I La Maschera del giovane cantautore napoletano Roberto Colella sono una delle più belle realtà del panorama italiano. Per capire quanto sono popolari nel loro territorio basti pensare che quest’estate sono riusciti nell’impresa titanica di riempire Piazza del Plebiscito, di certo una piazza non facile.
Eppure, le canzoni dei La Maschera sono lontani da tutto ciò che oggi la musica napoletana rappresenta nell’immaginario collettivo. Se vi aspettate di trovare temi cari ai neomelodici, vi sbagliate. I La Maschera affondano le loro radici nella Napoli di Masaniello, quella in cui il cantautorato ha ancora qualcosa da dire e un’idea da portare avanti.
Non stupisce dunque che Sotto chi tene core, l’ultimo album dei La Maschera con tutti i testi (a eccezione di uno) firmati da Roberto Colella, sia dedicato a qualcosa di cui tutti noi oggi parliamo: la resistenza. Attenzione, però: la resistenza scritta e cantata da Roberto Colella non ha alcun colore politico. E non ce l’ha per la voglia di non buttare al vento ciò che più conta all’autore: la resistenza sociale. Che vuol dire anche resistenza culturale.
E di resistenza Roberto Colella e i La Maschera ne sanno qualcosa. Il frontman della band è cresciuto a Villaricca ma la madre era originaria di Scampia, quel quartiere troppo spesso tirato in ballo per parlare solo di degrado e illegalità. Eppure, Scampia è anche il regno di Gridas, il collettivo voluto da Mirella e Felice Pignataro per risvegliare Napoli da un sonno metaforico e reale.
Roberto Colella ha solo 31 anni ma ha le idee ben chiare sui gesti eroici, sugli invisibili del nostro tempo e sugli uomini semplici, come raccontano le canzoni dei La Maschera. È giovane, anche se è convinto che fino a settant’anni si rimanga tali. “Mi sto ponendo molte domande sul tempo, argomento su cui credo sarà incentrato il prossimo disco”, ci dice prima di quest’intervista esclusiva, realizzata alla vigilia della pubblicazione di Napoli, 1943 un racconto breve di cui avrà modo di parlarci.
Intervista esclusiva a Roberto Colella, frontman dei La Maschera
Sia Sotto chi tene core, l’ultimo album di La Maschera, sia Napoli, 1943, il racconto che hai appena pubblicato, parlano di resistenza. E suonano estremamente attuali in un momento storico come questo in cui la resistenza, al di là della sua valenza politica, è ciò a cui tutti siamo chiamati.
Per me è stato incredibile. Sia il disco sia il racconto hanno dietro anni di lavoro, non sono stati realizzati da un giorno all’altro, ed è impressionante la tempistica con cui sono usciti.
La resistenza è qualcosa che si impara a conoscere sin da piccoli quando di cresce in un terreno di periferia. Le periferie, da quella di Milano a Palermo, si somigliano tutte. Hai davanti a te solo due possibilità: il percorso sbagliato o la voglia di riscatto.
Mia madre è originaria di Scampia mentre io sono cresciuto un po’ più in là a Villaricca, che sempre territorio di periferia è. Io ho scelto sicuramente il secondo: la fame di riscatto, la voglia di mangiarsi il mondo, aiuta.
Com’è nato Sotto chi tene core, il brano che dà il titolo all’intero album?
La canzone è nata da un esercizio che facevo con il sassofono, suonavo il riff che si sente nel ritornello. Avevo scritto quasi tutti i pezzi del disco e cercavo un punto di contatto, un trait d’union che potesse collegarli. Mi è allora venuta in mente l’idea di accomunare i vari personaggi di cui si cantava con un solo grido di battaglia.
Il titolo è ripreso da u film che stavo riguardando per l’ennesima volta, Le quattro giornate di Napoli, il film per la cui realizzazione Nanni Loy si rovinò. Nel film, c’è una scena secondaria che dura pochissimi secondi in cui una comparsa nell’incitare la popolazione contro i tedeschi dice “Sotto chi tene core”. Core, senza un articolo davanti, sta in quel caso per coraggio. Ma è anche la parola che usiamo per indicare cuore. Mi è sembrata allora perfetta come frase per entrambe le tematiche del mio album, ovvero tematiche sia di resistenza sentimentale sia di resistenza sociale.
Sotto chi tene core è quindi nata come un prologo che accomunasse tutti i personaggi: era il grido di battaglia che ognuno di loro poteva enunciare in un momento particolare della propria vita.
