Roberto Gudese è al cinema in questi giorni con il film Il punto di rugiada, il nuovo lungometraggio del regista Marco Risi, presentato in anteprima al Torino Film Festival e distribuito nelle sale da Fandango. Interpreta Manuel, il giovane spacciatore che insieme al Carlo di Alessandro Fella viene condannato a dodici mesi di servizi sociali in una rsa, Villa Bianco. Oltre al rapporto di amicizia che si creerà tra i due ragazzi, in quel contesto per lui del tutto nuovo Manuel ha la possibilità di confrontarsi con una generazione anagraficamente lontana dalla sua e di trovare la propria voce.
Per Roberto Gudese, Il punto di rugiada segna il ritorno al cinema dopo In fondo al bosco di Stefano Lodovichi (arrivato dopo il bello ma invisibile Mi chiamo Maya e Leoni). Ma, nel frattempo, Roberto Gudese, attore da quando aveva tredici anni, ha prestato il suo volto alla televisione in progetti molto differenti, da Faccia d’angelo a Fuoriclasse, passando per La porta rossa, Blanca e Il confine, e al teatro, dove si è cimentato con capisaldi come L’opera da tre soldi, L’uomo della Mancha o il Monologo teatrale di Camus.
Nato nel vicentino nel 1989 (“ma so parlare anche in perfetta dizione”, ci dice quasi scherzando), Roberto Gudese ha sempre avuto un estro creativo particolarmente pronunciato, come ci rivela lui stesso nel corso di quest’intervista esclusiva. Era infatti bambino quando per la prima volta si è esibito davanti a un pubblico: non recitava ma ballava, vincendo diversi campionati nazionali e partecipando a uno storico programma di Mike Bongiorno.
L’arte in generale è stata sempre la sua forma di espressione e lo è tuttora, dal momento che, al di là della recitazione, Roberto Gudese è anche un cantautore: uscirà a giorni Se un giorno capirai, brano che ha composto ispirato da Il punto di rugiada e dalla poetica del suo regista. E non a caso uno dei suoi sogni è la possibilità in futuro di avere un proprio one man show, uno spettacolo a 360° per cui, in qualche modo, sta già facendo le prove in attesa di rivederlo al cinema in C’è anche domani, il film biografico su Ennio Doris diretto da Giacomo Campiotti.
Intervista esclusiva a Roberto Gudese
“Il punto di rugiada è un film che può far diventare grandi i giovani e far tornare giovani i grandi. Chi vuole abbracciare la parte che gli manca, vada al cinema a vederlo”, è una delle frasi più significative che Roberto Gudese ci restituisce sul film che lo vede tra i protagonisti. “Tendiamo a vedere la generazione dei ventenni e quella degli ottantenni come lontane ma in realtà sono complementari. Se da un lato c’è il ventenne nel pieno del suo turgore fisico ma senza le armi per difendersi dalla vita, dall’altro lato c’è l’ottantenne che è arrivato a una saggezza importante ma a cui manca il fisico e l’incanto per i sogni. Si assomigliano più di quanto si pensi: è semmai la nostra società a volerli separare quando invece dal loro incontro nascerebbe qualcosa di unico”.
Chi è Manuel, il giovane che interpreti nel film di Marco Risi Il punto di rugiada?
Manuel non è un cattivo ragazzo. Ha un suo background, anche familiare, per cui si è ritrovato a dover entrare in certi circuiti e a spacciare per riuscire a sostenersi e sopravvivere. È un personaggio che ha una sua intelligenza e una sua sensibilità, oltre che una certa conoscenza musicale. A discapito di quella che può essere la sua estrazione sociale, si è fatto una sua cultura da solo perché probabilmente non ha studiato per varie ragioni.
Arrestato dalla polizia, è in una situazione di stallo ed è costretto a trascorrere un anno solare a contatto con gli ospiti di una casa di riposo perché condannato a dodici mesi di servizi sociali, durante i quali finirà con il ritrovare fondamentalmente se stesso e una dimensione in cui poter finalmente vivere.
La cultura musicale di Manuel è particolarmente legata agli anni Sessanta: da Stasera mi butto a Riderà.
