Rocco Fasano è il protagonista insieme a Carolina Sala del film Noi anni luce, l’atteso teen drama diretto da Tiziano Russo in uscita al cinema il 27 luglio per Notorious Pictures. Nella storia interpreta Edo, un giovane che, ricoverato in un reparto oncologico pediatrico a causa della leucemia di cui è affetto. Sebbene abbia raggiunto la maggiore età, Edo è rimasto nella struttura non solo come paziente ma anche come animatore per i pazienti più piccoli.
Ed è in ospedale che Edo incontra la Elsa, interpretata da Carolina Sala. I due sembrano non avere nulla in comune se non la malattia. Ma, mentre Edo è molto avanti nel suo percorso di cure, Elsa deve accettare quella diagnosi che le piomba addosso e che sembra non lasciarle speranza se non troverà un donatore di midollo osseo compatibile.
Definire Noi anni luce un teen drama appare riduttivo per tutte le connotazioni negative che l’aggettivo “teen” porta con sé, soprattutto da parte della critica che, con la puzza sotto il naso, tende a pensare che una storia con protagonisti adolescenti e agli adolescenti diretta non possa parlare agli adulti. A smentire la loro visione limitata è arrivata anche l’AIL, l’Associazione Italiana contro Leucemie, Linfomi e Mieloma, che ha dato il suo patrocinio al film, appena presentato al Giffoni Film Festival.
Abbiamo raggiunto Rocco Fasano proprio all’indomani della partecipazione alla rassegna. È appena rientrato a Roma e la nostra intervista esclusiva non può che partire da quello, dal significato della parola “casa” per chi come lui, giovanissimo, ha dovuto lasciare presto la sua Basilicata per affermarsi come attore. Ciò ci dà l’occasione per fare il punto sul suo percorso umano e artistico, segnato da una parabola in straordinaria ascesa e fatta di titoli che lo hanno consacrato divo amato dalla generazione Z grazie alla serie tv ormai di culto Skam o al film Non mi uccidere.
Ma Rocco Fasano tutto è fuorché che divo. È rimasto quel ragazzo che, mosso da mille passioni sin da quando era piccolo, ha mantenuto i piedi per terra facendo dell’umiltà e della discrezione i suoi tratti peculiari. Consapevole dell’importanza che determinati temi hanno non solo nella sua vita ma anche in tutti i ragazzi della sua generazione, Rocco Fasano è un fiume in piena che si ha voglia di lasciare scorrere con le sue acque limpide.
Intervista esclusiva a Rocco Fasano
Appena rientrato a Roma dal Giffoni Film Festival, dove il film Noi anni luce è stato presentato con grandissimo successo tra i più giovani, Rocco Fasano è pronto a confrontarsi con noi su Edo, il personaggio da lui interpretato. L’occasione, come si dice in questi casi, è ghiotta e senza troppe formalità entriamo nel vivo della conversazione. Ed è facile farlo perché dall’altro lato del telefono c’è un giovane uomo che ha le idee chiare su chi è e sul suo percorso.
Quando hai risposto “a casa”, ho pensato che fossi passato in Basilicata. Qual è la reazione dei tuoi genitori ogni volta che rientri alla loro di casa?
Di grande gioia. Anche se, in realtà, è molto più frequente che siano loro a venirmi a trovare a Roma: in effetti, manco da un paio d’anni da casa perché sono stato molto impegnato. Ho fatto la spola tra diversi posti e non c’è stata occasione di scendere in Basilicata. La reazione, però, è sempre di gioia perché, grazie al cielo, ho un rapporto stupendo con i miei genitori, con mio fratello e con tutta la famiglia in generale.
Del resto, hanno supportato la tua vocazione d’attore sin da quando eri giovanissimo.
