Rossana Cannone è una delle giovani protagoniste del film La grande guerra del Salento, in sala per Ahora! Film dal 5 maggio. Interpreta Agnese, una giovane salentina che vivrà da vicino le conseguenze di una fatidica partita realmente disputata nel 1949.
Il film La grande guerra del Salento, diretto da Marco Pollini e prodotto da Evelyn Bruges, è tratto dal romanzo omonimo di Bruno Contini e ci porta direttamente nel Salento del Secondo dopoguerra. Mentre l’intera Italia si lecca le ferite del conflitto appena terminato, due piccoli paesini vivono una guerra tutta lora. Si tratta di Ruffano e Supersano, separati da pochi chilometri, da ideologie differenti e da due squadre di calcio assurte a simbolo di potere e supremazia.
“La Grande Guerra del Salento è un film di lacrime, sudore, sangue ma anche di amore e passione. Raccontiamo un mondo sconosciuto, il dopoguerra nel basso Salento. Una storia vera che in pochi conoscono. Raccontiamo le origini del tifo, la passione per il calcio, l’amore per il proprio paese, la rivalità e il desiderio di vendetta e di rivalsa verso gli “amici” del paese vicino”, ha spiegato Pollini.
Nel cast del film La grande guerra del Salento, figurano attori del calibro di Marco Leonardi, Paolo De Vita, Pino Ammendola e Uccio De Santis. Ma anche tantissime promesse del cinema italiano. Una di queste è la giovanissima Rossana Cannone, con alle spalle diverse esperienze teatrali. Rossana Cannone ha fatto della recitazione il suo principale obiettivo, impegnandosi con tutte le sue forze per riuscirci. Non ha ad esempio mollato la presa quando non è stata selezionata in un’importante accademia. A testa bassa, si è rimboccata le maniche, impegnandosi ancor di più per agguantare il suo scopo l’anno successivo.
La grande guerra del Salento ha aperto a Rossana Cannone le porte del cinema. Spera adesso di continuare a stare davanti alla macchina da presa e, al contempo, continua quella ricerca sia interiore sia artistica che a breve la porterà a teatro a interpretare Virginia Woolf. Durante il corso dell’intervista che segue, scoprirete come Rossana Cannone abbia le idee chiare sulla sua professione. La sana ambizione non le manca. Così come non le mancano le idee chiare sul mondo che la circonda. Con lei è stato possibile confrontarsi sul mondo dello spettacolo, sulla disparità di genere, sulla fluidità e, persino, sulle relazioni tossiche. In maniera schietta, chiara e decisa.
Intervista a Rossana Cannone
Come stai, innanzitutto? La grande guerra del Salento rappresenta in assoluto il tuo debutto cinematografico.
Molto emozionata, agitata. Ogni giorno sono delle montagne russe. Siamo vicini al rilascio del film: il 5 maggio c’è la premiere a Lecce, dopo le anteprime di Verona, Milano e Roma. Sono curiosa della reazione del pubblico: non so veramente cosa aspettarmi.
Di cosa parla La grande guerra del Salento?
Il film è tratto dal romanzo omonimo di Bruno Contini. Racconta una storia vera, ambientata nel basso Salento, tra due paesi molto vicini tra loro, Ruffano e Supersano. La vicenda è avvenuta nel Dopoguerra, tra il 1948 e il 1949. I due paesi erano rivali tra di loro per motivi prettamente ideologici ma anche per quel campanilismo dovuto, soprattutto, a una condizione sociale molto precaria e povera determinata dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Ruffano dipendeva dal presidente dell’omonima squadra calcio, don Alfredo (Paolo De Vita), un ex generale fascista: l’epiteto “don” in paese veniva usato in segno di riverenza e rispetto nei suoi confronti. Supersano, invece, era sotto la guida del presidente dell’omonima squadra calcio, Ernesto (Marco Leonardi), un uomo che ha studiato all’università, gestisce la sua azienda agricola (produce olio e vino) e ha una mentalità molto più liberale (cerca di aprirsi al commercio).
I due paesi erano avversari tra di loro ma soprattutto erano i due capi a rivaleggiare tra loro per una supremazia di potere molto fine a se stessa. Il luogo di concretizzazione di questi giochi di potere è diventato, purtroppo, il calcio perché vincere una partita significava raggiungere quel predominio che si cercava.