Nel video della canzone sono presenti sei differenti idee di resistenza.
Il video rafforza l’idea di prologo. Nelle immagini si possono intravedere quelli che sono i personaggi delle canzoni dell’album attraverso una semplice azione o un semplice frame. Lo abbiamo fatto uscire mesi prima della release dell’album per dare un’idea di cosa si sarebbe cantato nelle successive canzoni e per creare l’atmosfera giusta all’ascolto.
Non a caso è stato quello che in gergo si definisce singolo apripista.
Esatto. È stato un modo “elegante” per dare spazio ai vari personaggi che sarebbero venuti dopo. In sottofondo, ad esempio, si intravede già la storia di Mirella e Felice Pignataro: c’è una scena girata al Gridas in cui sono presenti gli attori che avrebbero poi interpretato i due nel video della canzone Mirella è Felice.
Vivere è resistenza. Cos’è per te oggi la resistenza? L’accezione che ne esce dall’album è chiaramente sociale e non politica.
Ho cercato di stare il più lontano dalla collocazione politica temporale e da qualcosa che bloccasse il disco in un determinato momento storico. La mia attenzione era puntata il più possibile alle tematiche sociali. La resistenza è rappresentata da tutte quelle micro azioni che, nel loro piccolo, significano invece tantissimo. Oggi la resistenza è difficile da contestualizzare. Dovremmo in primo luogo partire dall’idea di resistenza culturale, un problema enorme in Italia: dalla gestione del bene pubblico al tasso di alfabetizzazione, tra i più bassi in Europa. L’Italia è anche quel Paese in cui si parla tanto di libertà di stampa e che pretende di dare lezioni di democrazia agli altri senza però guardare ai suoi tanti problemi anche in quel campo. Si sente veramente l’urgenza di una resistenza e, quindi, del bisogno che ogni individuo migliori se stesso per far del bene anche agli altri.
Resistenza è anche accettare il furto della propria automobile con dentro tutti gli strumenti, com’è accaduto a te qualche tempo fa. Ne hai parlato con un post sui social che ha destato parecchio scalpore.
È l’amaro prezzo del vivere in periferia e dell’impossibilità di lottare contro determinate forze, che poi sono in sintesi anche estremamente collegate allo Stato. Le definisco infatti “l’altro Stato”, quella fascia debole di popolazione che viene completamente ignorata dalle istituzioni. Non si fa nulla per cercare di risanare la loro situazione: è un problema cultura che poi sfocia inevitabilmente nella politica. All’interno dell’altro Stato lo Stato non arriva proprio. Non arriva attraverso l’istruzione ma nemmeno attraverso tutto ciò che concerne la legalità.
La legalità non è semplicemente il sistema di leggi o di pene che trascorrerai in carcere. Ma è anche quel sistema complesso di norme e valori che andrebbero rispettati da tutti quanti, di diritti e di doveri.
Come me, anche tu provieni dal sud. E sai come vivere al sud significhi far parte della sezione di stivale che è totalmente dimenticata. Conviviamo purtroppo con questa croce.
Quello del Gridas, di cui si racconta in Mirella è Felice, è invece un esempio di “altro Stato” positivo.
Assolutamente sì. Come quasi tutti i centri sociali, è la risposta dell’altra cultura, di quella che cerca di portare qualcosa in più laddove manca. Il Gridas è nato con questo obiettivo, come ha più volte dichiarato Felice Pignataro quando era ancora in vita. Ha portato cultura e speranza là dove c’erano solo baracche, problemi enormi e mancanza di servizi. Quando è stata creata Scampia, furono catapultate in quell’ammasso di cemento oltre 60 mila persone. 60 mila persone che non disponevano di nessun tipo di servizio.
Il Gridas è partito dalla necessità enorme di portare qualcosa da offrire alla gente. La prima cosa fatta è stata quella di portare nelle baraccopoli degli insegnanti che potessero dare lezioni ai bambini. E tra queste insegnanti c’era anche Mirella, la compagna di Felice. Insieme, Mirella e Felice hanno creato la loro contro scuola come risposta alla scuola tradizionale: la loro era una scuola che parlava un linguaggio molto più vicino alla strada e che aiutava i ragazzini a comprendere quali erano le scelte giuste e quelle sbagliate.
