Le favolose è un film trans, esordisce così Roberta Torre nel presentarci in esclusiva il suo nuovo film, presentato alle Giornate degli Autori del Festival di Venezia come evento speciale. E del resto come darle torto? Le favolose è uno dei pochi film al mondo che presenta il mondo trans, raccontato dalle sue stesse protagoniste. Ma non è questa la sola ragione perché possiamo definirlo trans: se vogliamo rimanere nell’ambito del genere di appartenenza, Le favolose transita dalla finzione al documentario e viceversa in maniera fluida, senza rotture o interruzioni.
Con Le favolose, Roberta Torre ripercorre le storie di sette transgender (cinque in vita e due morte, per esigenza di storia) per concentrarsi su due temi di fondamentale importanza nel dibattito contemporaneo: l’identità e il corpo. Le protagoniste del suo film sono fiere di essere chi sono diventate ma per conquistare la libertà hanno dovuto combattere contro tutti quei pregiudizi che volevano limitarne l’identità stessa. Nascere uomo ma sentirsi donna è ciò che ha sempre accompagnato Porpora (Marcasciano) e le sue compagne, sin da quando da bambini si riconoscevano più con gli abiti delle sorelle o nel sesso della madre.
Non è facile conquistare la fiducia di cinque donne così diverse come Porpora Marcasciano, Nicole Di Leo, Sofia Mehiel, Veet Sandeh e Mizia Ciulini, le “favolose” del film di Roberta Torre. Eppure, la regista ci riesce rimanendo ai margini di una storia/racconto che si tinge di magia e si trasforma in atto politico. Le cinque ricordano i tempi della prostituzione in strada, quando erano i veri ammortizzatori sociali di un’epoca quasi d’oro, o il rapporto con la madre, fatto di vicinanza o di allontanamento. Come calamite, le favolose si attraggono le une con le altre, condividono le loro esperienze, mettono in piazza i loro sentimenti e, perché no, in un clima di fanciullesco confronto le loro gelosie e i loro dissapori.
Ma ciò che più conta è come le favolose vogliano rendere giustizia a una loro compagna, ingiustamente seppellita in abiti maschili da una famiglia che le nega quell’identità che si era data. Nel cambiare l’abito ad Antonia, le favolose centrano il punto fondamentale del film di Roberta Torre: chi ha il diritto di negarci la nostra individualità?
Di Le favolose (prodotto da Stemal Entertainment e Faber Produzioni con Rai Cinema), in sala come film evento dal 5 al 7 settembre grazie a EuroPictures, abbiamo parlato con la regista Roberta Torre. Definire Torre e il suo lavoro è pressoché impossibile. Ecco perché abbiamo lasciato a lei il compito di farlo, aprendo uno squarcio nel suo mondo cinematografico e non solo. Da quando ha esordito con Tano da morire sono passati 25 anni, durante i quali Torre è diventata un punto di riferimento per il cinema italiano grazie a film che lei stessa definisce “prototipi”. Prototipi di cui tutti quanti abbiamo bisogno.
Intervista esclusiva a Roberta Torre
Cos’è Le favolose? Come lo descriveresti a chi deve andare a vederlo al cinema?
Le favolose è il film trans per eccellenza perché le protagoniste al centro del racconto sono trans. Sono loro che raccontano le loro vite e i loro percorsi. Lo definisco come una sorta di Grande freddo trans. Sono tutte donne sulla settantina, a eccezione di una, che incontrandosi in una grande casa ripercorrono come hanno vissuto e attraversato il passaggio del tempo dalla fine degli anni Sessanta a oggi.
Il motivo del loro incontro è il desiderio di far tornare in vita una di loro che è stata sepolta con vestiti che non le appartenevano. La sua famiglia ha scelto per il funerale abiti maschili quando in realtà lei era una donna. Le sue amiche, a distanza di tempo, vogliono dare giustizia alla loro compagna. E hanno l’idea folle, sgangherata ma anche molto evocativa, di fare una seduta spiritica per rievocarla. La seduta ha luogo e riescono a ritrovarla e rivestirla rimandandola nell’aldilà finalmente “favolosa” così come lei voleva essere.
Il discorso che fai sul vestito dona al film un forte messaggio politico e sociale. Mai nessuno finora si era concentrato sul cosiddetto dead name. Quando parliamo di diritti civili, dimentichiamo sempre che chi affronta un processo di transizione per lo Stato rimane legato al sesso di partenza fino a quando questo non è completo. E, in più, nel momento della morte corre il rischio di vedersi tornare nelle mani di chi non ha mai accettato il suo duro percorso. È una questione che andrebbe sollevata.
