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Roberto Mercadini: La felicità è poter esprimere ciò che si è – Intervista esclusiva

Roberto Mercadini non è solo uno scrittore di successo ma anche un attore e performer che ha trascorso l’estate in giro per l’Italia con i suoi spettacoli sempre sold out. Amato dalla Generazione Z quanto dai boomer, Mercadini ci racconta in esclusiva i suoi spettacoli, rivelando il suo segreto per la felicità.
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Lo scrittore Roberto Mercadini, dopo un’estate passata a portare in giro per l’Italia il tour Cose che non avremmo sperato di potervi dire, è ora impegnato con una serie di presentazione dei suoi romanzi più recenti e quattro monologhi del suo repertorio.

Autore del più recente L’ingegno e le tenebre (Rizzoli, 2022) e dell’apprezzato Bomba atomica (Rizzoli, 2020), Roberto Mercadini porta in scena gli spettacoli Little boy. Storia incredibile e vera della bomba atomica con musiche del maestro Dario Giovannini, Felicità for dummies. Felicità per negati, A chi dimentica. Monologo sull'Alzheimer e Noi siamo il suolo, noi siamo la terra. Monologo per una cittadinanza planetaria.

Approfittando di una pausa tra l’evento e l’altro, abbiamo raggiunto Roberto Mercadini per un’intervista esclusiva in cui abbiamo parlato con lo scrittore, attore e performer, del suo lavoro ma anche, aspetto quasi inedito, della sua vita privata. Arte, scienza, attualità e storia sono stati al centro della nostra conversazione ma anche la sua adolescenza solitaria, la sua passione per la poesia e la sua visione della genialità di Michelangelo e Leonardo.

Seguito da oltre 155 mila iscritti sul suo canale YouTube, Roberto Mercadini è una continua scoperta. Definirlo divulgatore è poco tanto che nel corso della nostra conversazione ho trovato più appropriata per lui la parola genio. Un genio in grado di muovere passioni: questo è Roberto Mercadini, sia che parli della memoria storica sia che racconti della malattia o della felicità. Ma questo era già chiaro sin dal suo primo romanzo, Storia perfetta dell'errore (Rizzoli, 2018).

Roberto Mercadini.
Roberto Mercadini.

Intervista esclusiva a Roberto Mercadini

Little Boy, il primo dei monologhi che porti in scena in tutta Italia, è in qualche modo collegato al tuo secondo libro, Bomba atomica. Di cosa racconta?

In Little Boy si raccontano le scoperte scientifiche che hanno condotto alla bomba atomica, tra cui per esempio la meccanica quantistica, e la vicenda bellica ovviamente. L’aspetto più potente della storia della bomba atomica è che si tratta di una vicenda che contiene in sé tante storie differente. È sì una storia di guerra ma contemporaneamente è una storia di geni, di pazzi e di stupidaggini (di persone che hanno fatto scelte molto stupide). È una storia di calcolo e di precisione ma anche di casualità e di caos. Ed è una storia di grandi eventi, di scoperte scientifiche da premio Nobel, ma anche di fatti privati, amicizie, amori e tradimenti. Mi affascina che sia una vicenda totale che contiene in sé molti opposti.

Quanta rilevanza può avere oggi quando la minaccia della bomba atomica è più viva che mai? Anche oggi, del resto, ci ritroviamo a vivere in un contesto mondiale di grandi geni e di grandi pazzi.

Quando ho scritto Bomba atomica, mai avrei potuto immaginare che sarebbe scoppiata un’altra guerra in Europa e che la bomba atomica sarebbe diventata una minaccia, presente almeno nei media. Pensavo tuttavia che la storia avesse una sua attualità. L’attualità stava nel fatto che si parlasse dell’essere umano, di un essere umano sempre uguale a se stesso e di alcuni suoi lati che si rivelano in situazioni estreme.

Nel libro, che rispetto al monologo è per ovvie ragioni più particolareggiato, c’è un secondo tema che si allaccia a quello della bomba atomica: il tema del linguaggio e delle incomprensioni. Tutti abbiamo esperienza di incomprensioni e di fraintendimenti con gli altri, anche dai risvolti drammatici. A volte, questi hanno creato problemi personali piuttosto grossi. Si tratta di qualcosa che è eterno, che non ha un tempo e che non dipende dai fatti di attualità.

