Rosa Diletta Rossi si apre su una serie di temi intriganti e coinvolgenti, offrendo uno sguardo unico sulla sua esperienza nel mondo del cinema, sul suo percorso personale e sulle sfide che ha affrontato lungo il cammino. Con un'anima che riflette la profondità dei personaggi che interpreta sul grande schermo, Rosa Diletta Rossi rivela la sua passione per l'arte, la sua lotta contro gli stereotipi di genere e il suo costante cammino verso la consapevolezza e l'accettazione di sé.
L'intervista inizia con una riflessione sulla sua interpretazione di Simona in Martedì e Venerdì, un ruolo che offre una finestra unica sulle dinamiche familiari e sulle sfide della separazione. Rosa Diletta Rossi condivide il suo approccio al personaggio e il processo di collaborazione con i registi, Fabrizio Moro e Alessio De Leonardis, sottolineando l'importanza di costruire una solida base emotiva per il ruolo.
Parlando del suo percorso personale, Rosa Diletta Rossi rivela il suo trasferimento verso il Nord Italia per studiare recitazione, sfidando le convenzioni e cercando opportunità di crescita artistica al di fuori della sua zona di comfort. Questa decisione coraggiosa ha plasmato il suo carattere e ha contribuito alla sua evoluzione come artista.
L'intervista continua poi con un'intima esplorazione della sua identità, con Rosa Diletta Rossi che condivide le influenze dei suoi genitori e la sua lotta contro i pregiudizi estetici nel mondo del cinema. E ci racconta anche il suo percorso di autoconsapevolezza attraverso la terapia e il suo costante impegno per abbracciare la sua vera natura.
Ma non solo. Rosa Diletta Rossi, prossima protagonista anche di Folle d’amore, offre riflessioni illuminanti sulla libertà e l'uguaglianza di genere, sottolineando l'importanza di sfidare i cliché e promuovere una cultura di ascolto e comprensione reciproca.
Intervista esclusiva a Rosa Diletta Rossi
“Per me Maria Corleone era tanto un fumetto: in Italia non si ha molto la percezione per cui questo mestiere può essere a volte più impegnato e altre volte meno”, esordisce Rosa Diletta Rossi quando, ancor prima di parlare di Martedì e Venerdì, il film di cui è protagonista con Edoardo Pesce, le propongo l’ipotesi di condurre l’intervista in siciliano. “Tendiamo sempre a prenderci sul serio ed è qualcosa che detesto”.
E quello di Simona in Martedì e Venerdì è un ruolo molto serio: è l’ex moglie di Marino e madre di Claudia. A cosa hai fatto appello per interpretarla?
Sono arrivata in corsa in questa storia: Alessio De Leonardis e Fabrizio Moro, i due registi, mi hanno chiamata quasi a dieci giorni dalle riprese. Letta la sceneggiatura, li ho incontrato e ho accettato il personaggio di Simona perché mi piaceva il loro punto di vista: ho chiesto semplicemente di non farla passare come la madre che toglieva qualcosa a quella che era stata la sua famiglia e di non metterla contro l’ex marito. Sin dalla scrittura era evidente che non era quello lo scopo e non mi interessava che lo fosse. Da autori quali sono, Alessio e Leonardo hanno già in mente cosa vogliono raccontare. Hanno il film in testa ma non ti dicono niente: devi solo fidarti di loro e chiaramente così io ho fatto.
Per Simona, siamo partiti dal rapporto familiare: abbiamo dovuto costruire la famiglia prima di vederla dividersi. Era importante che ci fosse qualcosa dietro e con Edoardo Pesce e la piccola Aurora Manenti, in fase di preparazione, siamo andati banalmente a fare una passeggiata e a mangiare qualcosa insieme per costruire tra di noi un legame che dopo andava rotto. Farlo, a me è servito molto per restituire poi alla storia un senso di nostalgia per quello che era stato.
Nonostante Simona non sia contro Marino, c’è una scena in cui appare particolarmente strong prima di ammorbidirsi davanti ai soldi che l’ex marito le porta per il mantenimento.
È vero. Simona è una donna che deve mantenere una certa direzione ma solo perché Marino non lo fa. Come spesso succede, purtroppo, in lei c’è una sorta di mania di controllo: se non l’avesse, la situazione le sarebbe sfuggita di male e le cose avrebbero preso un’altra piega. Ciò fa sì che sia una donna molto in tensione e allo stesso tempo anche stanca e sofferente, deve mantenere il punto in quella che è la fase più delicata della loro vita: separarsi significa cambiare assetto avendo però come priorità il bene della figlia.