No, è un diritto civile che necessiterebbe di una legge apposita, un diritto universale che porrebbe fine a una sorta di abuso alla memoria di chi è mort*. Ognuno di noi, nel momento della morte, vuole essere ricordato per quello che è stato in vita e non per quello che gli altri pensavo che fosse: sarebbe il torto più grosso che gli si potrebbe fare. Cosa c’è di più grave che dare un’identità diversa a chi non c’è più e non può più reclamare la propria? È una violenza inaudita. Essere ricordati per quello che si è è un diritto universale inalienabile.
Questo aspetto dal tuo film viene sottolineato da due figure differenti già morte. Da un lato, c’è Massimina, sepolta in abiti femminili. Dall’altro, c’è invece Antonia, sepolta in ambiti maschili. I vestiti hanno conseguenze anche nella loro vita futura, nell’aldilà che hai immaginato. Massimina ce l’ha fatta a rimanere se stessa mentre Antonia non riconosce quasi la sua immagine allo specchio.
Massimina vuole cambiare l’abito con cui è stata sepolta per un motivo di vanità. È una donna riconciliata con la vita che ha vissuto e, anche in morte, ha la possibilità di avere abiti femminili. Antonia, invece, no. È scioccata dal vedersi in abiti maschili ed è come se le venisse negata la possibilità di vivere la sua dimensione. È chiaramente surreale come visione ma restituisce l’idea di come anche nell’aldilà non si possa essere quello che si è per via della “burocrazia”.
Per la storia di Antonia hai attinto a una figura realmente esistita?
No, non ho avuto un riferimento reale. Ho letto tutti i libri di Porpora Marcasciano e dentro questi libri c’è sempre la storia di una di loro che, in punto di morte, veniva riacciuffata da una famiglia. Una famiglia che poi la rivestiva da uomo e organizzava funerali in gran segreto, negando tutto ciò che era stato. Ce n’erano parecchie di storie simili a quella di Antonia: non ne rappresenta una specifica ma la sua è un po’ la sintesi di tutte quelle morti raccontate da Porpora.
A proposito di Porpora, hai visto il recente documentario di Roberto Cannavò dedicato alla sua figura?
L’ho visto ma è un documentario a tutti gli effetti che non ha influito sul mio lavoro. Non ho mai pensato di fare un film solo su Porpora: Le favolose è sempre stata un’idea collettiva. Porpora è stata la mia ancora, la mia Virgilio per entrare nel mondo trans. Avevo letto tutti i suoi libri, che erano e sono degli affreschi straordinari su quell’universo.
In un momento in cui tutti parliamo di uguaglianza tra le persone, Le favolose è un film che esalta l’unicità.
Siamo tutti diversi ma non a categorie. Siamo tutti diversi uno per uno. La qualità individuale va preservata nel rispetto dei diritti di tutti. La diversità è quella che ci fa assolutamente, come dire, trovare un senso alla vita. Poi, chiaramente, siamo uguali sotto altri profili ma non sotto quello dell’identità. La cosa che ci rende vivi e umani è lo stupore di fronte alla diversità, che va accolta e preservata.
Alla luce delle cronache politiche di questi ultimi tempi, se dicessero che la transessualità è una devianza, cosa replicheresti?
Oggi siamo tutti deviati, non si capisce per quale motivo. La devianza è sempre qualcosa che va vista rispetto a un’altra. La domanda da fare in questi casi sarebbe: Devianza rispetto a cosa?. Vorrei la risposta. Portare avanti ragionamenti sulla devianza presuppone che ci sia qualcosa da cui allontanarsi, non esiste la devianza in assoluto. Vorrei che chi ne parla mi facesse capire cosa sia ciò che non è devianza. E allora bisognerebbe discuterne perché è una questione di potere.
Se la devianza viene stabilita in base al potere, è il potere che detta le regole. È una questione di egemonia culturale, di sopraffazione. Non c’è alcuna base teorica. Viviamo in un momento in cui i corpi sono considerati il campo di battaglia del potere.
E i corpi sono fondamentali in Le favolose, il tuo film. Non solo i corpi morti ma anche quelli ancora in vita, martoriati dalle esperienze che hanno vissuto. Come hai scelto le storie da raccontare?