Tu in La grande guerra del Salento interpreti invece Agnese. Chi è?
Agnese è una giovane ragazza di Ruffano, il paese di don Alfredo. Con il calcio non c’entra proprio nulla, lo odia, lo detesta. Vive a casa con la nonna Maria (Stefania Ceccarelli) e la sorella Margherita (Lucrezia Scamarcio). I genitori sono emigrati in Svizzera alla ricerca di una condizione di vita che possa riscattare la povertà. Le due sorelle hanno scelto di restare con la nonna, come dice Bruno Contini nel suo romanzo, “perché non avevano proprio voglia di imparare il tedesco e abbandonare i loro ulivi”.
Nonna Maria è ammalata e Agnese, la sorella più grande, ha sulle sue spalle il carico della conduzione della vita familiare e domestica. Agnese, quindi, si ritrova a vivere in un mondo che le chiede presto di diventare grande: assume su di sé il peso di queste responsabilità senza essere consapevole dei suoi confini e ne è praticamente invasa.
Agnese vive una sua relazione sentimentale, è fidanzata con Augusto che, interpretato da Valerio Tambone, ama il calcio ed è tra i supertifosi del Ruffano. Augusto è, però, un ragazzo piuttosto violento. Appartiene a una famiglia benestante e detiene il controllo della sua vita sotto ogni aspetto: psicologico, emotivo, economico. Di conseguenza, Agnese è in una condizione in cui è incapace di comprendere i suoi confini, di difendere se stessa ma anche di farsi rispettare. È un personaggio che si fa sconfinare.
È una relazione alquanto tossica in pratica quella tra Agnese e Augusto. Specchio, tra l’altro, della condizione femminile di un periodo in cui la donna era sottomessa a un uomo che aveva il pieno controllo sulla sua esistenza.
Una relazione molto, molto tossica. Agnese rispecchia perfetta la verità del tempo. Però, nel l’arco di trasformazione del personaggio, Agnese trova il coraggio di cambiare il corso della sua vita. In seguito all’incontro con Giulio, con l’amore vero, e anche a una cosa che non vi posso spoilerare, trova il coraggio di scegliere per sé e autodeterminarsi, di cercare la sua felicità.
L’incontro con Giulio, interpretato da Riccardo Lanzarone, determina un’importante svolta all’interno della sua vita. Giulio è di Supersano ed è il capo tifoso del Supersano calcio. Il loro amore ricorda quello di Romeo e Giulietta, la rivalità tra Capuleti e Montecchi. Quindi, assistiamo anche – non solo per i motivi strettamente intimi e personali della vita interiore dei due personaggi – a un amore reso difficile dalla contrapposizione tra i due paesi.
Giulio è la prima persona che, nella vita di Agnese, non le chiede nulla. Agnese era abituata a vivere in un contesto in cui tutti quanti le chiedevano di dover essere qualcosa, imponendole un ruolo che veniva da circostanze esterne alla sua volontà. Giulio non le chiede nulla ed entra nella sua vita con la forza prorompente della gentilezza, della delicatezza. Grazie a lui, scopre il vero significato autentico dell’amore e di una relazione sana. Se all’inizio non era in grado di difendere se stessa, grazie alla scoperta di sé e dell’amore, Agnese trova il coraggio di difendere anche gli altri.
Come dicevamo prima, La grande guerra del Salento rappresenta il tuo esordio nel lungometraggio. Com’è stato passare dall’esperienza teatrale a quella cinematografica?
È stato stupendo, incantevole. Ho lasciato una parte del mio cuore nei luoghi del film, per diverse ragioni. Il set è stato davvero una palestra. Sono stata un mese sul set e ho compreso molti strumenti del mestiere del cinema. Un mestiere completamente diverso da quello del teatro perché richiede un’attitudine, una canalizzazione delle energie, un lavoro attoriale differente. A me è piaciuto veramente tanto, spero di poter continuare a lavorare nel cinema: è proprio magico.