La musica sfruttata dal regista è quella legata alla sua esperienza e, in particolar modo, al ricordo del padre. Ha dunque deciso di trasferire sul personaggio la musica che meglio conosceva e che anch’io conoscevo: ho una grande passione per la musica, dal momento che scrivo canzoni e canto anche. Amo la musica degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, e in particolar modo la musica black, da Ray Charles ad Aretha Franklin.
Nel film Il punto di rugiada si incontrato due e forse anche tre differenti generazioni di attori. Com’è stato condividere il set con professionisti molto più adulti di te? Cosa hai imparato da loro?
È stato divertente: se dovessi scegliere una parola per descrivere l’esperienza, sarebbe “divertimento”. Parliamo di una generazione di attori che sono arrivati a una risoluzione umana e professionale tale nella vita per cui la complessità dei rapporti è un’equazione risolta. Sul set, con loro si ha la percezione che lavorativamente tutto sia facile: da persone complete, hanno il privilegio di prendersi meno sul serio rispetto all’ansia da prestazione che attanaglia i giovani. Mentre per noi questo film ha rappresentato un’occasione memorabile, per loro era uno dei tanti lavori che hanno collezionato nella vita.
L’ansia da prestazione sul set coglie quindi anche te?
Su un set, ogni giorno è un’incognita. Per quanto tu possa pensare a una scena, cercare di capire come realizzarla o provarla, la realtà è sempre diversa. Da attori, abbiamo la responsabilità di dar vita a una magia ma le incognite sono molto, molto rilevanti: non le puoi mai calcolare, devi semmai farti trovare il più preparato possibile per riuscire a risolverle. Devi avere una capacità di problem solving che si attiva in poco tempo, anche per via di tutta una serie di incontri tecnici e nodi che si presentano: hai tu la responsabilità di scioglierli per far sì che ciò che arriva all’esterno sia naturale e perfettamente semplice.
“Non mi affliggo se gli altri non mi riconoscono, mi affliggo della mia incapacità”: è una delle frasi che accompagnano il film. Lo sposi come pensiero?
Il senso è molto semplice: dobbiamo confrontarci solo con noi stessi e non con gli altri. È qualcosa che mi appartiene e che è molto presente in me sia in ambito professionale sia nella mia sfera umana. L’idea di base è quella di cercare di essere ogni giorno una copia migliore di ciò che sei stato il giorno precedente: a un certo punto, il conflitto deve essere solo con se stessi, smettendo di guardare ciò che è al di fuori di noi.
Quando hai realizzato che le risposte andavano cercate in te stesso anziché che all’esterno?
Non saprei individuare un momento preciso. È stato un pensiero da sempre molto presente in me ma forse perché ho cominciato a praticare agonismo già da quand’ero piccolo. La preparazione e l’allenamento hanno contribuito a instillarmelo dentro: non significa non guardare agli altri o escluderli (rischieremo di diventare degli animali sociali) ma cercare di non confrontare il nostro percorso con quello degli altri. Più si va avanti con l’età, più si realizza quanto utile sia.
Agonismo sin da bambino: con che disciplina ti sei confrontato?
Ho praticato ballo da sala, vincendo cinque o sei campionati italiani. Già a cinque anni, sostenevo quattro allenamenti a settimana per prepararmi al meglio alle competizioni. Era iniziato tutto per gioco: all’asilo, mi piaceva una bambina, stavamo bene insieme e ci hanno messo a far coppia nel ballo. Pian piano, quello che era semplicemente un gioco è diventato sempre più importante.
Ti divertiva?
Sì, almeno fino a un certo punto. Ricordo però che la competizione era tanta: la sentivo addosso e a fatica accettavo l’idea di perdere. Sono molto competitivo di natura e, soprattutto, con me stesso. Non accettavo l’idea di perdere ma, col tempo, ho capito che il fallimento fa parte del percorso ed è necessario.
Tra l’altro, già da piccolo, avevi le idee abbastanza chiare su chi saresti diventato da grande. In un’intervista, hai raccontato di come tua madre ti vedeva già o come attore o come avvocato, due professioni altamente competitive.