E quante volte Rosa ha cambiato assetto nella sua vita?
Quand’ero più giovane, ero più irrequieta, predisposta all’azione e anche inquieta. Avevo un assetto molto sbilanciato: cercavo costantemente di guardare ad altro e ciò non mi faceva stare bene. Rispetto ad allora, il mio assetto è decisamente cambiato perché, quando si comincia a essere più consapevole dei propri mezzi, si deve trarne vantaggio e in qualche modo fidarsi di se stesso e delle proprie capacità: occorre saper ascoltare e saper guardare senza dover necessariamente agire. Ed io prima agivo tanto.
Ti ha aiutato la recitazione a tenere a bada l’inquietudine?
Ho cominciato a recitare molto presto, già alle scuole elementari. Le regole del palco e del teatro mi aiutavano a incanalare quell’inquietudine, che poi alla fine non era altro che vivacità. Recitare è sempre stato per me un modo diverso di apprendere da quella che era la consuetudine: ho sempre avuto un po’ di difficoltà a stare seduta al banco, il potermi muovere mi dava libertà di azione e allo stesso tempo mi aiutava a recepire meglio. Utilizzare il mio corpo e tutti i miei sensi mi stancava ed io ho bisogno di stancarmi, di vivermi e di prendere tutto.
E, quindi, nel tempo la recitazione mi ha aiutata. Ma è una realizzazione abbastanza recente: fino quando ti senti ancora alla mercé di un mercato che ti deve conoscere, apprezzare e valorizzare, senti ancora la smania di agire per dover esserci. Ho cominciato a sentirmi un po’ più “a bada” quando ho finalmente smesso di presentarmi… quando gli altri hanno cominciato anche un po’ a vedermi, mi sono detta ‘ok, posso essere chi sono’.
È un bel riconoscimento della propria identità. C’è stato qualcuno che ha sbagliato nel tuo percorso a non capire chi eri?
Ho sofferto molto per un episodio in particolare. La prima parte della mia vita e della mia carriera sono state fondate fondamentalmente sul teatro. Quando ho preso parte alle prime serie televisive, avevo deciso di rimettermi in gioco studiando al Teatro Stabile di Genova. Passato il primo provino, non ho superato il secondo: dopo un anno propedeutico, è arrivato lo stop e per me è stato un colpo enorme. Lo ricordo ancora perché mi ha preso ai fianchi, non me l’aspettavo.
Sebbene la direttrice della scuola mi avesse spiegato che avevo già grandi possibilità per lavorare e muovermi sulle mie gambe, l’ho vissuta ugualmente come un fallimento, come un mancato riconoscimento da parte di una scuola così prestigiosa a cui tenevo tantissimo. Dovevo dunque reagire in qualche modo: mi sono presa due settimane di tempo per rielaborare cosa era accaduto e, dopodiché, ho fatto un nuovo provino per un’altra scuola e sono andata a studiare a Torino.
Martedì e Venerdì: Le foto del film
1 / 19Il tuo trasferimento verso nord è qualcosa di insolito: in un mondo in cui tutti arrivano a Roma per studiare recitazione, tu fai il percorso inverso e da Roma ti allontani.
Avevo bisogno di confrontarmi soprattutto con il teatro, che negli anni in cui lo studiavo io era all’avanguardia in città del Nord Italia come Genova, Milano o Torino. È lì che ho avuto la fortuna di vedere tantissimi spettacoli europei di altrettanti maestri: lo Stabile di Genova era ad esempio gemellato con quello di Nizza dove era possibile vedere Peter Brook mentre al Piccolo di Milano capitava che arrivasse Thomas Ostermeier. Ho viaggiato dunque per vedere il teatro che mi piaceva e perché comunque avevo bisogno di svincolarmi dalla mia situazione di comfort: volevo mettermi alla prova in una condizione che non fosse quella di casa.
La situazione di comfort sono spesso i genitori: qual è stata la difficoltà maggiore dell’allontanarsi da casa?
Io sarei andata via di casa anche a diciott’anni ma perché non stessi bene con i miei genitori. Ho un bellissimo rapporto con la mia famiglia ma avevo bisogno di diventare l’adulta che volevo essere. Aspiravo all’autonomia a tutti i costi: chiaramente, non ne avevo le possibilità e, quindi, me le sono dovuta costruire con il tempo. Non è stato facile, soprattutto per quanto riguarda la dimensione economica: sono partita per il provino allo Stabile di Genova con un flixbus, sono andata a dormire in una bettola e mi sono mantenuta con i soldi che avevo guadagnato negli anni precedenti a lavorare come cameriera.