Quando è scoppiata la guerra tra Russia e Ucraina, ho visto immediatamente su Instagram o sui social in generale, persone che postavano l’incipit del mio libro, anche se non so quanto leggendolo si possa capire quello che sta succedendo oggi. Credo poco. Il libro descrive la follia dell’essere umano.

Libro e monologo parlano dello stesso argomento ma ricorrendo a un medium differente. Quali difficoltà hai incontrato da scrittore nell’affrontare le due diverse forme di scrittura?

Passando dallo spettacolo al libro, bisogna fare una specie di traduzione. Il mio obiettivo è quello di essere sempre riconoscibile: una persona che viene a vedermi a teatro e che mi apprezza, leggendo il libro, deve riconoscermi. Deve sentire attraverso il libro scritto la mia voce, per usare una metafora. E viceversa.

La traduzione è, però, necessaria: se prendessi il testo dello spettacolo e lo mettessi nero su bianco, diventerebbe qualcosa di sciatto perché mancherebbero i gesti, le espressioni facciali, il tono della voce… e, se prendessi il testo del libro e lo trasformassi in monologo, risulterebbe ingessato, pesante e artificioso. Per avere lo stesso effetto, passando dallo scritto all’orale, devi alleggerire. E. viceversa, devi arricchire.

Anche se, per alcune cose, non sempre è possibile tentare una traduzione. Per esempio, nel monologo, c’è una parte (la più divertente e comica) che consiste in un aneddoto su Bohr. Quando scrivevo il libro, mi sono reso conto di doverla togliere integralmente perché ciò che nel monologo era divertente nel libro era così contorto da risultare illeggibile.

In Little Boy si raccontano le vicende di Niels Bohr, Werner Heisenberg ed Enrico Fermi, in un momento in cui sono tutti giovani piuttosto che giovanissimi.

Heisenberg già a 21 anni era un collaboratore di Bohr e a 31 vinceva il premio Nobel. Fermi è stato precocissimo: già al liceo, studiava i testi universitari di fisica dell’Ottocento, scritti in latino. Di Bohr, invece, non ho trovato una particolare precocità. L’aneddoto che racconto e che non è nel libro non ha una collocazione temporale precisa: lo vede però studente spiazzare i suoi insegnanti. Little Boy si chiama così, oltre per essere il nome dato alla prima bomba atomica sganciata su Hiroshima, perché allude a una storia di ragazzini, di bambini prodigio.

Ragazzi o bambini prodigio che appartengono a un’epoca completamente differente da quella che vivono oggi i giovani della Generazione Z. Avevano percorsi formativi differenti rispetto a quelli che possono avere i ragazzi di oggi. Tu hai un pubblico molto trasversale: cosa può lasciare Little Boy a un giovane che oggi viene a vedere il monologo?

Secondo me, lascia quello che lascia anche a un adulto. Nonostante il tema, è un monologo molto divertente in cui racconto i fatti in una narrazione molto ampia. Non c’è solo la tragedia, l’esplosione della bomba, ma ci sono anche momenti comici, momenti di commozione e una riflessione su come è fatto l’uomo, una questione che interessa tanto i più grandi quanto i giovani. Anzi, forse interessa maggiormente i giovani che devono ancora capirlo perché ancora in fase di esplorazione del mondo.

Vedo tantissimi giovani ai miei spettacoli, soprattutto quando sono fuori dalla Romagna. Ci sono solitamente universitari e spesso ragazzi che frequentano le superiori. Dipende molto dal fatto che mi vedono su YouTube: il mezzo plasma il pubblico. In Romagna, invece, funziona maggiormente il meccanismo del passaparola e la fascia di età degli spettatori si innalza. Il mio pubblico è trasversale ma è diverso il mezzo con cui è stato raggiunto: io faccio sempre lo stesso identico spettacolo!

I giovani, tuttavia, vengono colpiti diversamente dagli più grandi. Una persona matura ha già deciso, bene o male, cosa essere nella vita e cosa pensare. Uno spettacolo può entusiasmarla o commuoverla ma non può certo trasformarla. A un giovane, se colpito da quanto visto, può invece cambiare la vita. Questo è il motivo per cui mi fa tanto piacere che ci siano tanti giovani a seguirmi.