A dire il vero, c’è voluto un po’ di tempo prima che lo facessero. Sebbene sin da piccolo abbia sempre reso chiare quali fossero le mie intenzioni, inizialmente c’era un po’ di diffidenza. Dire di voler fare l’attore per loro era un po’ come dire che volevo fare l’astronauta: i miei sono molto pragmatici, per cui non è stato facile per loro digerire la mia scelta. Tuttavia, adesso ho il loro pieno supporto e li vedo anche molto felice: mi seguono, vedono i miei film e stanno attenti ai progetti a cui prendo parte. In tal senso, la nostra relazione è cambiata in meglio ma ho dovuto insistere per seguire la strada della recitazione: non c’era modo di fare altrimenti.
Ed è per accontentare il loro pragmatismo che ti sei iscritto a Medicina?
Quando mi sono trasferito a Roma per studiare Medicina all’incirca dieci anni fa, l’intenzione era quella di frequentare l’università e parallelamente di cercare di entrare nel mondo della recitazione. Sono partito dal basso bazzicando nel mondo dei provini senza avere all’epoca un’agenzia alle spalle. Volevo specializzarmi in Psichiatria, ho sostenuto anche quattro anni di esami ma poi la recitazione, ha preso il sopravvento. Ho avuto la fortuna di veder concretizzarsi la mia vocazione principale e di poter lavorare anche abbastanza di frequente e a tempo pieno come attore, ragione per cui Medicina è stata per il momento messa da parte.
Relativamente messa da parte, direi io. Per una strana coincidenza, la Medicina sembra ritornare anche nei ruoli che interpreti. Volevi studiare Psichiatria e sei stato lanciato a livello internazionale da un personaggio borderline nella serie tv Skam mentre ora ti ritrovi a interpretare un paziente affetto da leucemia in Noi anni luce…
L’interesse per la psicologia e la psichiatria è sempre vivo. Sono convinto che siano due scienze estremamente legate al lavoro che faccio. Ho avuto la possibilità di prendere parte a progetti che mi hanno dato la possibilità di continuare a indagarle e ho avuto modo di capire come il mestiere dell’attore sia un po’ l’altra faccia della medaglia di quello dello psicologo. C’è tantissima analogia e non posso che esserne felice: la materia mi interessa ancora e trovo affascinante poterla esplorare artisticamente.
Cosa ti ha permesso di capire di te l’esplorazione artistica della mente?
È una domanda molto complessa. Sicuramente, mi ha permesso di capire chi sono io strutturalmente: non ho altra scelta se non quella di avere l’interesse a esprimermi artisticamente e di farlo attraverso la recitazione, un mezzo che coinvolge in effetti tutto me stesso. È un processo che trovo emotivamente appagante, oltre che interessante: ogni progetto mi regala scoperte su di me grazie al bellissimo rapporto di simbiosi che si instaura tra persona e personaggio.
C’è sempre uno scambio attivo di cose che ho imparato nella mia vita, che fanno parte di me e che sono funzionali, che do al personaggio. E, viceversa, dal personaggio imparo aspetti che non fanno parte di me e che non ne hanno mai fatto ma che diventano un’abitudine per un certo periodo di tempo e che mi trascino anche dietro nella vita. È un continuo processo di apprendimento.
Per Noi anni luce, cosa ha comportato questo processo? Cosa ha lasciato Edo in Rocco e cosa invece Rocco ha portato di sé in Edo?
Edo è un personaggio molto forte, nonostante la fragilità del momento che sta attraversando e che ha attraversato, e questa sua caratteristica mi ha impressionato subito. Ne ha viste di cotte e di crude e, per forza di cose, ha dovuto instaurare un rapporto con la morte diverso a quello di tante altre persone: sebbene la sua giovane età, ha dovuto raggiungere una certa autoconsapevolezza di sé e di quello che vuol dire avere una “data di scadenza” molto vicina.
Il concetto di “fine” lo ha portato a dare tanto valore al presente, alle cose semplici e a ciò che conta veramente per provare a essere felici. È un tratto del suo carattere che mi piace tantissimo e che spero sia rimasto con me. Ho messo, invece, al servizio del personaggio la mia sensibilità e anche la mia consapevolezza: è stato un bellissimo scambio!
