Salvatore Izzo di lavoro fa l’interior designer e la sua specializzazione sono le case in stile americano, una passione che comincia a maturare presto guardando le serie tv o i film alla televisione. Affascinato da come gli ambienti made in USA avevano una funzionalità diversa dai nostri, con il tempo è riuscito a trasformare una passione che in pochi capivano e comprendevano in un lavoro.
Un lavoro che Salvatore Izzo, per tante e svariate ragioni, non riesce a scindere dalla sua vita privata, come dimostrano anche gli scatti sui social network, dove ormai conta centinaia di migliaia di followers. Followers che non sono solo clienti ma anche amici con cui Salvatore Izzo ama relazionarsi quotidianamente e non solo per strategie di mero marketing o politiche social.
La storia di Salvatore Izzo è, comunque, una storia di riscatto non solo personale. Il suo successo appartiene anche all’intera comunità lgbtqia+, a cui appartiene (“sono un omosessuale vecchio stile: non mi soffermo sulla forma ma sulla sostanza”, mi dice quando gli chiedo, come sono solito fare, che pronome vuole che si usi nei suoi confronti). E le ragioni ce le spiega lui stesso: secondo il suo insegnante d’italiano, un gay avrebbe potuto fare soltanto il parrucchiere, denigrando in una sola frase una professione degna di rispetto e un’intera community, oltre che le donne stesse (“sono un figlio di Michela Murgia: femminista da sempre”).
Di stereotipi e cliché, Salvatore Izzo ha dovuto combatterne molti. Ma sempre alzando la testa e mai abbassando lo sguardo, merito di una famiglia che lo ha cresciuto in nome dell’eguaglianza quando ancora questa non era una parola di moda.
Intervista esclusiva a Salvatore Izzo
“Sono di Castellammare di Stabia, un comune vicino a Torre del Greco. Ma mi sono ormai trapiantato a Torre del Greco perché il mio compagno viveva qui”, mi risponde Salvatore Izzo quando gli chiedo com’è stato crescere nel napoletano. “Ma non è stato assolutamente facile vivere in un piccolo comune della provincia di Napoli, innanzitutto per il contesto culturale: quando io ero adolescente, non era così morbido come lo è adesso. I social hanno anche aiutato a sdogare certi temi ma all’epoca ancora non c’erano”.
“Ma non è stato semplice nemmeno dal punto di vista lavorativo: offrivo qualcosa per cui non c’era ancora una richiesta. Fortunatamente, ho sempre viaggiato con la mente e ho avuto tanti stimoli pur vivendo in una provincia molto piccola che cerca di mortificare questi stessi stimoli. In provincia, si crea una sorta di routine: le persone sono sempre le stese, gli eventi pochi e le aspettative non corrisposte. Ho dovuto quindi adattarmi al contesto ma non sono mai andato via per il forte legame con la mia famiglia, più importante di qualsiasi altra cosa”.
Sei un interior designer oggi particolarmente noto. La tua specialità è l’arredo in stile americano. Cosa vuol dire innanzitutto stile americano?
Partiamo dalla base. Lo stile americano ha dei must have che sono irrinunciabili: spazi molto grandi o anche molto piccoli ma gestiti in un determinato modo. Come dico sempre, lo stile americano non riguarda solo la disposizione dei mobili o la scelta dei rivestimenti ma anche e soprattutto lo stile di vita. La cabina armadio, la cucina con l’isola o le pareti bianche con il parquet sono alcuni degli elementi che trasformano lo stile di arredo in stile di vita: certe soluzioni si vedono anche in Italia da diversi anni ma nelle case americane erano già presenti almeno 50 anni fa.