La loro idea di fondo non era quella di portare i ragazzi a distruggere gli schemi ma di renderli partecipativi. Un esempio concreto era dato dal come capire la poesia. Anziché fare l’analisi del senso della poesia, loro ne insegnavano la comprensione. Fornivano gli strumenti adatti e utili a capire che cosa volesse dire il poeta con le sue parole.
Lo stesso discorso può essere esteso anche ai murales. Felice Pignataro ne ha realizzati 200…
…coinvolgendo tutti i ragazzi del quartiere e lasciando un esempio enorme. Felice è stato veramente un gigante e andrebbe ricordato di più soprattutto per la filosofia che ha creato e che ha cercato di diffondere.
La filosofia di Felice è la stessa che La Maschera ha cercato di riportare anche nel video di Mirella è Felice, realizzato con gli attori dell’associazione Mario Monti. È quasi una performance d’arte in cui si inneggia al risveglio.
L’idea era quella di creare una Napoli sospesa e dormiente che ha bisogno di un risveglio. I ragazzi dell’associazione Mario Monti sono stati straordinari. Non era scontato che accettassero di sdraiarsi per terra e sulle scale di una città non proprio pulita… Sono stati eccezionali nel prestarsi a ogni richiesta e nel ricreare insieme a me la copertina del disco, una sorta di Quarto Stato con La Maschera che porta avanti tutta la gente.
A proposito del nome della band, tu hai una vera e propria passione per le maschere e il loro disegno.
Mi piace disegnare di tutto: il disegno per me è uno sfogo. Uso il disegno anche per creare ciò che mi serve: dalla grafica del gruppo alla copertina dei dischi c’è sempre la mia mano dietro.
Cosa rappresenta per te la maschera?
Dal punto di vista musicale, la maschera rappresenta la possibilità di affrontare qualsiasi genere: ogni volta è come se ne indossassi una differente. Dal punto di vista filosofico, invece, rappresenta la verità: la derivazione letteraria della parola maschera dal greco è quella di persona. Per cui, è quasi l’opposto di ciò che tutti pensano: la maschera non serve a nascondersi ma a svelarsi per quello che si è come persona.
La maschera ti poggia sul viso e ha il potere di farti assumere qualsiasi espressione soltanto con il labbro inferiore. Sta a stretto contatto con la tua carne, è qualcosa che ti sta addosso e con cui si crea un contatto diretto. Non c’è dunque niente di più autentico.
Mirella è Felice è il brano che racchiude in sé tutta l’essenza del tuo disco perché è quello in cui maggiormente i sentimenti incontrano l’impegno sociale. I due vorrebbero “vincere la guerra” soltanto l’uno per l’altra, come atto e gesto d’amore.
Ogni canzone ha chiaramente un suo sottotesto. Quello di Mirella è Felice racconta in particolare la storia del Gridas, come dicevamo prima. In superficie, invece, può essere vista come le lettere che si scrivono due amanti o due persone che si vogliono bene. Senza di te mi perderei anch’io, l’uno senza l’altra non saprebbero dove andare e, probabilmente, senza Mirella si sarebbe perso anche il ricordo della figura di Felice. Ecco perché la e del titolo è un verbo e non una congiunzione.
L’amore in quanto sentimento torna in altri tre brani del disco: Chi se vo’ bene, ‘A cosa giusta e Se mai fossi. Se ne canta ogni volta con sfumature diverse e insolite. Nel primo si parla della costanza (ma anche nella colpa), nel secondo dell’ipocrisia e nel terzo nella sua accezione più politica mettendo in scena una sorta di Sliding Doors. Qual è la tua idea di amore?
L’amore per me è la ricerca continua del sentimento più puro. Ma è complicato parlare d’amore: è la cosa più difficile di tutte. Questa è la ragione per cui ne parlo in tre modi tra loro diversi.
Chi se vo’ bene ne parla dal punto di vista del resistente, sostenendo come l’ingrediente segreto sia la costanza. Fa riferimento anche alle colpe ma presenta diversi collegamenti anche con altre canzoni che ho scritto, a cominciare dalla prima canzone che ho scritto, Pullecenella, con il suo riferimento alla notte.
Se mai fossi è la cover di una canzone di Vitorino Solomé, uno dei più grandi cantautori portoghesi. Sembra una filastrocca a primo ascolto ma è in realtà una canzone a metà tra il sentimentale e il politico. Vitorino è stato il cantore della rivoluzione portoghese, la rivoluzione dei garofani, ed è ancora in vita: per me, rappresenta il punto di riferimento massimo che potessi conoscere di persona del concetto di resistenza. Fare una chiacchierata con lui è qualcosa di illuminante. Ha 82 anni e, quando sono stato in Portogallo per il Primo Maggio, mi ha mostrato delle cose allucinanti legate alla storia del suo paese, a cominciare dai luoghi cruciali per la rivoluzione. Non c’era autore più indicato di lui per una cover da inserire in Sotto chi tene core.