Nella prima scena in cui Edo incontra Elsa in ospedale, a un certo punto del loro dialogo viene fuori la parola “ambizione”. Ed è significativo che a pronunciarlo sia una persona prossima alla morte. Qual era l’ambizione principale di Rocco Fasano quando aveva la stessa età di Edo?
La mia ambizione era ed è sempre stata quella di avere la possibilità di fare ciò che mi piace perché, comunque, quello dell’attore non è un mestiere facile da agguantare, soprattutto se si è originari del sud come me. Si viene dal nulla, non si hanno contatti e non è facile cominciare a muoversi nel campo di quello che si vuol fare. Mi ci è voluto tanto tempo e mi ci sono voluti tanti sforzi ma la mia ambizione non cambiava, rimaneva sempre la stessa: avere il privilegio di poter fare quello che mi piace.
Eppure, a quell’età la tua ambizione era anche legata a un’altra sfera artistica, quella musicale. Hai studiato al Conservatorio e ti sei specializzato in pianoforte, teoria e solfeggio: non proprio una passeggiata.
Quello del Conservatorio è un percorso che ho cominciato prestissimo. La mia formazione artistica di quegli anni è stata prevalentemente musicale. Ho iniziato a studiare pianoforte classico al Conservatorio quand’ero molto piccolo e l’ho portato a termine durante il secondo anno di università: la musica ha sempre fatto parte di me, anche se il mio approccio, sia a livello di piccole composizioni sia a livello di esecuzione è sempre stato più intimo rispetto alla recitazione. Suonare davanti a un grande pubblico mi mette molto in difficoltà, non so perché ma è il motivo per cui non ho mai perseguito una carriera da concertista. Mi piace invece comporre e suonare per i miei amici, per un gruppo di persone veramente interessate a quello che faccio e alla mia musica molto, molto di nicchia.
Studiare pianoforte al Conservatorio vuol dire però anche sacrificio, che è anche una delle parole chiavi del film Noi anni luce. Guardandoti indietro, qual è il più grosso sacrificio che ti ha fatto fare la musica prima che la recitazione?
Studiare al Conservatorio richiede disciplina e rigore. Mi sono ritrovato a dover studiare pianoforte classico, a preparare i test di ingresso a Medicina e a frequentare i corsi di recitazione nello stesso periodo, ad esempio. Chiaramente, a farne le spese è stata la vita sociale. Ricordo come quelli siano stati quasi tutti anni leopardianamente di studio a cui però sono grato. Ho avuto modo di recuperare molte cose solo dopo: si fa sempre in tempo a divertirsi! La lezione vera che ho imparato è stata la disciplina: ampliare e applicare il proprio focus e la propria concentrazione per tante ore sullo strumento, sul libro o sulla nozione, mi ha dato un bagaglio molto importante.
Quanta autodeterminazione serve nel darsi disciplina quando il mondo intorno a te pensava a divertirsi?
Molta. L’autodeterminazione, per come la intendo io, è molto importante: significa avere una proiezione solida di se stessi verso cui lavorare e investire le proprie energie. Vuol dire in qualche modo avere uno scopo. Il periodo di formazione richiede rigore e disciplina, due parole che tornano: è quello il costo dell’autodeterminazione.
Non ti faceva apparire “strano” agli occhi dei coetanei?
Sono sempre stato un pesce fuor d’acqua, un outsider, purtroppo. Mi sono sempre identificato con tale figura. Non che lo fossi realmente, avevo una vita sociale e non ero un solitario, ma apparivo agli occhi degli altri come un po’ “stramboide” o nerd. Però rimango piuttosto grato a quella che è stata la mia vita finora, con tutti i suoi sforzi, sacrifici, dolori e cose belle.