Quando ho cominciato ad approcciarmi a questo nuovo modo di intendere la casa, ho avuto come riferimento solo quello che si vedeva nelle serie tv o nei film scoprendo come il punto cardine era la comodità. Al di là di tutto ciò che vediamo nello stile americano, l’esigenza principale è quella di avere spazi comodi e vivibili perché si vive molto la casa: si cena tutti insieme, si invitano gli amici, si organizzano feste…
Non è un caso che nelle serie tv o nei film americani siano quasi sempre tutti riuniti intorno alla cucina, spazio in cui avviene di tutto.
È una corretta affermazione e lo confermano i miei tanti amici che vivono negli Stati Uniti e che sono americani d’origine. Per loro la cucina e la zona living in generale sono il cuore pulsante dell’abitazione: la camera da letto è semplicemente la zona dove vanno a dormire. Tutto il movimento e il circolo di energia che si muove per casa avvengono nella parte inferiore della casa (solitamente, le abitazioni sono a più piani), deputata ai momenti conviviali.
Dalle serie tv avrai avuto modo di vedere come si è evoluto negli anni lo stile americano…
Sono da sempre un divoratore di serie tv, soprattutto statunitensi. A mio avviso, prestano particolare attenzione alle scenografie e alle location. E sin da piccolo mi soffermavo, al di là della storia e dei personaggi, a scrutare dove tutto si svolgeva. Sono state proprio le serie tv il catalizzatore del mio lavoro: mi hanno permesso di capire che mi piaceva quello stile che ancora nel nostro Paese non aveva preso piede… era arrivato il momento che qualcuno cominciasse a parlarne. E, quindi, l’ho fatto e con grande difficoltà: non era semplice trovare gli arredi, i fornitori predisposti ad ascoltarmi o i clienti, ma sono riuscito nel mio intento, cosa di cui vado molto fiero.
Da figlio degli anni Novanta, non posso non ricordare ad esempio la fascinazione per Streghe e la grande casa vittoriana in cui vivevano le sorelle Halliwell. In uno dei miei viaggi, ho voluto persino visitarla: la proprietaria è stata anche molto carina nel farmi entrare ma, una volta all’interno, ho scoperto che la casa non ero proprio uguale a come la vedevamo in tv… o, meglio, veniva usata solo per gli esterni mentre gli interni erano girati altrove. Ma, superata la destabilizzazione iniziale, è stata una bellissima esperienza. Oggi può sembrar strano parlare di fascinazione da parte della tv ma sono cresciuto in un momento in cui internet non era ancora ciò che usiamo noi tutti oggi e le riviste di arredamento in edicola erano meno che poche.
Con la tua attività di interior designer cerchi di andare incontro alle richieste dei clienti. Ma sono tutti consapevoli di cosa vuol dire stile americano o devi far capire loro in cosa consiste realmente?
All’inizio del mio percorso professionale, è stato complicato. Consideriamo per esempio il modo di disporre i mobili e gli elettrodomestici in cucina prendendo in esame la lavastoviglie. Da noi, siamo abituati a vederla come modulo a sé stante, posizionato spesso e volentieri accanto al lavello. Negli Stati Uniti, invece, viene posta accanto al cassetto dei piatti e dei bicchieri proprio per quella comodità di cui si parlava prima. Quando ho cominciato a proporre questa soluzione, i clienti erano in un primo momento “sconvolti” ma, con il passare degli anni e l’avvento anche dei social, ho cominciato in un certo senso a mettere in atto un processo di formazione (anche con le piccole pillole di stile che mi segue vede) che ha dato i suoi frutti. Oggi chi si rivolge a me ha un’idea molto più chiara di cosa si intenda per stile americano.
A proposito di clienti, mi ha colpito la possibilità di consulenza che offri tramite videochiamata. Come nasce l’idea?
È figlia della pandemia, quando tutti eravamo per ovvie ragioni chiusi in casa. Improvvisamente, per ognuno di noi la casa non era più il luogo in cui rientrare dopo aver trascorso un’intera giornata fuori, al lavoro. Era diventata il posto in cui trascorrevamo tutte le nostre ore e le nuove esigenze, anche lavorative, sottolineavano come mancava di alcune comodità. Avevo già in passato fatto consulenze via email ma un conto è progettare qualcosa dal nulla e un altro intervenire là dove esistono già soluzioni e occorrono accorgimenti.