In un verso di Se mai fossi, si dice “soffre tanto chi sta lontano, stanco è chi non ha compagnia”.
Vitorino è l’esempio lampante di quanto importante sia l’aspetto collettivo quando si parla di resistenza.
In ‘A cosa giusta invece lavori in maniera anomala rispetto alla tua produzione: hai composto le musiche per un testo scritto da qualcun altro.
L’unica cosa che potesse spingermi a farlo è la connessione umana che ho con l’autore del testo, Alessio Sollo: siamo come fratelli. Quando Alessio ha scritto il testo, che aveva anche un titolo diverso, me lo sono sentito addosso. Abbiamo allora deciso di completarlo insieme. Se non ci fosse stato questo rapporto strettissimo tra noi due, non sarei mai stato in grado di sentire mie le sue parole.
Anche perché tu dai alla scrittura un peso fondamentale.
Enorme, quasi totale. La scrittura è quell’aspetto su cui tendo a lavorare fino al momento prima della registrazione di una canzone. Faccio attenzione a tutto, anche alle congiunzioni. Quando riesco a trovare l’equilibrio perfetto, mi emoziono.
Sotto chi tene core racconta anche di esempi concreti di resistenza. In Conosci Thomas? racconti quello di Thomas Sankara, l’ex presidente del Burkina Faso che, nel provare a ristabilire un minimo di democrazia nel suo Paese, ha finito con l’essere ucciso dal suo migliore amico. Cosa ti porta a raccontare la sua storia a una generazione che non solo conosce Sankara ma che forse a stento sa dov’è il Burkina Faso?
È vero ciò che dici e ne ho avuto la prova la prima volta che ho suonato la canzone. Durante i miei concerti, cerco sempre di spiegare qualcosa sulle canzoni che sto per eseguire. Quando ho chiesto se qualcuno conoscesse Sankara, su migliaia di persone presenti solo qualcuno ha alzato la mano, due o tre persone al massimo. E ciò mi ha fatto capire quanto importante sia stato aver scritto Conosci Thomas?.
Se si vuol parlare di resistenza, il modo migliore per farlo è quello di portare ad esempio storie degne di essere conosciute ma che vengono ignorate ancora oggi. Il desiderio di raccontare Sankara è nato in me dalla visione di un documentario su di lui e dalla lettura dei suoi discorsi. Mi ci sono voluti sei mesi per chiudere il testo della canzone, quando invece solitamente impiego solo dieci minuti. Volevo fuggire dalla retorica della rivoluzione e provare a rendere interessante il sentimento che c’era dietro.
Se dovessi paragonare Sankara a una figura più nota a un pubblico occidentale a chi penseresti?
Non mi viene in mente nessuna vicenda che ricordi quella di Sankara, se non qualcosa in letteratura. Qualcosa la si può ritrovare, se vogliamo, nell’eroica figura del presidente Mujica o nella filosofia di Nelson Mandela. L’idea di fondo di Sankara, sebbene vicino alla dittatura, era quella di mettere la democrazia al centro del suo operato.
A differenza di tanti altri dittatori, però, non si è mai arricchito: quando venne ritrovato morto, aveva addosso solo 100 dollari e praticamente nulla in banca. Anzi, aveva un mutuo da pagare, viveva in una catapecchia quasi imbarazzante e aveva due chitarre. “Gli uomini malvagi non conoscono canzoni”, disse una volta Senghor, il presidente del Senegal: “laddove sentite cantare, fermatevi”. E Sankara era un musicista. Quando ad esempio sciolse i partiti, Sankara fece ciò che ritenne più necessario per un Paese in cui c’erano milioni di morti sotto i cinque anni, un’emergenza enorme a cui pensare.
Mentre la storia di Sankara potrebbe essere rintracciabile sui libri di storia (se solo volessero riportarla), quelle al centro di Core ‘e falegnamme e Dorme cu mme no. Sono entrambe dedicate ai milioni di invisibili che ci circondano.