In una recente intervista a The Hollywood Reporter Roma, hai detto di essere tanatofobico. Mentre tutti hanno paura di ragni o malattie, tu ammetti di avere paura della morte. Nasce da quel senso leopardiano a cui accennavi prima?
Giusto per ridere, una mia fobia vera e propria, più facile da capire e tangibile, è quella per i rettili. Per quanto riguarda la morte, credo di essere tanatofobico nella misura in cui lo siamo tutti quanti. Forse nel passato ho vissuto un periodo in cui ci ho pensato un po’ di più ma semplicemente perché quello della morte era un concetto che mi affascinava sia per la dimensione filosofica sia quel quella umana ed emotiva della paura della fine. Quindi, quand’ero piccolo mi facevo un sacco di pippe mentali pensando tantissimo alla morte: è in tal senso che forse sono un po’ tanatofobico.
Uno dei pregi di Noi anni luce è quello di raccontare la malattia senza scadere mai nella metafora del supereroe. Sia Edo sia Elsa mantengono la loro dimensione umana. Quali sono state le indicazioni del regista e delle due sceneggiatrici?
Le indicazioni sono state chiarite sin dall’inizio del progetto: lo scopo era quello di evitare a tutti i costi un atteggiamento pietistico superficiale. Come ha spiegato bene in diverse occasioni Tiziano, il pietismo è una vera e propria enfatizzazione e non fa altro che ostacolare l’identificazione con il personaggio e con il dolore che sta attraversando di fronte a te sullo schermo. Il pietismo avrebbe portato lo spettatore a non entrare mai in empatia con i personaggio e le loro storie.
Abbiamo provato a riproporre semmai un linguaggio giovane per i giovani: nuovo, fresco, vero e autentico. Il nostro è stato un lavoro in levare: abbiamo tolto tutto ciò che era superfluo e che potesse far scivolare nel mero pietismo. Nel film come nella vita, non bisogna provare pietà: occorre semmai comprendere la situazione dell’altro, persona o personaggio, che si ha di fronte, empatizzare con lui e provare le sue stesse emozioni.
Nella storia, Edo è circondato da molti bambini. Hai avuto mai modo di recarti in visita in vero reparto di oncologia pediatrica?
No, non ci sono mai stato. Ma ho avuto modo di confrontarmi con la malattia, al di là dello studio all’università. Ho approfondito per i fatti miei l’argomento leucemia per capire la malattia a livello sensoriale, fisico e, soprattutto, psicologico. Ho avuto anche la “fortuna” di confrontarmi con una mia amica che ha avuto un’esperienza simile alla leucemia (da cui poi è uscita) e avere con lei un dialogo maturo su quelle che sono le paure e le emozioni che si provano nel quotidiano, da ciò che ti viene a mancare ai pensieri che desideri arginare.
La domanda non era ovviamente pretestuosa. Sia Elsa sia Edo, nonostante non sia più minorenne, sono ricoverati in un reparto pediatrico oncologico.
Edo è rimasto in quel reparto sia come paziente sia come animatore per i più piccoli, un’attività che oggi fortunatamente fanno in tanti. Per me, sono loro i veri eroi: strappare un sorriso o anche solo cinque minuti di spensieratezza a quei bambini fa una differenza enorme per la loro salute mentale.
Edo strappa molti sorrisi a Elsa. Se ci pensiamo, diventa il motore della sua salute mentale, dal momento che non la vediamo quasi reagire al momento della diagnosi, rasentando quasi la depressione.
È una bellissima chiave di lettura: secondo me, Edo ed Elsa sono l’uno la chiave di svolta dell’altro in termini di salute mentale. Hanno alle spalle circostanza simili che, vuoi on non vuoi, influiscono sulla nascita del loro rapporto. Vengono però da due posti emotivi e psicologici diversi. Edo sta già sul cammino dell’accettazioni di tutta una serie di verità molto più grandi lui: ha visto persone venire a mancare per la malattia, si è già sottoposto al trapianto e ha avuto più tempo per metabolizzare un concetto con cui Elsa sta invece facendo i conti per la prima volta.
