Samia si presenta al pubblico con il suo primo EP, Cadiamo a pezzi (Leave Music / Ada Music Italy), disponibile dal 20 gennaio e realizzato con il sostegno di Italia Music Lab. Talento urban, Samia ha già avuto modo di far apprezzare la sua voce con un vinile pubblicato a ottobre 2021 (contenente due canzoni) e la partecipazione alla finale di Sanremo Giovani 2021 con Fammi respirare.
Cantautrice romana di origini somale e yemenite, Samia si definisce una variabile in continua evoluzione. E, leggendo quest’intervista in esclusiva, non è difficile capire perché. Di vite Samia sembra averne vissute tante e sempre a testa alta, motivo per cui nelle sei tracce di Cadiamo a pezzi, prodotte da Francesco Cataldo, non teme di affrontare temi importanti e delicati come la salute mentale, la consapevolezza della propria fragilità come essere umano, il desiderio di rivalsa e il rapporto conflittuale con se stessi e con gli altri.
E per farlo Samia sceglie testi intimi e crudi in cui la sua voce calda, sfacciata e graffiante, si fonde con l’electro pop soul e beat trascinanti. Cadiamo a pezzi è anche il titolo del singolo con cui Samia lancia l’ep, un brano che parla di sesso e di un equilibrio ritrovato tra due persone che riescono a tirar fuori la propria natura, cadendo a pezzi per poi ricomporsi in un tutt’uno. “Forse in questo brano ho cercato di trovare dei colori diversi a quelli soliti a cui viene attribuito il sesso”, ha dichiarato Samia. “Delle tonalità forse un po’ più scure ma allo stesso tempo profonde, piene e belle come il sesso sa essere”.
Tuttavia, è ascoltando canzoni come Pazza lunatica e Mama che si può davvero entrare nell’intimo di Samia. Un intimo che ha molto da raccontare a chi ha voglia di ascoltare.
Intervista esclusiva a Samia
“Sono appena tornata dalla Puglia. Ci sono stata quindici giorni durante le feste e ho mangiato benissimo. Credo di aver preso 5 kg… ma anche a Roma si mangia bene!”. Comincia così la nostra intervista a Samia, un’intervista in cui la musica e la vita della cantautrice si intrecciano e lasciano trasparire la forza di una giovane donna a tratti esplosiva e a tratti vulnerabile.
Sei cresciuta a Roma?
Sono cresciuta in provincia, a Guidonia.
Le tue origini non sono chiaramente italiane.
Sono l’unica ragazza nera della mia famiglia: le mie origini sono qualcosa con cui ho fatto i conti più avanti nella mia vita. Da bambina non dico che credevo di essere bianca ma ho vissuto una situazione da privilegiata rispetto a quella che vivono tantissime altre persone in un contesto occidentale in cui, anche per ignoranza, educazione o conoscenza, vengono messe ai margini. Ne parlavo di recente con una mia amica: sono privilegiata perché sono subito diventata cittadina italiana per adozione: ci sono ragazz* e persone adulte che non saranno mai riconosciuti come tali nonostante in Italia si sentano a casa. Da ragazzina, quando sentivo parlare di attivismo, non riuscivo nemmeno a capire cosa fosse.
Da donna nera, musicista e bisessuale, ho vissuto anch’io nel mio piccolo le mie battaglie. I miei genitori ad esempio non capivano la verità in un primo momento, adesso invece capiscono un po’ più di cose: sono una capa tosta! Oggi mi sento una cittadina del mondo ed è così che voglio sentirmi per sempre. Sono romana, sono italiana ma con origini somale e yemenite: dentro di me c’è qualcosa, magari di genetico, di diverso che voglio conservare sempre.
E, comunque, non è che quando al mattino ti alzi e ti guardi allo specchio ti dici “allora è vero: sono nera”, sono semmai gli altri che te lo fanno notare.
Sui social, ti definisci “una continua variabile in movimento”, che costruisce e demolisce, che si frantuma per poi ripararsi.
Franco Basaglia diceva che “visto da vicino nessuno è normale”. La normalità di fatto non esiste ed io sono una cangiante variabile in continua evoluzione. Del resto, il tempo sta correndo sempre più velocemente e non riusciamo nemmeno a stargli dietro: facciamo tante di quelle cose inutili che quasi ci bloccano nell’evoluzione. La verità è che io sono un casino! Mi costruisco e mi demolisco ma non punto alla normalizzazione, termine che personalmente non sopporto. Usiamo solo il 10% del nostro cervello: prima di comprendere la realtà o di capire chi siamo ci mettiamo una vita intera. Forse neanche a novant’anni sapremo mai chi saremo: è una continua scoperta.
Il 20 gennaio esce il tuo primo EP, Cadiamo a pezzi, composto da sei tracce. Avevi già alle spalle un vinile con due pezzi e un singolo, Fammi respirare, presentato a Sanremo Giovani. Ma l’EP rappresenta il tuo modo musicale di presentarti al mondo. Cosa rappresenta per te?