Roberto Mercadini.
Roberto Mercadini.

Di te, però, si conosce poco del ragazzino che sei stato. Non sappiamo quasi niente di Roberto ragazzino. Eri più vicino a Enrico Fermi o ai negati di cui parli in Felicità for Dummies?

Ero un negato, un ragazzino come sono a volte gli adolescenti: un po’ disadattato, un po’ solitario e un po’ in difficoltà nel trovare amici o compagnie. Ero un lettore appassionato di poesia e di libri in genere. Così, un po’ tormentato dalla vita, come sono spesso i ragazzini. Dico che ero un metanerd. I nerd, anche se sono ai margini della società, si incontrano fra di loro, parlano, fanno giochi di ruolo. Io non avevo neanche un amico con cui cimentarmi nei giochi di ruolo. Per me ora è una specie di riscatto l’avere così tanti amici, che ci siano persone che vogliano parlare con me o che mi scrivano.

È un po’ la dannazione del genio. Se ci pensiamo, tutti coloro che sono diventati dei grandi hanno alle spalle una formazione segnata dalla solitudine. È come se le due cose andassero di pari passo, come se fossero inscindibili.

Non so se è giusto parlare di genio per me. Mi si dice che sono originale nei pensieri e che scrivo cose mai sentite ma non è che faccia uno sforzo supplementare, essendo stato tanto tempo da solo. A volte mi capita involontariamente di pensare cose che sono distanti da ciò che pensa una persona comune. È perché per me funziona in un modo un po’ diverso: la solitudine vissuta mi aiuta come artista nel produrre libri, monologhi e video che suscitano qualche interesse. Per altri aspetti, invece, mi penalizza: mi rende un po’ più difficile capire gli altri e armi capire dagli altri.

Ricordi quali erano i tuoi libri preferiti?

Ricordo che a quindici anni leggevo Le Baccanti di Euripide. Non so quante volte l’ho letto, mi affascinava letteralmente. Poi, ricordo La nuvola in calzoni, il poema di Vladimir Majakovskij. Per un lungo periodo di tempo, lo leggevo tutti i giorni e non è un’esagerazione.

Non ti stancava rileggerlo?

No. La poesia funziona un po’ come la musica: ci sono album che ascolteresti ininterrottamente. La poesia non è come un giallo, per cui quando sai chi è l’assassino si perde una quota di interesse. C’è tutto un conforto che viene forse dal già noto piuttosto e non la stanchezza. Così come c’è tutto un senso di movimento, di vertigine, di danza interiore.

Un movimento che è uguale a quello di una canzone: la prima volta che l’ascolti, devi farci l’orecchio. Cominci a capirla veramente dopo un paio di ascolti e poi diventa familiare. È come se tu imparassi a muoverti con lei. Arriverà anche quel momento in cui, conoscendola talmente bene, non ti susciterà più alcuna vertigine e per un po’ di tempo non l’ascolterai. Ricordo che alla fine del liceo, al quarto e quinto anno, mi sono accorto di stare leggendo quasi solo poesia.

Hai frequentato il liceo classico?

No, lo scientifico, ma d’altra parte si tratta di un’altra cosa che non ti fanno scegliere. Alle medie, sei ancora un bambino e non avevo neanche quel preconcetto per cui solo le persone colte vanno al classico, per via dello studio del greco e del latino. Non provenivo da una famiglia che in questo senso potesse influenzarmi o orientarmi. Ho visto che classico e scientifico avevano in comune il latino e che sembravano uguali e ho optato per il secondo perché in matematica andavo molto bene. Nessuno mi aveva mai parlato dell’aura di prestigio che invece accompagna chi frequenta il liceo classico.

Roberto Mercadini.
Roberto Mercadini.

In Felicità for Dummies si affronta come argomento la felicità. Cos’è oggi la felicità?

Come sostengo nel monologo, la felicità non è non aver problemi o non dover affrontare le difficoltà. La felicità per me è poter esprimere ciò che si è. La felicità è il poter concretizzare le proprie potenzialità, il poter irradiare luce. Ad esempio, è poter avere un lavoro che ti consente di farlo, poter amare avendo un compagno e poter avere una compagnia di amici che ti amano e che tu puoi amare, che ti capiscono e che tu capisci.