Si vengono incontro a vicenda ed Edo cerca di portarla per mano sia verso la salvezza fisica, aiutandola a trovare un donatore, sia verso quella emotiva, mostrandole come vivere l’emozione in maniera libera e atemporale grazie ai momenti belli che passano insieme.
Alla base del loro rapporto c’è una bugia…
Chiamiamola una “bugia di omissione”.
Servono nella vita le “bugie di omissione”?
Occorrerebbe valutare di caso in caso. Le bugie bianche nella vita possono aiutare indipendentemente dalle circostanze, è quello che mi verrebbe da dire ma non me la sento di tirare una massima in generale: sarebbe sbagliato farlo.
Tu ti sei mai raccontato una bugia bianca da solo?
No. Non mi piace mentire a me stesso né in bianco o in nero né in nessun altro colore. Sono sempre stato molto schietto: lo reputo fondamentale per non incappare in brutte situazioni nella vita. Se vuoi capire come vanno le cose, devi innanzitutto partire da te stesso e non puoi permetterti di raccontarti menzogne. Vale sempre in generale ma vale ancora di più se vuoi fare un mestiere in cui cerchi delle verità altre o cerchi comunque una verità che in qualche modo da soggettiva deve diventare oggettiva. Non puoi permettermi di raccontarti delle sciocchezze: ci vuole autoconsapevolezza.
“Le stelle prima di morire sprigionano energia e cambiano l’universo”: lo si dice prima del finale di Noi anni luce. Hai mai incontrato una stella che, prima di morire, ha sprigionato energia cambiando la tua vita?
Da questo punto di vista, sono stato abbastanza fortunato: non sono mai venuto a contatto con la morte di persone a me molto vicine. Di conseguenza, non ho ancora sperimentato il lutto in maniera diretta ma sempre indirettamente. Non sono nemmeno mai stato a un funerale però credo molto in quella metafora: gli incontri possono davvero cambiare la tua vita in modo determinante e decisivo facendo sì che il dolore del vuoto diventi poi una presenza ancora più forte.
Una stella ancora viva che ha cambiato la tua vita l’hai però incontrata: Tiziano Russo. Vi eravate conosciuti per la serie tv Skam mentre ora siete tornati a lavorare insieme per un film. Com’è stato ritrovarlo su un set ma con un linguaggio differente?
Le differenze di linguaggio tra serie tv e cinema si avvertivano maggiormente un po’ di tempo fa. Adesso è tutto un po’ più mescolato e complesso: anche prodotti destinati alle piattaforme sono spesso girati con una qualità da cinema. Mi ha fatto enorme piacere tornare a lavorare con Tiziano: anche se con una storia e un personaggio diversi, è come se avessimo lavorato al prosieguo di Skam per via di quel linguaggio fresco, giovane e quanto più autentico possibile (quasi documentaristico) che è la sua cifra stilistica. Ho ritrovato la stessa atmosfera confortevole: tecnicamente ma anche umanamente, Tiziano ha dato a tutti la possibilità di esprimere la propria creatività in maniera molto serena. Per me, è l’ambiente ideale di lavoro.
Si è così liberi anche nelle produzioni internazionali? Ti stiamo vedendo su Rai 1 in Hotel Portofino e sei impegnato sul set del film Home Education di Andrea Niada con Julia Ormond e Lydia Page.
Forse in quel caso c’è un po’ meno di libertà ma in realtà dipende sempre dal progetto: uno degli aspetti belli ma allo stesso tempo difficili del mio mestiere è che ogni lavoro è sempre un universo nuovo. Nonostante ci siano alcune regole comuni, ogni storia è un mondo nuovo e ogni regista è un nuovo universo con un metodo nuovo da seguire. Tutto dipende, quindi, da chi hai davanti.