È un lavoro che ho fatto insieme a Porpora. Il casting vero e proprio lo abbiamo fatto insieme: lei ha scelto delle storie e tra queste abbiamo optato per quelle più esemplari. Ogni storia è diversa dall’altra per ragioni differenti: dall’età anagrafica ai percorsi di vita. La diversità mi permetteva di portare avanti quel discorso che affrontavamo prima sull’unicità.
Ogni vicenda è diversa ma tutte condividono la storia del percorso verso la transizione. C’è la storia di Sofia, la più “giovane” del gruppo che si è trovata la strada già spianata: lo dice esplicitamente, “senza di loro, non sarebbe stato facile fare quello che ho fatto”. C’è la storia di Mizia, il padre di famiglia che sceglie di essere una “terra di mezzo senza rimpianti”. Ci sono le storie di Porpora, che oggi è attivista ma lo è dopo aver attraversato tante altre strade, e di Nicole, che aveva cominciato con il mondo dell’arte e con il teatro. E c’è la storia di Sandeh, che ha conosciuto anche la tossicodipendenza.
Tutte e cinque le storie convergono in una sorta di Simposio in cui ripercorrono delle tappe fondamentali del loro percorso. La prima tappa è inevitabilmente legata alla prostituzione che hanno praticato. Transessualità e prostituzione sono da sempre stati legati come se fossero sinonimi. In Le favolose, però, la prostituzione viene vista anche come un inno alla libertà per molti versi.
La scelta della prostituzione se vogliamo non era del tutto libera. Non avevano altra scelta dal momento che la società, che le aveva poste ai margini, non offriva loro nessun’altra possibilità di lavoro. Tuttavia, il mondo della prostituzione che hanno vissuto loro era diverso da quello di oggi. Ovviamente, nessuna di loro nega la violenza all’interno della prostituzione ma tutte riconoscono all’attività un valore fondamentale. Porpora, colei che in qualche modo ha più una coscienza politica di tutta la loro esperienza, lo dice chiaramente: “senza la prostituzione non saremmo qui”.
Se non avessero venduto il loro corpo, nessuno avrebbe dato loro da vivere. Non erano accettate dalle famiglie e la maggior parte di loro veniva sbattuta fuori di casa. La prostituzione era il loro lavoro: per usare le parole di Porpora, un tempo lavoro senza il tempo. Gestivano le ore da dedicare alla professione e non avevano i famosi protettori, i papponi. Costoro si rifiutavano di proteggerle in quanto le ritenevano uomini. Oggi, in qualche modo, il mondo del lavoro offre alle persone transessuali altre possibilità ma allora non c’erano alternative.
Al di là dell’aspetto “marxista”, la prostituzione aveva anche un aspetto immaginario e immaginifico. Apriva gli scrigni di quello che era l’immaginario maschile del mondo italiano. Come dice Nicole, le transessuali erano gli ammortizzatori sociali del loro tempo. Una frase straordinaria che racconta e dice tutto. La libertà della loro prostituzione era mentale: ha permesso loro di avere una serie di visioni uniche del mondo erotico e sessuale maschile. Mi hanno raccontato storie, che poi non ho messo nel film, sui clienti (ognuno con le proprie problematiche personali o le proprie visioni) che sono straordinarie. A una di loro ho anche suggerito di scriverci sopra un libro: ne verrebbe fuori una bomba. E da questo punto di vista hanno una vera e propria Divina Commedia da poter raccontare.
Un altro aspetto che quasi tutte le protagoniste affrontano è legato al rapporto con la figura materna. Ognuna delle tue protagoniste ha un rapporto proprio con la madre. In particolar modo, c’è la storia di Sandeh, che nel momento in cui va a trovare la madre si sente dire “Beata te che puoi essere ciò che vuoi” mentre la madre è succube di un uomo violento. Mi colpisce questa sorta di parallelismo con la figura femminile odierna, se vogliamo: hanno forse le transessuali da un certo punto di vista fatto molto più passi avanti nelle lotte femministe rispetto alle donne stesse?
Quasi tutte le mie protagoniste hanno o hanno avuto un rapporto viscerale con la madre. Le madri erano spesso coloro che le proteggevano o con cui avevano una fortissima intimità. Basta prendere in esame, ad esempio, il ricordo di Nicole, che ha ancora chiari gli odori del corpo della madre e la percezione emotiva legata a essi. Ho pensato molto ai bambini che erano state e il legame materno mi è sembrato fondamentale per raccontarle.