Arrivavo sul set e tutti quanti erano con un’energia pazzesca, andavano a tremila per sistemare tutto quello che concerneva la scena. Vedevo persone muoversi a destra e sinistra, quello che parlava con quell’altro, mentre io, con le cuffiette alle orecchie, ero nella mia bolla di concentrazione. Poi, mi chiamavano, si andava in azione ed entravo in un mondo che non esisteva ma che eppure esisteva lì. Era tutto vero.
La magia del cinema è che veramente tutto reale quello che vivi. In teatro, si immagina, si gioca con il creare mondi immaginari, tutto può trasformarsi e diventare altro rispetto alla cosa che è in sé. Nel cinema, invece, se sono seduta al tavolo della casa di Agnese per il pranzo, quello è un tavolo veramente della Seconda guerra mondiale e la casa è veramente così come era nel ’48 e noi siamo veramente come eravamo a quel tempo.
Questo ritrovarsi in un contesto così preciso come il Dopoguerra ed entrarci, è stato veramente, veramente magico. È come se avessi vissuto davvero quel tempo: c’è una ricostruzione precisa delle scene, delle scenografie, dei costumi, del comportamento dei personaggi e del loro sistema di pensiero. Si apre una porta magica e si entra in un’altra dimensione spazio-temporale. Questo aspetto rimane comunque ineludibile e sostanziale sia del teatro che del cinema: attraverso la finzione, ricercare la verità.
Sul set c’è stata molta complicità tra gli attori giovani, esordienti o alle prime esperienze. Giulio e Agnese, nella storia, sono uniti da un rapporto di amicizia con un’altra coppia di giovani, Giovanna e Antonio. Come ti sei trovata con loro? Siete riusciti a legare anche al di là dell’esperienza lavorativa?
Si, assolutamente sì. In realtà l’esperienza di questo film è stata meravigliosa perché con tutti si è instaurata una relazione che trascendeva il set e ci ha permesso di essere coesi: e non parlo solo di Riccardo Lanzarone, Martina Difonte e Fabius De Vivo ma anche degli altri colleghi giovani, Andrea Scardigno, Valerio Tambone, Lucrezia Scamarcio e Luca Pastore con cui ho condiviso molti momenti importanti. Questo è stato fondamentale per la qualità del nostro lavoro.
Abbiamo trascorso tanto tempo insieme, soprattutto fuori dal set. Studiavamo le scene insieme, ci confrontavamo su varie visioni dei personaggi, studiavamo il salentino! C’è stato molto incontro, molta stima e voglia di lavorare insieme. Ed è stato importante nella costruzione che c’è prima di arrivare alle riprese. Mi auguro che la nostra complicità si riveli anche nel film.
La sintonia è stata fondamentale con tutti, non solo con gli attori più giovani ma anche con quelli più affermati. Da Marco Leonardi a Paolo De Vita, sono stati fondamentali. Sono per natura una persona curiosa e desiderosa di imparare. Era la mia prima esperienza, io avevo gli occhi grandi e come dice Fabrizio De André, “mi innamoravo di tutto”.
Ero una spugna: amavo andare sul set per guardare anche il lavoro che facevano gli altri colleghi, per osservare come si muovevano, per capire che cosa facessero prima di andare in scena e durante l’azione. Ho imparato davvero tanto osservando molti dei colleghi sul set, sia tra i giovani che tra i più grandi. È stato stupendo vedere poi lavorare i grandi, il loro padroneggiare il mestiere che fanno da tanto tempo e ad altissimi livelli. La conoscenza dello spazio della macchina da presa. Anche i loro silenzi e le loro pause erano meravigliosi e pieni di significato.
Ricordi ancora il primo consiglio che ti ha dato Marco Pollini, il regista, prima di cominciare le riprese?
Marco ha tenuto molto alla naturalezza, alla spontaneità della recitazione. Ci voleva naturali e credibili. È stata una delle prime cose che ha detto quando ho sostenuto uno dei primi provini a Lecce. Gli ho ispirato fiducia sin da subito. Il giorno di quel provino è stato bellissimo. Sapendo che il progetto era ambientato nel 1948, mi sono presentata con una maglia realizzata all'uncinetto da mia nonna: quando mi ha vista arrivare, Marco è rimasto con gli occhioni a cuoricino. Gli è arrivata un’immagine, un’intuizione che forse aveva del personaggio di Agnese.