L’avvocato perché credo di avere insito in me un grande senso della giustizia, che purtroppo è sempre un’arma a doppio taglio: quando penso che qualcosa sia sbagliata, non riesco a scendere a compromessi. Ho poi capito che questo principio non vale per gli avvocati, che arrivano a difendere anche dei serial killer per quella presunzione per cui si è innocenti fino a prova contraria e che devono farlo senza nessun tipo di pregiudizio.
L’arco narrativo del film Il punto di rugiada copre un intero anno, dall’estate del 2018 a quella del 2019. È l’anno precedente a ciò che ha poi cambiato le nostre vite per un lungo periodo: la pandemia da CoVid. Ha cambiato anche la tua?
Non particolarmente. È stato il periodo in cui tutti ci siamo fermati e abbiamo avuto il tempo di pensare e, perché no, anche di annoiarci, che non necessariamente è un male. È stato uno spartiacque: spettava a noi decidere come prenderlo o affrontarlo. Io ne ho approfittato per rimettermi in forma fisicamente e per diventare anche sommelier: ho la passione per il vino e ho voluto approfondirla.
Ho anche vissuto da solo il lockdown: vivevo a Roma ma dal momento che era tutto bloccato mi sono ritrasferito in Veneto. Ho dovuto abbandonare tutte le persone che conoscevo nella capitale ma al tempo stesso non potevo stare con i miei genitori, non volevo correre il rischio di farli ammalare con un eventuale contagio. Ero completamente da solo. Non c’era una compagna, non c’era un amico, non c’era nessuno: tornavo nella mia terra dopo quasi dieci anni di assenza, non conoscevo praticamente più nessuno e quei pochi con cui avevo conservato dei legami vivevano in altri comuni.
Ti è pesata la solitudine o ti ha aiutato?
La solitudine viene sempre associata a un’idea negativa, a uno spauracchio da evitare. Ma, quando ti trovi a viverla obbligatoriamente, la affronti: come dice qualcun altro, quello che non ti uccide ti fortifica. Può trasformarsi quindi in qualcosa di molto bello ma devi prenderla a braccetto fino a fartela diventare amica: adesso ci sto bene da solo.
Solitudine vuol dire anche avere abbastanza tempo per conoscere te stesso. Hai in quel periodo scoperto lati di te che pensavi di non avere?
Attraverso la solitudine, ho sentito la percezione di bastare a me stesso: non vuol dire diventare degli dèi di se stessi ma capire di essere abbastanza per se stessi per far sì che le persone accanto diventino importanti ma mai indispensabili.
Il punto di rugiada: Le foto del film
1 / 38Tornando agli anni in cui eri bambino, hai partecipato a Bravo bravissimo, il programma per piccoli talenti presentato da Mike Bongiorno.
È stato nel periodo in cui praticavo ballo da sala. Avevo appena vinto un campionato italiano con la compagna di ballo e siamo andati a sostenere il provino per la trasmissione. Siamo stati presi, avevo nove o dieci anni quando ho conosciuto Mike Bongiorno.
Tuttavia, è arrivata presto anche la recitazione.
Già a scuola facevo le imitazioni. A tredici anni, alle medie, ho preso parte a uno spettacolo: l’estro artistico, manifestato anche nel ballo, è sempre stato nella mia indole e ho sempre cercato di convertirlo in qualcosa di concreto, in ogni forma di arte possibile. Mi piace cantare, come dicevo prima, ma anche scrivere: sono ad esempio l’autore di uno spettacolo (Antonio e Geggé, ndr) che avevo portato in giro per Roma prima che il CoVid lo bloccasse e che sto ora riesumando. Mi piacerebbe in futuro avere un one man show tutto mio, in cui coniugare recitazione, musica e scrittura, per dar vita a qualcosa di particolare: considero quello spettacolo un primo passo.
Ho anche scritto una canzone rispetto al tema di Il punto di rugiada, che uscirà nei prossimi giorni. Si chiama Se un giorno capirai: quando sono stato scelto per il ruolo di Manuel, ho cominciato a pensare al senso del film e a buttar giù un paio di righe. Avevo letto una poesia di Kipling molto famosa, If, una sorta di dialogo tra un uomo e un ragazzo da cui ho tratto ispirazione per una sorta di lettera da una generazione all’altra.
E a te chi diceva “se un giorno capirai”?