Emerge di te il ritratto di un giovane uomo consapevole e determinato, che ha il pieno controllo di se stesso e della sua professione. Ti è mai capitato su un set qualcosa che ti ha portato a dire “grazie e arrivederci”?
È successo. Sono abbastanza selettivo nello scegliere i progetti a cui voglio prendere parte ma in un passato neanche troppo lontano è accaduto: l’unica cosa che può farmi perdere le staffe è la mancanza di professionalità. Sono stato fortunato a incontrare pochissima gente non professionale ma non sempre va tutto bene e quella è stata un’esperienza meno gradevole di altre. Per me, la parola “rispetto” è fondamentale anche da un punto di vista di etica professionale: ci credo molto e sono un fair player. Rispetto tutti all’ennesima potenza e, banalmente, mi aspetto anche il contrario. Ma non è sempre scontato che sia così.
Noi anni luce è un teen drama che ha alla base anche una componente romantica. Che ruolo ha l’amore nella tua vita?
Sono una persona estremamente romantica, anche troppo. Ho sposato tanti aspetti del XIX secolo tanto che, scherzando, dico sempre che nella mia vita passata ho vissuto nell’Ottocento. Mi piace veramente tutto di quel secolo, dalle manifestazioni artistiche al modo di vivere l’amore. Essere il più romantico possibile è qualcosa di cui non posso fare a meno.
Qual è la cosa più romantica che hai fatto per amore?
Ce ne sono tante… una volta, mi sono fatto diecimila chilometri per portare qualcosa di “prezioso” a una persona che amo.
Tornando al tuo passato, hai detto di aver cominciato dal nulla, senza avere nemmeno un agente.
Quando mi sono trasferito a Roma, non avevo assolutamente appigli nel mondo della recitazione, per cui l’unica cosa che potevo fare era iscrivermi alle mailing list di casting e provini. Ho trovato così il primo film a cui ho preso parte: un progetto molto indipendente in lingua inglese diretto da Alfonso Bergamo. Ricordo benissimo il provino: era il 2013, ero in fila con tantissimi altri ragazzi, sono piaciuto al regista ed è stato emozionantissimo sapere di essere sono stato scelto. Con Bergamo abbiamo poi lavorato insieme diverse altre volte anche su cortometraggi molto interessanti e sperimentali che, in effetti, hanno rappresentato per me una bella fucina di formazione.
Cosa hai provato quando hai trovato il tuo primo agente?
Sollievo. Quando cominci a bazzicare il mondo della recitazione, capisci che è fondamentale trovarne uno. E quando ci sono riuscito ho pensato che da quel momento avrei potuto cominciare a fare un discorso serio. Ma avevo già alle spalle un bel materiale da presentare e portare con me.
E ricordi anche cosa hai comprato con i primi soldi guadagnati?
Non ne ho la più pallida idea. Probabilmente, un volo.
Sai che nel web esistono decine e decine di gruppi, anche sui social, a te dedicati?
Qualche amico o amica me le hanno fatte vedere. Ce n’era una divertentissima su Instagram, che adesso non esiste più: si chiamava “Le gengive di Rocco Fasano” e mi faceva troppo ridere.
Che rapporto hai tu con chi ti segue? Presti attenzione ai loro commenti e ai loro giudizi?
Cerco di prestare attenzione a quello che scrivono: è bello avere un feedback soprattutto quando una fetta larga del tuo pubblico è teen, senza peli sulla lingua e in grado di dire sempre quello che pensano realmente. È un pubblico da cui si può imparare tantissimo. Il periodo di Skam era un delirio continuo: dopo ogni singolo episodio, c’erano dibattiti e commenti che creavano discussioni attive sui temi affrontati e quant’altro!
Trovo dolcissimi i ragazzi e le ragazze che si avvicinano a me per fare due chiacchiere o per chiedere una foto. Sono persone solitamente molto educate e carine a cui non posso che essere grato e con cui non posso non avere un ottimo rapporto.