Star della provincia (Believe Digital) è il nuovo album del cantautore siciliano Sabù Alaimo. Nelle otto tracce che compongono l’album, Sabù Alaimo trae ispirazione dai luoghi e dalla straordinaria normalità dei personaggi che popolano la provincia italiana, la stessa a cui spesso le istituzioni e la politica non prestano la giusta attenzione, come ci ha ricordato nel corso di quest’intervista esclusiva.
Cantautore viscerale, Sabù Alaimo in Star della provincia ci ricorda come l’impresa eccezionale è essere normale, per citare Lucio Dalla. Sono tanti gli argomenti che affronta, dall’energia del dolore e dell’amore alla nuova vitalità che la città di Palermo sta vivendo. Dai suoni che mischiano rock, folk e tradizione cantautorale, Star della provincia di Sabù Alaimo è come un viaggio in macchina: attraverso i finestrini, osservi un mondo in cui tutti a loro modo sono delle star, anche chi prendendo la strada sbagliata ha capito qual era la via giusta.
Autore dei testi e delle musiche di Star della provincia, Sabù Alaimo è sulle scene da quando adolescente ha cominciato a far musica per caso. Ma qualcosa in lui non è mai cambiata: l’energia di quando aveva diciotto anni.
Intervista esclusiva a Sabù Alaimo
Da cosa nasce il titolo del tuo album, Star della provincia?
Ho una passione per i posti marginali. Mi trovo molto spesso a girare per la provincia e a scoprire dei luoghi in cui non sono mai stato. Mi affascinano la loro presunta marginalità e questo ha fatto sì che mi ritrovassi a scrivere dei testi relativi alle mie “avventure” di provincia.
L’album è composto da otto tracce, tutte legate l’una all’altra. Nella prima, che ha lo stesso titolo del disco, dici che ti è tornata la voglia di sognare. Perché ti era passata?
Essere dei sognatori comporta anche che a volte si smetta di sognare. È qualcosa che sta nel pacchetto che compri. Chi è un sognatore, conosce gli alti e bassi.
E quali erano i tuoi bassi?
I miei bassi erano proprio i sogni che avevo messo da parte: non per forza legati ai successi lavorativi ma anche alla vita quotidiana e a tutto ciò che concerne il corso naturale dell’esistenza…
La musica ti ha dato più gioie o delusioni?
Potrò dirlo tra qualche anno. Nel mio caso posso dire che vale comunque la pena far musica perché per me è talmente naturale da non poterne fare a meno. Nemmeno mi pongo la domanda.
Quanti anni avevi quando hai cominciato a suonare?
Ho iniziato intorno ai 16 o 17 anni ma per caso. Nella mia famiglia non ci sono mai stati musicisti e non avevo nessuno strumento in casa: la musica passava semplicemente per radio o in tv. Un mio amico all’epoca aveva messo in piedi una band e mi coinvolse come cantante. Ma quella che all’inizio era un’insignificante esperienza ha fatto scattare qualcosa dentro me: ho cominciato così ad approfondire gli studi musicali e poi a scrivere le mie prime canzoni.
È stato facile coltivare il tuo sogno in un contesto così piccolo come il paese di cui sei originario, Villabate?
Per fortuna non sono mai stato fermo, anche a livello geografico. Negli anni ho viaggiato molto e forse proprio per questa ragione quest’album rappresenta per me un giro di boa, un partire e tornare per poi ripartire. In fondo, mi piacciono le cose semplici e, quando scrivo, mi rifugio nella semplicità. In generale, però, posso dire che è sicuramente difficile fare musica in Italia: c’è ancora quella tendenza a non considerarla un lavoro vero e proprio. Non è facile far capire alle persone che suonare è il tuo mestiere e non un hobby. Chi fa il mio lavoro, invece, lavora veramente tanto, soprattutto quando si ha a che fare con piccole etichette e si è costretti a far tutto da soli, senza possibilità di delegare compiti.
A proposito di difficoltà, quanto è stato difficile proporre un concept album in un mercato in cui oggi sembrano funzionare solo i singoli?
In tutta onestà, non faccio parte della categoria di quelli che si lamentano troppo di determinati aspetti. Cerco nel mio piccolo di creare un po’ di bellezza: se il lavoro viene premiato, bene. Altrimenti penso a quello che viene dopo, al prossimo album, ai live e alle cose che devo fare. Ho imparato con gli anni ad avere un atteggiamento non vittimistico ma più operativo, come direbbero in una caserma.
Quella della caserma è una metafora che torna anche nella canzone Star della provincia, dove canti che vorresti essere un militare negli anni Ottanta dentro a un cinema porno.