Beh, te lo dicono i genitori, te lo dice la gente e te lo dicono i grandi, no? Tuttavia, quando poi sei grande, capisci quanto possano essere contaminati i pensieri dei grandi. Quando sei piccolo, dai sempre per scontato che ciò che ti dicono i grandi sia qualcosa di giusto: è solo crescendo che capisci che la maggior parte delle cose che ti hanno consigliato sono delle loro nostalgie o qualcosa che non necessariamente ha un fondo di verità. È sempre una loro interpretazione della realtà…
E a chi lo diresti invece?
A nessuno, a me non piace dare consigli. Siamo talmente diversi gli uni dagli altri che diventerebbe complesso e narcisistico dare dei consigli. I consigli non sono altro che forme di nostalgia, i nomi che diamo ai nostri errori. E, quindi, non voglio dare consigli perché voglio fare meno errori possibili o non considerare qualcosa come un errore. Come scrivo nella mia canzone, “se un giorno capirai che il fallimento sarà d'incanto, moneta tra le mani dalle tasche di vecchi pantaloni”.
Il punto di rugiada è un film per il cinema. Ma hai avuto modo di cimentarti in tanti progetti di serialità televisiva: differenze tra i due linguaggi?
Per quanto se ne dica, è più difficile che un prodotto televisivo abbia una certa poetica, che poi è quella del regista (anche se ci sono le dovute eccezioni, penso ad esempio a Di padre in figlia di Riccardo Milani, a cui ho preso parte). Accade perché i tempi di realizzazione sono diversi: si gira comunque molto più velocemente. Recitare non è solo interpretare un ruolo ma è innestarlo all’interno di una poetica, quella del regista, a cui senti di voler aderire: è allora che il tuo mestiere assume tratti e connotazioni più importanti, più alti. Purtroppo, non capita sempre di accettare lavori per cui hai tale percezione: con Il punto di rugiada, l’ho avuta ed è per questo che mi sono impegnato nella sua promozione come se fosse un film mio, un figlio da accompagnare.
Girare un film all’interno di una casa di riposo significa per un giovane confrontarsi necessariamente con la morte, la malattia, la sofferenza e il ricordo…
Ma anche con la noia. Conosco molto bene la realtà delle case di riposo perché ho avuto due figure nella mia famiglia che ci sono state dentro per tanto tempo. So cosa significa entrare in ascensore, arrivare al secondo piano e trovarti davanti il silenzio di chi vive una quotidianità imbalsamata e una routine imboccata dall’esterno. Molti degli ospiti spesso non hanno neanche più voglia di vivere.
Non è però la realtà che raccontiamo nel film e non voleva neanche esserlo. E forse per questo sono sorte critiche che trovo un po’ infondate. Il punto di rugiada poteva essere ambientato in un bar o in un ristorante: non parla di case di riposo ma di rapporti tra giovani e anziani. Ma sui social network esistono quelli che io definisco “offesi per professione” che devono necessariamente trovare il lato negativo secondo una loro interpretazione che non corrisponde di certo a quella di chi ha creato qualcosa. È come se ci fosse una mancanza di rispetto del pensiero altrui per cui non si indaga l’impulso o l’urgenza di chi un’opera l’ha creata.
Che rapporto hai avuto tu con i tuoi nonni?
Un rapporto molto diverso a secondo dei nonni: ne abbiamo tutti quanti quattro (ride, ndr). Quello più importante l’ho avuto con una delle mie due donne: è stata ed è tuttora una figura fondamentale per il tipo di persona che è stata. Un po’ come accade al personaggio di Luigi Diberti che nel film Il punto di rugiada si riaccende per un momento grazie alla musica, anche mia nonna quando è diventata assente trovava nella musica la sua chiave. Amava cantare ed era stata anche cantante. Sebbene non riuscisse più a parlare, si ricordava a memoria i testi delle canzoni, soprattutto del Nabucco: quando le facevo ascoltare la musica, riusciva persino a cantare.
Nonna materna o paterna?
La mamma di mia madre. Era una sarta che cantava in un coro. Non era una cantante professionista ma lo sarebbe potuto diventare. Ha vissuto negli anni in cui le donne abbandonavano, per un motivo o per un altro, le loro ambizioni per stare con la famiglia.