permesso di essere anche meno arrabbiata con me stessa e più docile. Da bambina rimanevo schiacciata dai fantasmi, non riuscivo a riconoscerli e temevo di ritrovarmeli nel letto, oggi grazie all’analisi posso chiamarli con il loro nome.