La consulenza in videochiamata nasce, quindi, dall’esigenza di creare un link tra me, l’immobile e il cliente. E si svolge in due momenti diversi: una prima call in cui il cliente mi spiega le sue esigenze e gli obiettivi che si è prefissato mostrandomi gli ambienti e una seconda call in cui, dopo aver sviluppato il progetto, glielo mostro.
Nata per un’esigenza temporanea, la videocall è oggi diventata per me una formula in più da offrire a chi richiede i miei servizi. E mi permette di lavorare anche a grandi progetti: ho ristrutturato ad esempio un intero appartamento a Milano, a City Life, per una cliente anche molto facoltosa senza esserci mai incontrati dal vivo. È diventata un modo per raggiungere chiunque pur rimanendo nel proprio ufficio: è una formula che piace molto e abbatte anche i costi, creando nuove connessioni che vanno al di là del circondario in cui sei abituato a muoverti.
Quanta creatività serve, a livello professionale e personale, per chi fa il tuo lavoro?
Non faccio distinzione tra il personale e il lavorativo: per me, è come se fossero un tutt’uno. Quando vado ad esempio a cena fuori in un ristorante perché magari ho voglia di vivere un momento romantico con il mio compagno, se qualcosa mi ispira o cattura la mia attenzione metto subito in moto la mia creatività… La creatività è stata la locomotiva che mi ha spinto a resistere. La capacità di vedere oltre quello che il mondo aveva da offrirmi è stata sempre un mio grande punto di forza: se non mi sono arreso davanti alle difficoltà, è stato proprio grazie alla mia fantasia.
Creatività e serie tv ma immagino ci sia dietro anche tanta formazione.
Ho conseguito un master negli Stati Uniti. Il mio compagno ha vissuto a Miami per due anni, periodo nel quale è riuscito a costruirsi una bellissima rete sociale che per me è stata fondamentale. Studiare lì è stato un sogno che, per uno che da sempre ama le case in stile americano, ha preso forma e si è concretizzato.
Tu e il tuo compagno, Luigi, state insieme da molto tempo. E condividete la vostra vita anche sui social. Il coming out ha influito sulla tua sfera professionale?
Ci siamo conosciuti il 7/7/2007, una data importante per la cabala… se il coming out ha influito? Dopo 5 anni di psicoterapia, rispondo alla domanda con una consapevolezza nuova rispetto al Salvatore di 16 anni fa. di pregiudizio ce n’è stato molto: frasi spezzate e sorrisetti nascondevano ben altro. Chi è abituato a sentirsi giudicato, sviluppa come una sorta di terz’occhio che permette di capire laddove c’è voglia di scherzare insieme o laddove invece c’è voglia di ergersi a giudici. Quindi, il pregiudizio ha inciso molto ma in fin dei conti ci ha fortificati sia come coppia sia come professionisti.
Oggi è diverso rispetto a 16 anni fa quando venivo giudicato non solo per il mio orientamento sessuale ma anche per la mia giovane età: sono sempre in tanti pronti a sfruttare un giovane lavoratore… ho lavorato anche per 50 euro con la speranza che poi diventassero 500 o 5000 ma lo facevo perché dentro di me c’era la volontà di avere un giorno un riscatto non solo personale ma anche per tutta la comunità lgbtqia+, dimostrando che non esistono lavori che non possiamo fare o posizioni che non possiamo raggiungere.
Quando frequentavo il liceo, un professore d’italiano con una forte connotazione religiosa, avendo intuito la mia omosessualità, disse (senza far riferimento a me personalmente) durante una lezione (parlandone a tutti ma guardando me) che gli omosessuali nella vita avrebbero potuto solo fare i “parrucchieri”. Premesso che fare il parrucchiere è uno dei lavori più belli che ci siano perché permette di mettere in atto la propria creatività e di stare al passo con l’evoluzione della moda e delle tendenze, perché voler incasellare l’omosessuale in un cliché che non ha ragione di esistere?