In La grande guerra del Salento si parla di calcio. Qual è il tuo rapporto con questo sport?
Sono come Agnese: non c’entro proprio nulla. Non ho niente a che spartire con il calcio. È stato semplicissimo interpretare le scene in cui Agnese sta a vedere ‘sta partita e non ce la fa più. Mi è venuto fuori con estrema naturalezza!
La tua Agnese è dapprima in una relazione tossica, poi si apre e affronta un processo di formazione grazie all’incontro con Giulio. Chi è invece Rossana come donna? Saresti mai stata con Augusto?
No, non potrei mai stare con Augusto. Chi è Rossana come donna… la domanda delle domande. È veramente complicato rispondere. Ogni giorno mi sembra che sia un cominciamento, c’è sempre qualcosa da imparare e da rivedere. Ogni giorno cerco di autodeterminarmi e di crescere consapevolmente perché voglio provare a essere una donna libera. È un percorso abbastanza complicato poiché persistono determinate situazioni in cui si insinuano i meccanismi di quel “maledetto” patriarcato, che vanno assolutamente arginati.
Sei del sud e conosci bene tutte le conseguenze e gli effetti di questo patriarcato che fa fatica ad abbandonarci. È ancora così forte in Puglia l’impronta patriarcale?
Credo sempre che dipenda dalle persone che incontri. È solo una questione che io definisco di spessore psicologico ed emotivo della persona che hai davanti. Non credo che la questione sia così dissimile tra la Puglia o, che ne so, la Lombardia. È qualcosa di insito nell’educazione emotiva, sentimentale, affettiva e del percorso del singolo.
L’equità di genere è qualcosa che trascende completamente il contesto nord e sud. È una questione nazionale. Basti pensare che il settore più progressista del nostro Paese, quello dello spettacolo, che dovrebbe avere la vocazione di saper leggere il presente e di gettare il seme del cambiamento per un futuro innovativo dal punto di vista sia sociale sia culturale, non si distanzia molto dal modello maschilista.
Non abbiamo una donna a dirigere un Teatro Nazionale, le attrici vengono pagate meno degli attori, c’è una disparità di genere sui testi che sono rappresentati e scritti per una percentuale superiore da uomini. Per non parlare poi degli abusi e delle violenze di un sistema che vede la donna come “quella che se l’è cercata, che l’è convenuto o che ha avuto un tornaconto”. O degli stereotipi femminili che stentano a cadere: donna bella, madre premurosa, soddisfatta di stare a casa con i figli. Guardate quello che è successo di recente all’astronauta Samantha Cristoforetti, a cui sono state poste tutte domande inerenti al come avrà fatto a lasciare a casa i suoi bambini.
Quando hai scoperto che volevi diventare attrice? Quando è scattata in te la scintilla della recitazione?
Se proprio devo rintracciare l’origine, inconscia e naturale, di questa follia, devo risalire a quand’ero piccola. Avevo il potere di costringere tutta la mia famiglia sin dall’asilo, da quando ho iniziato a imparare le prime canzoncine o poesie, ad ascoltarmi. Salivo sulla sedia e dovevano sentirmi. La cosa peggiore era che non mi fermavo alla poesia e basta: iniziavo a improvvisare. Partivo per voli pindarici e inventavo. Non volevo che terminasse mai il momento del racconto. Sono passati un po’ di anni ma la mia famiglia ancora si ricorda i ritornelli delle canzoni e gli incipit delle poesie, devo averli proprio tutti traumatizzati!
Il dopo è stato abbastanza complicato. Ho scoperto il teatro a scuola, al primo anno di liceo, con un laboratorio. Poi, a partire dai quindici anni, ho iniziato a far parte di un’associazione culturale della mia città, Asincrono. Ho vissuto l’adolescenza chiusa in associazione, a pensare agli spettacoli, ai reading e ai progetti culturali da fare. Sono stata un’adolescente abbastanza atipica, anomala: invece di uscire a far festa con gli amici, restavo in associazione con persone molto più grandi di me. Il direttore artistico, che è ancora mio grande amico, all’epoca aveva sessant’anni ma io stavo bene con lui, mi sentivo in un luogo che per me era casa e che mi dava stimoli di crescita.