Non so se, per rispondere alla tua domanda sul femminismo, abbiano le persone transessuali fatto più delle donne stesse. Di sicuro, però, la sorellanza tra di loro è un elemento fortissimo. L’ho sentito mentre giravamo e continuo a sentirlo ancora oggi tutte le volte che parliamo. Percepisco il legame di protezione che hanno l’una con l’altra, anche dei loro corpi. E ciò inevitabilmente riporta alla madre e al corpo della madre. Lo stesso corpo che ti accoglie e che ti partorisce. Tant’è che capita spesso che molte di loro si prendano cura delle loro madri anziani o malate: è un po’ come se volessero proteggerle fisicamente.
Mentre il legame con la madre può essere favorito anche da una sorta di trasfert psicologico, è quasi del tutto assente il legame che le favolose hanno con il padre.
In realtà Sandeh me ne ha parlato molto a lungo ma fuoricampo. Quasi tutte hanno avuto un rapporto abbastanza tranquillo ma anche conflittuale non solo con il padre ma con la figura maschile in generale. Nel caso di Sandeh, il padre in certi momenti l’ha aiutata ma mai in maniera diretta, lo ha fatto sempre attraverso mediazioni.
C’è poi tutta una parentesi interessantissima che non potevo riassumere nel film in pochissimo tempo e che riguarda alle volte anche la visione omosessuale dei padri. È venuto fuori dai discorsi fatti che il più delle volte i padri che rifiutano in toto l’identità delle figlie sono quelli che le figlie poi scoprono aver avuto in passato inclinazioni o esperienze omosessuali. È stranissimo: detta così, sembra una questione superficiale ma andrebbe indagata e approfondita. Ma è una sorta di costante che ritorna: era come se quei padri avessero avuto la paura di qualcosa che loro stessi avevano vissuto o vivevano.
Al di là delle cinque protagoniste, centrale in Le favolose è la casa, la villa all’interno della quale sono state tutte felici.
Leggendo i libri di Porpora, era sempre evocato un luogo, quasi magico, all’interno del quale in qualche modo si sentivano protette. Per tutte era una sorta di castello o di baluardo che le separava dal mondo esterno. Un po’ come a Casa Susanna, al centro di un altro documentario presentato quest’anno sempre al Festival di Venezia. Conoscevo la storia di Casa Susanna, mi ha sempre stregata e affascinata. Quindi, in qualche modo mi piaceva l’idea di renderle omaggio sintetizzando in una sola casa tutti quei ventri in cui le protagoniste si erano rifuggiate in un momento particolare della loro vita.
E una delle cose più divertenti che accadono all’interno di questa casa è legata alla lettura del “testamento” di Antonia e alla spartizione dei suoi beni.
Un’eredità che concretamente non esiste più diventa motivo, quasi surreale, di litigio. Quella sequenza permette anche di sorridere perché mostra tutta l’umanità e il lato infantile delle mie protagoniste. Lascia emergere quel bambino che è rimasto dentro loro e che ha permesso loro di sopravvivere a tutto. Le battute erano ovviamente scritte ma le reazioni e le emozioni delle protagoniste sono totalmente improvvisate, come anche il litigio in bagno, frutto di anni di incomprensioni passate ma forse anche attuali.
Nei titoli di cosa, ringrazi Silvia Calderoni e Cristina Sardo. Come mai?
Silvia, con cui avevo lavorato in Riccardo va all’inferno, è stata la prima persona che mi ha parlato di Porpora e che mi ha messa in contatto con lei. In una primissima ipotesi di film, avrebbe dovuto interpretare lei la parte di Antonia ma poi per tanti motivi, anche di non corrispondenza temporali, non ha potuto. È, tuttavia, rimasta molto vicina al progetto.
Con Cristina, invece, abbiamo affrontato tutta la prima parte del progetto dal momento che Torino Film Commission ha dato un sostegno iniziale per lo sviluppo.
Hai terminato le riprese di Mi fanno male i capelli, ispirato in qualche modo alla figura di Monica Vitti?
Si, ho finito il montaggio. La protagonista è Alba Rohrwacher, che dietro al suo aspetto tenero e delicato nasconde una personalità molto forte. Il film non è ispirato alla biografia di Monica Vitti ma è la storia di una donna che perde la memoria e si identifica nei personaggi da lei interpretati. Mi piaceva l’idea, tipo La rosa purpurea, di una donna che entrasse nei film che le piacevano. Avevo letto che esiste a proposito la cosiddetta sindrome di Korsakov, una sorta di malattia mentale che porta chi ne soffre ad avere delle allucinazioni e a parlare, per esempio, con i personaggi della televisione.