Quelle sue parole, le prime di una lunga serie che ho sentito negli anni, mi hanno spinto a voler andare oltre e rompere quei margini di ignoranza costruendomi una carriera che aderiva perfettamente al mio modo di essere e alla mia visione del lavoro e non a quelli degli altri. Il passato e il contesto in cui mi sono mosso mi hanno dato la spinta per non stagnarmi: non volevo un lavoro e basta, volevo il mio riscatto.
A livello personale, com’è stato vivere da adolescente la tua omosessualità, manifesta o meno? Ti ha creato problemi con i coetanei quando andavi a scuola?
Fortunatamente, non sono mai stato vittima di bullismo. Ho visto però miei amici esserlo: è stata un’esperienza molto forte assistervi e prendere le loro difese. Ma è stata anche un’esperienza che mi ha fortificato e reso una persona molto più sicura. Forse è stato il mio non mostrarmi insicuro che mi ha salvato.
Devo la mia sicurezza a una famiglia che mi ha sostenuto in tutto e che ha sempre accettato chi fossi. Non ho mai abbassato lo sguardo di fronte a un insulto e ho sempre risposto: una caratteristica che ho ereditato da mia madre e che tanti problemi mi ha causato. Se non stai zitto e parli, ti scontri con l’omofobia, l’ignoranza e il pregiudizio, ma non temi lo scontro: la paura non ha mai fatto parte di nessun ambito della mia vita.
E non hai avuto paura di accettare te stesso quando hai realizzato di essere omosessuale?
Ho un ricordo molto lucido legato alla mia adolescenza. Ricordo che provavo una certa attrazione verso personaggi televisivi, anche dei cartoni animati, maschili. Ma la vivevo con normalità proprio perché nella mia famiglia non ha mai albergato il pregiudizio. Sono cresciuto in un ambiente in cui si parlava tranquillamente di sesso, di droga, di prostituzioni e di aborto, senza mai demonizzare nulla. Spesso si parla di famiglia del Mulino Bianco, la mia lo è stata: l’amore ha sempre fatto da matrice principale. E quando si cresce in un ambiente sano, al cui centro vi sono comprensione, accettazione e amore, non puoi che essere un essere umano sicuro di te perché ti senti capito dalle persone a cui tieni. Non presto tempo e attenzione alle parole di chi per me conta meno di zero.
Che ne pensano oggi i tuoi genitori del tuo percorso?
Sono felicissimi. Mi hanno avuto quando erano ancora giovanissimi, poco più che ventenni. Ma giovanissimi lo sono rimasti nell’animo anche a distanza di tempo: sono attenti ai cambiamenti e, soprattutto mia madre, si evolvono stando al passo con i tempi. Sono fieri del loro Salvatore, come lo sono mia sorella e mio fratello.
Così come saranno fieri dei consigli che, gratuitamente, dispensi anche dalle pagine del tuo sito internet.
Siamo abituati a un mondo in cui necessariamente occorre pagare per avere qualcosa. È una formula che non mi è mai piaciuta: a me piace pensare anche a tutte quelle persone che vorrebbero ma non possono. Una delle filosofie che sta dietro al mio lavoro è quella per cui non serve avere un grande budget per avere una bella casa… serve semmai il gusto di saper scegliere tra tante cose che hanno del potenziale. I miei suggerimenti possono essere di varia natura, a volte anche tecnici, ma dietro ci sta la consapevolezza che chi visita il sito internet non è un numero: ci sono persone con le loro storie, il loro vissuto e la loro volontà. Creare uno stretto legame con la mia community è un modo per restituire loro l’energia che negli anni mi hanno trasmesso: non è strategia di marketing, come si potrebbe pensare, ma voglia di condivisione.