Nonostante questo, è stato difficile per me ammettere, una volta finita la scuola, di voler fare solo l’attrice. Ricordo che dissi alla mia famiglia che volevo far teatro ed entrare in Accademia ma loro mi risposero che ero molto brava a scuola dicendomi: “Ma no, ma che fai? Continua a studiare e tieni il teatro così come stai facendo ora”.
Sia chiaro: non do a nessuno la colpa di questo. La mia famiglia non mi ha supportato solo inizialmente ma in realtà è una scusa questa perché ero io che avevo paura di scegliere. Avevo tanta paura di lanciarmi nel vuoto e non avevo il coraggio di dire a me stessa che era quello che volevo fare. Ho frequentato per un anno Lingue prima di cambiare e frequentare per un altro anno Lettere. Ma si sono resa conto che non ero felice: continuavo a cercare tutto ciò che riguardava il teatro.
E a 21 anni ho lasciato Andria, la Puglia, per andare a Milano per studiare e fare teatro. Mi sono trasferita a Milano, come una matta, da sola. Ho provato a entrare alla Paolo Grassi, l’accademia in cui ho poi studiato, ma il primo anno non sono stata ammessa. Contavo molto nell’alta formazione che dà un’accademia d’arte drammatica nazionale e non ho lasciato che la bocciatura deviasse le mie convinzioni, la mia ambizione. Mi son detta: “L’anno prossimo ci devo entrare!”.
Frequentavo l’università a Bari, ho iniziato a frequentare una scuola di teatro a Milano (LAB121), lavoravo in un bar e lavoravo in un ristorante. E, in più, andavo tantissimo a teatro perché dovevo crescere, studiare e imparare. L’anno dopo, quando ho ritentato in varie accademie, sono entrata alla Grassi, l’accademia che desideravo. Ho ricevuto così il primo grande dono per tutti i sacrifici che avevo cominciato a fare. È stato l’anno zero della mia vita, praticamente.
E adesso, dopo il film, hai già dei progetti in cantiere o aspetti di vedere come vanno le cose?
Sono soprattutto impegnata nel teatro. Sto lavorando con la compagnia Animalenta a uno spettacolo su Virginia Woolf, Virginia allo specchio. Interpreto la scrittrice e debutteremo tra poco a Bari. Ho fondato con dei compagni di accademia la nostra compagnia, Ensemble Teatro, e a maggio faremo uno spettacolo in Piemonte, il monologo Venire al mondo. Spero però di tornare prestissimo a lavorare nel cinema, che questo film possa portarmi un buon vento.
Come ci si prepara a interpretare Virginia Woolf? Non è facile soprattutto dopo che Nicole Kidman ha vinto un Oscar interpretandola straordinariamente nel film The Hours. Ma anche perché Virginia Woolf è stata una donna molto tosta.
È molto difficile. In questo caso ho a che fare con un personaggio realmente esistito, una grande scrittrice. La prima cosa importante da fare per me è stata scardinare le idee preconcette che si hanno su di lei. Quando si parla di Virginia Woolf si pensa sempre alla sua follia, alla sua depressione, alle crisi di nervi, al suicidio. Io ho lavorato, invece, in direzione opposta: ho ricercato la verità della sua identità multiforme.
Noi oggi, fortunatamente, parliamo tantissimo di fluidità di genere, di fluidità delle identità. Virginia Woolf è stata l’antesignana di tutto ciò. Lei scriveva nel 1928 il romanzo Orlando in cui parlava di fluidità di genere. Orlando è ciò che lei ha sognato e ambito di essere: è un personaggio che nasce uomo e poi diventa donna, vivendo una continua oscillazione.
In Una stanza tutta per sé, Virginia Woolf arriverà a dire che “è la mente androgina la mente più creativa”, sconfinando dalla categorizzazione spicciola del maschile e del femminile. Dalla categorizzazione binaria, limitante, che non rappresenta la verità del nostro vivere quotidiano, fatto di un continuo abbraccio del nostro maschile e femminile. Le categorizzazioni nette provocano solo danni, sono loro che provocano follia e psicosi.
Chiudiamo con la più semplice delle domande: sei innamorata? Oddio… sono innamorata di questa professione, di questo mestiere. È l’amore della mia vita.