Io definisco anche Sankara un invisibile, famoso ma invisibile. Pasquale e Farook, al centro delle due canzoni che hai citato, non finiranno mai nei libri di storia: sono dei vinti mentre la storia viene scritta dai vincitori.
Pasquale è una persona che hai conosciuto veramente. Lo hai incontrato due volte in un autogrill di Torre Annunziata prima di cominciare a sentirvi per telefono. Ai margini della società, deduciamo da una semplice frase che fosse anche dipendente dall’eroina.
Ebbe dei problemi con l’eroina intorno ai trent’anni, in un’epoca in cui a Napoli ci furono problemi con l’eroina un po’ per tutti: negli anni Novanta, l’avvento dell’eroina in città fece una strage.
Ma, nonostante la marginalizzazione e la solitudine con cui ha convissuto, Pasquale non ha mai perso la sua carica di speranza.
Era l’aspetto più straordinario del suo carattere. La sua soluzione a ogni problema era un libro. Ricordo che ne aveva sempre uno diverso in mano e non leggeva nemmeno cose leggere: sola roba di un certo livello. Dico sempre che Pasquale era veramente un poeta di strada: non perché conoscesse poesie ma per il modo che aveva di trasmetterti determinate situazioni in maniera diretta e bella.
A dimostrazione del fatto che i margini non necessariamente siano popolati da individui marginali alla società. Secondo te, da cosa dipende la cecità con cui molto spesso non diamo peso agli altri? Ho come l’impressione che spesso anche le persone che ci stanno accanto siano diventate invisibili.
È un atteggiamento che, secondo me, ha radici profondissime che affondano all’inizio degli anni Ottanta, nel momento in cui è nata una televisione che col tempo sarebbe diventata un distruttore sociale. Negli anni, anche una certa politica ha puntato sempre più verso la divisione e mai sull’unione: il dividi et impera è sempre stato attuale e funzionale. Con un popolo diviso, è più facile governare, così come lo è con un popolo che ignora i più deboli.
Viviamo tutti nel mito del potere e del denaro. Cerchiamo di emulare situazioni che non possiamo nemmeno permetterci: basti vedere in quanti accumulano debiti per comparare una macchina nuova solo per dare l’impressione di elevarsi socialmente. Ciò non può far altro che generare mancanza di empatia anche nei confronti di chi è più debole. Si simpatizza più facilmente verso il più ricco.
Io ho sempre trovato un’ingiustizia folle il fatto che il 90% delle persone che comprano uno smartphone di ultimissima generazione non ne abbiano veramente bisogno. Non che siano ingiusti i prezzi, si tratta di dispositivi che hanno potenzialità enormi e incredibili. Chi li usa per lavoro, fa bene a pagare quel prezzo. Ma non chi li compra solo per ostentazione o per stare sui social: è uno sputo in faccia alla miseria.
Come chi compra un computer per far giocare semplicemente il figlio ai videogiochi, senza pensare che esistono bambini che invece non avranno un futuro, come Farookh, di cui canti in Dorme cu mme. La canzone racconta in maniera delicata e inaspettata il punto di vista di uno dei tanti piccoli che attraversa il Mediterraneo in cerca di un futuro migliore senza trovarlo.
Se penso a quanta politica d’odio s’è fatta verso i migranti, credo non ci sia cosa che m’abbia mai fatto così tanto male. Parliamo di esseri umani a prescindere: potremmo essere noi tra qualche anno, come lo siamo stati già in passato. La canzone nasce dalla rabbia che ho provato nei confronti di un’immagine che mi ha colpito parecchio: quella tristemente famoso del corpo di un bambino ritrovato sulla sabbia.
Ho cercato di raccontarne la storia in maniera diversa dai soliti cliché. Mi sono immaginato l’ipotetica storia di un bambino che insieme al fratellino cerca un mondo migliore e vuole restituire ai genitori l’illusione di averlo trovato.
Qual è la tua idea di libertà e accoglienza?
Non riesco a concepire il mondo con delle barriere: non riesco a concepire qualsiasi tipo di barriera. Mi rendo conto che, dal punto di vista economico, il mio modello di libertà è il modello Riace: ha sempre funzionato e non vedo perché debba essere distrutto. Ma esistono anche altri esempi, come quello di Castel Volturno. È un esempio estremamente complicato ma a Castel Volturno convivono tante etnie diverse. Se non ci fosse la gestione di una mala politica, sarebbe veramente un posto meraviglioso.
Ti senti un uomo libero?