E tu sei felice oggi?

Sono abbastanza felice. Faccio un lavoro che si può ricondurre alla felicità. Ho una figlia e una moglie che mi ama. Molte volte, vorrei avere più tempo per gli amici. Soffro quando non riesco a farmi capire o non riesca a capire gli altri. Nonostante il mio lavoro sia spiegare, usare la parola e comunicare, capita che ci siano comunque delle difficoltà di comprensione. Però, sì, mi metterei tra le persone felici, privilegiate nella felicità.

Cosa c’entra William James Sidis, di cui parli nel monologo, con la felicità?

La sua è un esempio di vita infelice. Nonostante una grandissima personalità, è stato un esempio di persona che non è riuscita a intessere relazioni. La sua figura racchiude tutto il discorso che facevo sulla felicità, sul poter dar frutto alle proprie potenzialità non solo in ambito lavorativo.

Mentre definirei Little Boy e Felicità for Dummies due monologhi individuali, per Noi siamo il suolo, noi siamo la Terra e A chi dimentica parlerei di monologhi sociali. Si parla di ecologia e morbo di Alzheimer. Partiamo dal primo. Cosa ti ha portato a raccontare del legame tra economia ed ecologia?

Scherzando, dico che talvolta sono come gli artisti del Rinascimento: lavoro (o, meglio, lavoravo) su commissione. Banca Etica mi aveva commissionato un monologo sull’ecologia che avesse a che fare con l’economia. Nel pensiero comune, si è abituati a credere che le scelte ecologiche siano antieconomiche e che il profitto penalizzi l’ambiente, che ne sia nemico.

È un po’ più complesso di così: un danno ecologico è anche un danno economico per tutti. Ecologia ed economia hanno un prefisso in comune, “eco”. Viene dal greco oikos: vuol dire ambiente ma più in generale famiglia. Economia ed ecologia non sono dunque nemici. Sono semmai sistemi complessi e, in un modo complesso, si possono anche armonizzare.

Qual è la scelta più ecologica che hai fatto?

Non ho un’automobile. Non cambio i dispositivi, dai computer ai cellulari, fino a quando non sono totalmente fuori uso: al loro interno, ci sono dei minerali che sono preziosi. Per me, non ha senso sostituirli freneticamente come si fa oggi. Certo, ha un suo perché avere la versione aggiornata più aggiornata di uno strumento potentissimo che tutti usiamo spesso per motivi frivoli, per litigare con gli sconosciuti o condividere le foto dei nostri apertivi, ma è antiecologico.

Di A chi dimentica, l’ultimo dei quattro monologhi, mi colpisce che pur parlando di Alzheimer lo si faccia in maniera inedita. Non si pone l’accento sulla patologia in maniera patetica e si racconta di chi la vive come una persona a cui non va riservata quella discriminazione che spesso involontariamente viene attuata da chi la circonda.

Anche questo monologo nasce da un committente e da una richiesta che inizialmente mi ha spiazzato. Avrei dovuto raccontare il lato luminoso della malattia. L’Alzheimer è una malattia degenerativa, chi ne soffre non ha speranza di guarigione: la sua è una condizione che può solo peggiorare.

Dove sta la speranza?, mi sono chiesto. Leggendo i materiali che mi sono stati forniti, informandomi e studiando, ho capito poi che dalla diagnosi di Alzheimer alla morte intercorre molto tempo, a volte anche dieci anni, e che il decorso della malattia è fortemente influenzato dal modo in cui uno reagisce. Se ci si mantiene vivi, si hanno relazioni soddisfacenti con amici e parenti, e se ci si dà da fare, la qualità della vita di un malato di Alzheimer cambia drasticamente così come cambia l’aspettativa di vita.

Noi tendiamo ad associare l’Alzheimer all’incapacità di fare qualsiasi cosa ma, considerando le varie fasi della malattia, così non è. Si può continuare a condurre una vita soddisfacente, c’è persino chi ha aperto un blog dopo aver ricevuto la diagnosi. Passano anni e anni prima che la situazione degeneri totalmente: perché negare al malato quegli anni? Spesso lo facciamo solo perché non conosciamo la malattia e per quel pregiudizio per cui un malato di Alzheimer non è più incapace di intendere e di volere. Ma non è così.

