Saint Omer è il nuovo film di Alice Diop, regista francese al suo primo lungometraggio di finzione. Presentato in concorso al Festival di Venezia 2022, arriverà nelle nostre sale grazie alla distribuzione di Minerva Pictures e si candida al Leone d’Oro per la tematica trattata: il figlicidio.
Saint Omer ci porta all’interno del tribunale di Saint-Omer. Qui, la scrittrice trentenne Rama assiste al processo di Laurence Coly, una giovane donna accusata di aver ucciso la figlia di 15 mesi dopo averla abbandonata sulla riva di una spiaggia del nord della Francia. Rama intende trarre dal caso una rivisitazione contemporanea del mito di Medea. Ma mentre il processo va avanti, nulla procede come previsto e la scrittrice, incinta di quattro mesi, si ritroverà a mettere in discussione ogni certezza sulla propria maternità.
Nel suo film Saint Omer, Alice Diop affronta l’inimmaginabile, ponendoci il più vicino possibile all’imputata per esaminare il mistero delle sue azioni con grande sensibilità e intelligenza. Nel cast, troviamo le attrici Kayije Kagame e Guslagie Malanga nei ruoli principali.
“Nel giugno del 2016 ho assistito al processo di una donna che aveva ucciso la figlioletta, abbandonandola su una spiaggia in Francia con l’alta marea”, ha commentato la regista. “Ho pensato che la donna avesse voluto offrire la figlia al ‘mare’, una ‘madre’ ben più̀ potente di quanto non potesse esserlo lei stessa. Ispirata da una storia vera e spinta da un’immaginazione intrisa di figure mitologiche, ho scritto questo film su una giovane scrittrice che assiste al processo di una madre infanticida, con lo scopo di scrivere una rivisitazione contemporanea del mito di Medea. Ma nulla procederà̀ come aveva previsto: l’impenetrabilità̀ dell’accusata porterà̀ la giovane donna a riflettere sulla sua stessa ambiguità̀ nei confronti della maternità̀. Ho voluto girare questo film per sondare l’indicibile mistero di essere madre”.
La vera storia di una madre che ha ucciso sua figlia
Come tutti i precedenti film di Alice Diop, anche Saint Omer è nato nella mente della regista da un’intuizione che, crescendo pian piano, si è trasformata in un’ossessione. “Non devo mai dire a me stessa quanto interessante sia un argomento”, ha scherzato Diop. “Per Saint Omer l’ossessione nasce da una fotografia pubblicata su Le Monde nel 2015. È un’immagine in bianco e nero, scattata da una telecamera di sorveglianza. Ritrae una donna di colore, in una stazione parigina (la Gare du Nord), che spinge una carrozzina con una bambina di razza mista. Guardando lo scatto, ho subito pensato che la donna fosse senegalese”.
Due giorni prima dello scatto della foto, il corpo di una neonata era stata trovata a Berck-sur-Mer, spinto dalle onde, alle sei del mattino. “Nessuno sapeva chi fosse quella bambina. Giornalisti e autorità credevano che ci fosse stato al largo qualche naufragio di migranti. Gli investigatori hanno poi trovato un passeggino abbandonato in un boschetto nelle vicinanze. Studiando i filmati delle telecamere hanno rintracciato la donna”, ha continuato la regista. “Ho continuato a guardare la foto. Sapevo che era senegalese, che avevamo la stessa età e che in qualche modo la conoscevo perché mi riconoscevo in lei. Ed è così che è iniziata la mia ossessione per questa storia”.
Il processo
Pur non parlandone con nessuno, Diop ha cominciato a seguire le indagini che avrebbero portato alla costruzione del suo primo film narrativo, Saint Omer. “Tutti i notiziari e i giornali ne parlavano. E presto si è scoperto che la donna era davvero senegalese, Fabienne Kabou, e che aveva ucciso la sua bambina lasciandola in balia dell’alta marea. Ha dopo confessato. E già dalle parole del suo avvocato emergeva che l’omicidio poteva essere stato commesso come un atto di stregoneria. Sebbene stesse seguendo un dottorato e avesse un quoziente intellettivo di 150, la donna aveva tirato in ballo le sue zie in Senegal, autrici secondo lei di un sortilegio, un incantesimo, nei suoi confronti. Mi si è raggelato il sangue: qualcosa non mi tornava. Si è scatenato un putiferio mediatico con tesi e congetture a non finire”.
Il processo nei confronti di Fabienne Kabou è cominciato nel 2016. E senza dire niente a nessuno Alice Diop ha deciso di andare a seguire il processo in tribunale. “Non so spiegare perché è nato in me il desiderio di seguire il processo contro una madre che aveva ucciso la figlioletta di 15 mesi. Io stessa sono madre ma come ho spiegato anche ai miei produttori era come se volessi in qualche modo ritrovare me stessa”, ha confessato la regista.
“Sono partita alla volta di Saint Omer, una cittadina del nord dove ancora campeggiavano i manifesti elettorali con la faccia di Marine Le Pen. Scesa dal treno, ho camminato fino al mio albergo e sentivo addosso lo sguardo delle persone: per loro, bianchi, la mia immagine era inusuale. Una donna nera, vestita come una parigina e che trascina una valigia firmata non è qualcosa che si vede spesso da quelle parti”, ha tristemente notato.
Il pianto di una madre
La storia di Saint Omer comincia a trasformarsi in idea per un film nella mente di Diop in un momento particolarmente delicato del processo. “Eravamo all’ultimo giorno. Per la prima volta, si nominava il nome della bambina, di cui veniva registrata ufficialmente anche la data di nascita e di morte. Fabienne Kabou stava testimoniando e, spinta dalle domande, ha parlato dei suoi sogni, del suo vissuto e della sua bambina prima di scoppiare a piangere a dirotto. Come tutta l’aula”.
“In particolare, mi colpì una giornalista, incinta di sei mesi. Era accanto a me e anche lei piangeva, come tutti noi. Ecco, lì è nato in me il desiderio di fare un film sulla vicenda, vedendolo come un atto di giustizia nei confronti delle bambine che siamo state e di ciò che hanno vissuto le nostre madri. E sarei partita proprio dal confronto delle lacrime di due donne diverse, una nera e una bianca, che piangono per qualcosa di diverso ma anche per qualcosa in comune. Il mio film avrebbe reso omaggio a tutte le donne, bianche o nere, che vivono nell’invisibilità. Ma avrebbe parlato anche di immigrazione e delle questioni con cui tutte le donne si confrontano nel diventare madri”.