E, quindi, per rispondere alla domanda, quando non hai la possibilità di avere qualcuno che sovvenziona i tuoi studi, la più grande difficoltà è il dover farcela da sola. Ho cominciato a vivere del mio mestiere di attrice abbastanza presto se penso ai tanti colleghi che sono costretti a fare anche altri lavori: è stato intorno ai 28 o 29 anni che ho sentito di poter dire che ero un’attrice.
Mamma insegnante, papà medico: non avranno di certo brindato quando hai detto loro che volevi far l’attrice.
Non l’hanno fatto ma sono stati molto fiduciosi delle mie possibilità e di tutto quello che avrei potuto fare. Di conseguenza, non mi hanno mai ostacolato: mi hanno osservato a distanza, facendomi domande e interessandosi a ciò che facevo. Credo abbiano vissuto anche le difficoltà legate soprattutto ai primi anni ma, come spesso succede quando gli altri riescono a vedere in noi qualcosa che noi non riusciamo ancora a visualizzare dentro la nostra storia, sapevano dentro di loro vedendomi dall’esterno che ce l’avrei fatta.
A chi somiglia caratterialmente Rosa? A mamma o a papà?
Un tempo avrei risposto papà, oggi mi sento più simile a mamma: sono un mix di entrambi. Da mio padre ho preso l’ordine, la diligenza, la precisione e la discrezione su alcune cose. Da mamma, invece, tutto ciò che riguarda la stravaganza, l’iperattivismo, il fare mille cose contemporaneamente. Mamma è una donna che non sta mai ferma e che ha mille talenti, è molto pratica. Ha anche cambiato lavoro prima dei sessant’anni: quando a 58 anni il negozio di design per cui lavorava ha chiuso, ha deciso di fare il concorso per diventare insegnante e ce l’ha fatta… non si ferma davanti a niente! Ho ereditato da lei il non arrendersi: si è sempre messa alla prova con grande entusiasmo e ancora continua a farlo.
La cosa più bella che entrambi mi hanno trasmesso rimane però l’amore per la vita e la propensione, sempre più rara intorno a noi, di guardare avanti: siamo spesso circondati da persone che tendono a lamentarsi… ecco, di lamentele a casa mia non ne ho mai sentite.
In effetti, sentendoti, è difficile immaginare te che ti lamenti…
Mi lamento qualche volta, soprattutto quando non riesco a fare delle cose.
Sarà che pretendi un po’ troppo da te stessa, come quando per superare la paura del vuoto hai cominciato a praticare alpinismo?
Per raggiungere qualsiasi tipo di risultato ci vuole molta costanza, molta disciplina e molta pazienza: mi piacciono i percorsi lunghi e graduali… non sono una centometrista (ride, ndr)! Ho affrontato la paura dell’altezza quindici anni fa e da un mese ho cominciato a praticare sci alpinismo perché mi sentivo pronta.
Dopo aver fatto arrampicata sportiva, ho iniziato anche con il trekking di montagna invernale: perché non fare allora anche sci? Sentivo che potevo e mi sto mettendo alla prova: è una delle cose più difficili e faticose che si possano fare… Non sono per le facili infatuazioni, anche perché è solo quando ti addentri in un’attività, la prendi di petto, ne affronti gli ostacoli e ne sperimenti rischi e pericoli, che cominci a conoscerla, a divertirti e a godertela.
Sorrido: dopo averti visto una volta in televisione e aver notato come fossi timorosa delle telecamere, mi sorprendi con un ritratto di te in cui emerge quanto caratterialmente sei forte.
Con le apparizioni in televisione sono ancora molto impacciata: è una scatola che non conosco e probabilmente è solo con gli anni che imparerò a diventare più fluida. Recitare è il mio lavoro (ed è un lavoro bellissimo), mi piace esserci ma allo stesso tempo voglio conservare aspetti importanti della mia personalità che da giovane ho cercato di schiacciare dicendomi che “non ci si comporta così” o che “forse bisognerebbe andare in tv in un certo modo”… ci ho provato ma ero impacciatissima e stavo peggio di prima: allora è forse meglio mostrarsi per come si è, la gente mi accetterà per quella che sono.
Ti sorprende la popolarità, l’essere riconosciuta per strada?
Sta capitando sempre più di frequente, soprattutto nell’ultimo anno, anche perché, poveraccia, la gente mi ha visto un po’ dappertutto (ride, ndr). Mi riconoscono ma sempre associano il volto al nome ma quello che mi sorprende di più è come le persone mi guardino stranita quando mi incontrano in montagna: hanno la sensazione di avermi già vista ma non sanno dove, non si aspettano di trovare lì un’attrice. Comunque, sì: mi sorprende la popolarità, sono ancora incredula e non so come gestirla… il più delle volte sorrido e basta, chiedendo a chi mi ha fermata che lavoro faccia: è un modo per distogliere subito l’attenzione da me, lavoro come tantissimi altri.