Mi sento estremamente fortunato nell’aver avuto una famiglia che mi ha trasmesso qualcosa in cui credere. Nel vivere in un posto in cui al momento non ci sono guerre. E nell’avere la possibilità di fare un lavoro che mi rappresenta totalmente. Ho la possibilità di scegliere di cosa parlare e come vivere. Chiaramente, il mio lavoro è diverso da quello che la gente si immagina: necessita di 24 ore di dedizione totale al giorno, ogni giorno. Non esistono orari di lavoro, vacanze o viaggio da programmare. Ci sono dei pro e dei contro ma i pro sono così importanti per quanto mi riguarda che superano i contro.
Tra mente e cuore, come si canta in 14 agosto, cosa hai scelto di seguire.
Entrambi. Mi faccio guidare troppe volte da cuore. Però, nelle scelte importanti, credo sia fondamentale la mente. Il rematore e il capitano della canzone rappresentano entrambi una parte di me.
A proposito di cuore, sei innamorato?
Si, mi sento innamorato. Come in quella canzone, si può intendere innamorato della cosa che sto facendo tanto quanto innamorato di una persona. Quando ti innamori, scatta qualcosa che non ti fa innamorare di nient’altro all’infuori di quello di cui sei innamorato.
Hai appena pubblicato il racconto Napoli, 1943. Cosa ti ha spinto al voler raccontare la storia di Mario e Gegè?
Tutto è nato mentre avevo il CoVid. Ho occupato il tempo per concretizzare qualcosa che volevo fare da tempo. Ovvero, espandere le canzoni di Sotto chi tene core attraverso dei racconti. L’ho fatto con più brani e i racconti usciranno con calma. La storia di Mario e Gegè è pura narrativa che nasce da un fatto estremamente importante fissato nella memoria storica di Napoli. Seppur nella sua brevità, si ha modo di cogliere quel grido di battaglia mosso dall’istinto di conservazione: un’azione che diventa necessaria in un determinato momento della vita per continuare a vivere.
Chiudi il racconto lasciando dello spazio bianco in cui il lettore è chiamato a dare risposta a due domande: cos’è la resistenza e cos’è Napoli. Dato che alla prima hai risposto, ti rigiro la seconda: cos’è per te Napoli?
Napoli è il mondo intero. È il posto in cui mi sento più libero. Ed è il mix di amore e odio, di allegria e malinconia. Napoli secondo me è la città con la maggiore dicotomia in assoluto: ci sono sempre due aspetti contrastanti che stanno in un equilibrio perfetto.
Di te si conosce poco. Che bambino sei stato?
Un bambino felicissimo. Non sono cresciuto tra cose strane. Vivevo in un parco di case popolari in cui c’erano precedenti penali sparsi ma anche gente di grandissima qualità, che aveva qualcosa da raccontare. Fino ai 18 anni, ho vissuto un’esistenza abbastanza normale, come qualsiasi ragazzo di periferia: uscivo gli amici e si stava giù nel parco a giocare con il legno, qualcosa che all’epoca trovavamo divertentissimo. Si stava bene anche con cose estremamente semplici.
Crescendo, ho fatto svariati lavoretti fino a quando a 17 anni ho scoperto la musica. È stato lo sconvolgimento più grande della mia vita. Un amico mi regalò una chitarra e, vedendo come la tenevo, al contrario perché mancino, mi girò le corde. È stato come uno shock: mi si è aperto un mondo e suonare diventò per me una lotta. Provenivo da un contesto sociale e musicale in cui la musica non era considerata qualcosa di serio da fare, semmai un hobby.
Strano che si pensasse alla musica come tale in una città in cui è sempre stata fondamentale.
Quando cresci in una situazione non agiata, seppur normalissima, la prima necessità che interessa i genitori è quella che tu trovi un lavoro che ti dia sicurezza e certezza.
E cosa si prova oggi a riempire una piazza come Piazza del Plebiscito, com’è accaduto ai la Maschera di recente?
È una sensazione incredibile, un’emozione fortissima. Non ho chiuso occhio la notte prima. Durante il soundcheck, quando ancora la piazza è vuota, hai paura che tutto quello spazio talmente è grande non si riesca mai a riempire. Ero anche restio ad accettare l’idea del concerto perché, dicevo, non ero convinto: la realtà è che mi faceva paura. Ho apprezzato molto che Lello Arena, l’organizzatore della rassegna estiva, abbia insistito per farmi cambiare idea. Ma è stata una bella responsabilità.