Più che una metafora,con questa frase ,volevo esprimere un vuoto interiore, il verso completo recita così : “e vorrei essere un militare negli anni ottanta dentro un cinema porno , per non pensare a tutta quanta la mia vita e a come sono inconcludente.” Volevo dire, a mio modo, che a volte mi sento inconcludente, non so perché mi è scattata in testa l’immagine del cinema porno, nell’aldilà lo chiederò a Freud.
Nella stessa canzone, sottolinei come i momenti brutti siano quelli che insegnano a vivere la vita, che è poi anche il tema di un altro brano, se vogliamo, Cattiva strada. Hai mai avuto la tentazione della cattiva strada?
Sicuramente la musica mi ha tenuto lontano da contesti non sani che c’erano a Palermo negli anni Novanta. Tanti giovani, purtroppo, si sono persi proprio nella cattiva strada, mi riferisco alla droga e non solo.
In Sconosciuti, ci si sofferma invece sulla comprensione di se stessi. Quando hai capito chi eri?
Penso di aver capito tanto di me, ma non si finisce mai di capire se stessi fino all’ultimo respiro. Ho scoperto chi sono i
miei mostri interiori e cerco di farmeli amici, lottare con se stessi è veramente pesante: occorre semplicemente accettarsi e dialogare con i propri lati più oscuri, tentando di trovare un compromesso. La cosa incredibile è che la gente crede di sapere chi sei, mentre le sfugge la comprensione reale di se stessa.
I mostri di oggi non sono sicuramente quelli che avevi a diciotto anni, età che è anche il titolo di un’altra canzone dell'album?
Credo che i mostri siano gli stessi, ma adesso sono diventati buoni conoscenti, quindi cerco di esorcizzarli con il dialogo. Insomma un po' tutti quanti abbiamo le nostre paure e traumi con cui dobbiamo fare i conti. Ma in quella canzone, più che altro, ho cercato di descrivere lo stato d’animo della mia adolescenza, caratterizzata da un’energia pazzesca e anche da una profonda inquietudine, due forze contrastanti ma che ti fanno sentire estremamente vivo. Ancora oggi ascolto i Sex Pistols (band che adoravo da adolescente), ciò mi permette di sentire “l’odore” dei miei diciott’anni, per me è una bellissima sensazione. L’entusiasmo dei diciotto anni è qualcosa che non bisognerebbe mai dimenticare: portarselo dentro aiuta a far bene nella vita.
Un’energia, permettimi il ricordo, che a diciotto anni ti ha portato anche ad abbassare i pantaloni durante un concerto, decenni prima che lo facessero oggi i Maneskin.
Era ovviamente una provocazione. Ho sempre avuto un atteggiamento un po’ rock nelle mie canzoni, che ormai possiamo definire cantautoriali. E il rock è provocazione. Rifarei quel gesto altre volte se ci ripresentassero l’occasione e la canzone giusta.
Ricordi ancora per cosa lo hai fatto?
Si. All’epoca si parlava tanto di audience. Erano i primi anni Duemila, era appena partito il Grande fratello e in tv spopolavano diverse trasmissioni spazzatura. Si cominciava a parlare di declino culturale e avevo scritto un brano che si intitolava proprio Audience.
Qual è la Palermo che ti piace, per citare un altro titolo di Star della provincia?
Della Palermo che mi piace c’è attualmente qualcosa. È la Palermo viva dei locali, dei turisti e degli studenti universitari che contribuiscono a rendere la città più bella. Quello che invece non mi piace di Palermo è l’atteggiamento di menefreghismo che si ha nei confronti della città stessa. Non mi piacciono la spazzatura che riempie le strade della città, l’immobilismo della politica e la persistenza della mafia.
A proposito di quest’ultimo aspetto che non ti piace, tu hai anche girato un videoclip allo Sperone, da sempre considerato uno dei quartieri difficili della città. che esperienza è stata?
Innanzitutto, ho girato in quel quartiere perché volevo abbattere lo stereotipo per cui è popolato solo da delinquenti. E ho avuto ragione nel volerlo fare: nonostante il luogo sia lasciato nel degrado più totale da parte delle istituzioni, ho conosciuto ragazzi e persone che mi hanno sorpreso. Sicuramente, c’è delinquenza nel quartiere ma come ce n’è da altre parti e in tante altre città d’Italia. Ma ci sono anche tanti giovani che hanno voglia di far qualcosa: bisogna dare delle passioni a questi ragazzi!
Le istituzioni non devono lasciare questi quartieri allo sbando: dovrebbero attenzionarli maggiormente perché con la loro assenza non fanno altro che giustificare la delinquenza. Servono strutture e infrastrutture per far capire che lo Stato c’è. Un campo di calcetto, ad esempio, può far sì che i giovani dedichino lì tutte le loro energie piuttosto che cercare altre strade.