Sinonimo di popolarità è anche la nascita delle pagine internet in cui ci si chiede chi tu sia, cosa faccia, se sia sposata e così via.
Mi fanno molto ridere, anche perché spesso lavorano di fantasia. Hanno scritto di me che facevo capoeira, una delle danze più complicate che possano esistere: non so dove siano andati a pescarla come informazione… sarebbe bellissimo saperla fare ma non è così. Oppure mi fa ridere quando da una semplice foto su Instagram deducono verità che non rispondono alla realtà: se pubblico una foto con un cane, quel cane diventa automaticamente mio.
Sempre meglio il cane che il fidanzato… per quello scrivono che sei molto riservata.
Faccio ancora fatica a immaginarmi come personaggio pubblico. Mi sottraggo talmente tanto nei personaggi che interpreto che mi chiedo quanto bisogno ci sia di sapere chi sono io nella vita privata. Si dice del resto che i propri miti non bisognerebbe mai incontrarli: potrebbero rivelarsi molto diversi da come ce li raffiguriamo (ride, ndr).
Quali erano i tuoi miti da piccola?
Un film che mi aveva particolarmente segnato era L’attimo fuggente e, quindi, a dodici anni, mentre le mie coetanee osannavano i Backstreet Boys o Leonardo DiCaprio, a me piaceva Robin Williams: mi sembrava un attore così potente, così forte, così intenso… anche se solitamente non ho la tendenza a mitizzare.
Cosa preferiresti che si scrivesse di te: “bella”, “brava” o “brava, oltre che bella”?
Bella domanda: talvolta, credo che gli altri mi percepiscano in maniera diversa da come voglia presentarmi io. Sin da piccola, ho combattuto contro il pregiudizio estetico mettendo in prima linea lo studio, le mie capacità e il mio modo di saper affrontare le cose: non volevo e non voglio avere sconti. Non ho mai voluto cavalcare l’essere considerata “bella” e delle volte mi sono anche data un po’ la zappa sui piedi. Sto cominciando solo adesso a godermela maggiormente proprio perché sono diventata anche donna e sono quindi meno imbarazzata nel propormi agli altri con più disinvoltura.
Non credo però che la bellezza sia un talento: è semmai uno strumento interessante e unico che, quando si ha la fortuna di possederlo, può essere messo al servizio di altro. Subivo il fatto di essere considerata “bella”: era come se gli altri lo considerassero un vantaggio per il mio lavoro quando io invece mi sacrificavo con lo studio e l’impegno. Non ho di conseguenza mai cavalcato l’onda della bellezza però oggi sono contenta di essere anche cosciente di avere una presenza di cui posso godere io in primis e dopo anche gli altri.
Anche perché per un attore il corpo è inevitabilmente strumento di lavoro.
Assolutamente. Ma per me ha a che fare proprio con la coscienza: devo essere cosciente di ciò che porto in modo da stravolgerlo o da utilizzarlo. Devo partire da ciò che ho a disposizione per decostruirlo o innalzarlo, a seconda delle circostanze.
Quello di attore è un lavoro che inevitabilmente dipende dal giudizio altrui: ti sei mai sentita non all’altezza?
Non so se il non sentirmi all’altezza sia stato il motore che mi ha sempre spinto a migliorarmi o forse una condanna: ogni tanto, ci si dovrebbe dare anche da soli una pacca sulle spalle. In passato, le parole degli altri mi ferivano molto e mi facevano sorgere mille dubbi sul mio modo di agire, spingendomi a mettermi costantemente in discussione. Per molto tempo, il giudizio altrui mi è pesato…
Quando hai capito che dovevi andare oltre?
Quando ho cominciato a fare terapia. Insieme alla montagna, la terapia mi ha salvato la vita. Sono andata in terapia perché non ero padrona delle mie emozioni: non le capivo, non le sapevo distinguere e mi creavano uno stato di confusione. Spesso, dietro al dolore c’è la rabbia ma, se non la riconosci, senti solo l’emozione successiva e non capisci bene cosa sta accadendo dentro te. È stato (ed è) un percorso molto intenso, difficile ma necessario per comprendere la mia natura o il perché certe interazioni non funzionavano e il perché alcuni assetti funzionavano di più.