Che ne è stato invece del proposito di dedicare un film alla figura di tuo nonno, l’inventore della mitica Lambretta?
Purtroppo, non siamo riusciti a trovare abbastanza soldi. Ho cullato il progetto per un po’ ma poi sono dovuta passare ad altro. Sarebbe un film in costume e di conseguenza richiederebbe un budget importante. Ma non ho perso del tutto le speranze: è un film sulla mia famiglia, in un certo senso posso farlo quando voglio. Non credo che interessi ad altri come storia. Alcune cose del nonno sono state messe anche in Le favolose. I filmati in bianco e nero del bimbo che si vedono nel film sono filmati d’epoca: sono stati realizzati da mio nonno e il bambino non è altro che mio padre.
Tra l’altro, quei filmati permettono di capire anche il lavoro che hai fatto tu sui formati di Le favolose.
In un primo momento, avrei voluto realizzare tutto il film in Super8. Ma tenevo anche tanto alle interviste e alle parole delle protagoniste, ma chiaramente le scene non potevano essere girate in Super8. Ciò non mi ha però tolto il desiderio di giocare e mescolare i formati.
Ciò che stupisce è come il tutto sia fluido e non si avvertano interruzioni.
Avevo inizialmente dei dubbi. Ma ho poi notato come il passaggio dal formato rettangolare al formato quadrato e viceversa fosse fantastico. Funziona moltissimo nella narrazione, non dà fastidio e amplifica il senso sia del passato sia del presente. È diventato un linguaggio vero e proprio.
Chi guarda ha come la sensazione che quelle immagini in bianco e nero siano state realizzate appositamente oggi.
E invece no. Le avevo fatte riversare in digitale da molti anni. Ne ho tantissimi di quei filmati e, quando ho pensato che per Le favolose mi ci voleva un bimbo, non ho avuto dubbi sull’usarli. Anche perché è difficilissimo oggi ripetere quegli scenari del passato.
Per chi non lo sapesse o non lo ricordasse, Le favolose non è il tuo primo racconto di non finzione.
Ho cominciato con il documentario forse ancor prima di Tano da morire, il mio primo lungometraggio. Il mio lavoro è, comunque, sempre prima di tutto documentario, anche per prendere confidenza con gli argomenti da trattare. A volte prende la forma di film di finzione, altre volte no.
Quanto Le favolose devono a Tano da Morire? In cosa è cambiata Roberta?
Tano da morire e Le favolose sono due prodotti lontanissimi nel tempo, sono in questo momento quasi i miei estremi. Non so quanto Le favolose debba a Tano. In quel film era molto forte il lavoro sul territorio, tant’è che spesso lo definisco un documentario neorealista.
Ancora oggi, a Palermo, alla Vucciria in molti locali sono esposte le foto di lavorazione di set.
È stato un delirio meraviglioso e assoluto, una tappa fantastica e indimenticabile. Palermo è sempre rimasta nel mio cuore, è il luogo del mio immaginario. È una città a cui devo tanto e che mi deve anche tanto. Sono passati più di 25 anni da quando è stato realizzato, eppure Tano da morire è un film ancora intatto: è rimasto nella memoria non solo di chi l’ha fatto ma anche delle generazioni che lo hanno visto molto dopo.
È un classico, lo dico io senza paura di smentite. E, aggiungo, firmato da una giovanissima regista che aveva per la prima volta sulle spalle il peso di un lungometraggio.
Mi hai chiesto cosa fosse cambiato in me. Non so cosa sia mutato ma so che cosa è rimasto: l’incoscienza c’è sempre. Chiaramente, ora è un’incoscienza diversa in grado di schivare in qualche modo tutte quelle che sono le insidie dell’esperienza. Perché l’esperienza da un lato ti dà ma dall’altro ti toglie. Cerco sempre di trovare delle cose che non siano mestiere, che non siano maniera, che non siano alla modalità di Roberta. Io cerco sempre mondi nuovi.
Ti sei mai sentita una regista ai margini?
Io non mi sento ai margini. Sinceramente, mi sento bene al centro del mio mondo. Poi, chiaramente le sorti commerciali dei film e la loro storia non dipendono da chi li fa. Dipendono semmai da un sistema che alle volte funzione e alle volte no.
Ci salutiamo con la più difficile delle domande: definisci Roberta Torre.
Io sono un mutante con un cuore classico, come il cornetto di una nota marca di gelati. Anch’io mi sento profondamente trans: transito continuamente.