Hai avuto modo di conoscere direttamente qualche malato di Alzheimer?

Ho avuto modo di parlare con dei medici e di visionare interviste. Per un altro monologo sulle celebrolesioni, sulla disabilità acquisita. In quel caso, avevo incontrato delle persone con celebrolesioni.

Scherzando, hai fatto riferimento prima agli artisti del Rinascimento. E su due di loro, Michelangelo e Leonardo, hai incentrato il tuo ultimo libro: L’ingegno e le tenebre. Possiamo definirli il simbolo uno della sregolatezza e uno del genio, con una facile metafora?

Io la racconterei in un modo diverso. Leonardo era un uomo di grande eleganza, sia fisicamente sia nel vestire. Oggi diremmo che era un dandy: indossava abiti sfarzosi, era un uomo di corte (aveva trascorso 17 anni alla corte degli Sforza) ed era un uomo piacevole. Sapeva intrattenere il pubblico e metterlo a suo agio.

Michelangelo, invece, era un uomo tormentato e ruvido. Dalle testimonianze che abbiamo, non era bello, era trasandato nel vestire ed era irruente. Non perdeva l’occasione di entrare in contrasto con gli altri.

Mentre Leonardo esteticamente sembrava un uomo civilizzato, Michelangelo appariva animalesco. In realtà, il fascino di Michelangelo consiste nel fatto che aveva uno spirito e un intelletto finissimo. Era un letterato come pochi, un grande conoscitore di Dante e un poeta molto prolifico. Scrisse ben 302 poesie in metrica, cioè il doppio dei sonetti scritti da Shakespeare. Leonardo, invece, ha prodotto qualcosa di estremamente caotico, ha scritto oltre 7 mila pagine che non mai state sistemate o sistematizzate in un trattato e non imparò mai il latino. Il loro aspetto estetico era differente ma intellettualmente Michelangelo era un raffinatissimo letterato e Leonardo un naif.

È curioso. È bellissimo perché sono entrambi complessi e nella loro complessità opposti in tutto. Il fascino del loro confronto, che ho tentato di trasferire nel libro, consiste proprio in questo.

Come mai, secondo te, il mito di Leonardo è ancora molto vivo oggi e quello di Michelangelo è più offuscato?

Leonardo colpisce più l’immaginazione perché ha fatto tante cose diverse. È stato un artista ma anche uno scienziato. Dai bambini agli anziani, tutti rimangono soggiogati pensando che sia l’inventore di tantissime cose. Ha sì fatto ad esempio gli studi sulle macchine volanti di Leonardo ma una non è mai riuscito a farla. Ma questo la gente non lo sa. E vale lo stesso per la bicicletta, il sommergibile o il paracadute. Il mito di Leonardo vive un po’ di approssimazione. Michelangelo ha scolpito, dipinto, scritto poesie: è stato un artista ma come tanti altri non ha la forza mediatica di Leonardo, che è una specie di genio universale che si occupa di tutto e di niente.

Concludo con una domanda che in questi giorni pongo a tutti i miei intervistati. Hai una figlia: le faresti vedere l’episodio di Peppa Pig con due mamme?

Si. Mia figlia sa perfettamente che i gay sono dei maschi che anziché innamorarsi delle femmine si innamorano dei maschi e che le lesbiche sono femmine che anziché innamorarsi dei maschi si innamorano delle femmine. È stato necessario farlo, nella sua semplicità, per spiegarle ciò che a volte vede in televisione. Ma le abbiamo anche spiegato che far l’amore, capiti che in tv anche guardando una serie tv ci sia un approccio sessuale, vuol dire stare nudi nel lettone ad abbracciarsi e a darsi bacini. Niente di tutto ciò l’ha turbata minimamente. L’hanno turbata molte più cose che vengono dette a scuola, come quando le hanno spiegato che esiste la mafia: ha fatto fatica a prendere sonno per un mese.

Roberto Mercadini.
Roberto Mercadini.
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