Non significa che dopo la terapia vada tutto bene, le difficoltà esisteranno sempre però è il tuo punto di vista a cambiare: impari a occuparti di quello di cui puoi e non di tutto e impari a prendere le distanze. La rabbia è un sentimento molto, molto nobile se non si tramuta in volenza o in conflittualità: serve a mettere le distanze e a capire cosa non va bene per te e cosa ti fa male. Ma ci ho messo molto tempo per capirlo ma è stato utilissimo farlo: il bello arriva quando cominci a riconoscerti e a sentirti veramente tu… ma non perché non sbaglierai più ma semplicemente perché, quando sbagli, ne sai la ragione.
Quando hai cominciato a riconoscerti, qual è la cosa che ti ha sorpreso sapere di te?
Non sapevo di essere una persona molto tenera, molto dolce. Pensavo di essere molto tosta, me lo sentivo ripetere spesso, e invece ho scoperto di avere una grande dolcezza insita in me di cui avevo paura… una dolcezza figlia di una sensibilità che in alcuni casi mi aveva anche fatto più male che ad altri: non riuscivo a farmi scivolare nulla di dosso. Ho cominciato allora a prendermi cura di questo mio lato e a disporlo sia nei confronti degli altri (cosa che già facevo) sia verso me stessa.
Ridere è un atto rivoluzionario. Quand’è l’ultima volta che hai riso di te stessa?
Oggi. Lo faccio tutti i giorni: a me piace stare costantemente in contesti in cui ci si prende costantemente in giro. È una pratica che trovo molto, molto intelligente.
E l’ultima volta che hai pianto?
Può sembrare banale perché si pensa che lo dica per autopromozione ma mi sono commossa qualche sera fa nel vedere Martedì e Venerdì in sala con la gente. Mi imbarazza dirlo perché sembra autocelebrazione ma non vuole esserlo: mi sono emozionata nel vedere per la prima volta il film, non l’avevo ancora visto, insieme al pubblico… mi ha fatta in un certo senso liberare: amo il cinema proprio perché è il luogo in cui si ha la libertà di emozionarsi e di farlo tutti insieme. Andrei al cinema come terapia: ti permette di fare dei viaggi che, a seconda dei tuoi stati d’animo, ti consento di piangere o ridere senza doverti nasconderti perché tutti lo fanno.
Cos’è la libertà per Rosa?
È la possibilità di non doversi categorizzare mai, di non rientrare all’interno di schemi predefiniti e di essere oggi una cosa diversa da ciò che si era ieri.
E tu hai lottato contro gli schemi predefiniti?
Tantissimo. L’essere donna viene definito spesso una “condanna” ma mi dispiace per gli uomini che non hanno mai potuto esplorare cosa significhi crescere con un certo senso di concretezza e di identità sin dalla tenera età. Noi donne dobbiamo necessariamente, purtroppo o per fortuna non saprei, scontrarci con una serie di inciampi e ostacoli che ci fanno costruire un’identità risoluta molto prima: ci perdonano molte meno cose…
Qual è l’ostacolo che tende a ripetersi?
Al di là di quelli legati all’aspetto fisico o alla prestazione, da un punto di vista intellettuale in alcuni salotti e in alcune situazioni percepisci ancora da come ti osservano o da come ti guardano tutti i pregiudizi di genere: se da donna dici qualcosa di intelligente, c’è subito un uomo che deve fartelo notare… è come se si rimanesse sorpresi, come se non fosse possibile una conversazione dialettica alla pari. Nel mio caso, la parola è sempre stata ciò che mi ha definito di più…
“Ah, dici queste cose?” è una di quelle tipiche frasi maschili che spesso si usano per sminuire il tuo visto di vista e per ristabilire una forma di supremazia intellettuale, accompagnata spesso dall’“ora ti spiego io”. Ho sempre poi trovato indigesto quando qualcuno tira in ballo che i più grandi autori della letteratura sono stati tutti uomini… lo sono stati quelli pubblicati: che ne sappiamo delle donne che non sono riuscite ad arrivare fino a quel punto?
Non capisco perché io debba giustificare il fatto che sto avendo una conversazione con te anche se non apparteniamo allo stesso genere. Eppure, mettere da parte la superiorità potrebbe essere una grande conquista. Sogno un mondo à la Povere creature: si potrebbe esplorare un altro modo di stare insieme e di rapportarsi gli uni con gli altri senza cliché, stereotipi e pregiudizi. Basterebbe partire da un ascolto comune per vedere cosa succede: dal confronto, potrebbe scoprirsi una nuova bellezza e nascere forme di presenza più sane anche per le generazioni future. Dentro ai ruoli, non ci sta bene nessuno: a che servono? E chi li ha decisi?