Sin dalla copertina, realizzata da Ludovico Pascoli e Giovanni Lo Castro, è chiaro l’intento del mio lavoro: offro diversi spaccati di me che invitano a far cadere anche le barriere per scoprirci realmente. Sono felice dell’uscita dell’EP sia perché è il frutto di grande impegno e lavoro (non solo mio ma di tutti quelli che hanno preso parte al progetto) sia per i temi che vengono trattati nelle canzoni: la salute mentale, il sesso, la felicità, la consapevolezza delle proprie fragilità, il desiderio di rivalsa…
Ci sono dei pezzi a cui sono particolarmente legata, come Mama (è un pezzo di carne!) o Non mi piace, la prima canzone che ho scritto. Ma in generale sono soddisfatta di tutte le tracce: l’ep è molto cangiante, in questo mi rispecchia, a livello di atmosfere e sonorità.
In Non mi piace, dici “cado e mi rialzo, il pavimento fa male”. Mi fai un esempio delle volte in cui sei caduta?
Ne potrei fare tantissimi. Non ho nessuna vergogna a dirlo ma sono una persona che cade molte volte. Come quando mi chiudo in camera e considero tutto abbastanza buio. Sono momenti in cui mi blocco e sento tutta la pressione intorno. In quei casi la mia strategia è quelle di alzarmi e provare ad andare avanti, andando in terapia. Si può cadere molto più facilmente di quanto ci si può rialzare ma una volta che ti rialzi hai una marcia in più.
Anche perché la parola crisi etimologicamente vuol dire cambiamento. Quindi, la crisi non è mai un problema: è questo che dobbiamo imparare. La crisi porta semmai a un cambiamento, a un voler prendere in mano il proprio destino in maniera diversa.
È importante ammettere i propri disagi: fino a qualche tempo fare parlare pubblicamente di depressione era impensabile.
Quando ho detto a mio padre, che ha compiuto 70 anni lo scorso dicembre, che volevo andare in terapia, non capiva la mia esigenza, “ma che sei matta?”. Fortunatamente, negli ultimi tempi qualcosa sta cambiando. C’è maggiore apertura sulla salute mentale e si affrontano apertamente diverse questioni, come ad esempio i disturbi del comportamento alimentare. Una persona a cui sono molto legata ad esempio ne ha sofferto ma non sempre si comprende il problema, anche perché presenta diverse sfumature in chiunque ne soffra. Non dico che sia necessariamente un problema di età o di generazioni differenti ma semplicemente di interesse e voglia di capire.
Prima dicevi che sei l’unica persona nera in famiglia. Ha mai creato problemi la diversità di colore?
Ricordo un episodio in particolare. Una sera stavamo tornando in macchina dall’Abruzzo con mio padre. Ci hanno fermato i carabinieri. Avevo all’incirca 16 o 17 anni. Ci hanno chiesto cosa facessimo: credevano che fossi una prostituta. In quel momento mi sono sentita come bloccata e inerme. Abbiamo dovuto tirare fuori i documenti per mostrare che eravamo padre e figlia. Ecco, quella è stata una delle occasioni in cui ho pensato “se succede a me da privilegiata, pensa agli altri, alle persone che non hanno nemmeno la cittadinanza italiana”.
Un tema quello della discriminazione che torna anche in Mama, se vogliamo. Scrivi e canti, “ci legano le mani”.
Mia madre è arrivata in Italia a 25, 26 anni. Proveniva da un altro continente e non parlava bene l’italiano a quei tempi. Una donna nera single con una figlia al seguito non ha molte prospettive davanti a sé. È ovvio che in qualche modo le hanno legato le mani: non aveva le armi per difendersi. Nonostante non ci sia più, sento ancora la sua presenza.
Il sentire la presenza di qualcuno che non c’è più è legato anche alle tue origini africane, al rapporto ancestrale che si ha con i propri antenati.
Ho sempre sentito la presenza di mia madre, anche quando ero piccola. Ed è come una carezza che mi fa sentire serena.
Lo scorso anno hai partecipato a Sanremo Giovani con Fammi respirare. Avresti voluto ripetere l’esperienza sanremese?
No, non volevo ripetere quell’esperienza. Quando ho fatto Sanremo Giovani, ero molto contenta. Presentavo una ballad, uscivamo dal periodo CoVid ed è stato qualcosa che consiglierei a tutti di fare: Sanremo è Sanremo, no? Sono totalmente grata a quel palco ma è un’esperienza che non ripeterei almeno in questo momento. Avevo voglia di dedicarmi a Cadiamo a pezzi e alle canzoni che lo compongono, frutto della mia idea terapeutica di scrittura.
Lo hai appena detto: scrivere per te è terapeutico. Quando hai cominciato a scrivere? Qual è stata l’urgenza che ti ha spinto a farlo?
Ho sempre scritto, come testimoniano i miei diari. Ho sempre sentito l’esigenza di scrivere su un foglio bianco qualsiasi cosa mi passasse per la mente o succedesse. E ho capito solo dopo che quei testi che scrivevo sarebbero potuti diventare dei brani, delle canzoni, ed è accaduto quando ho comprato la mia prima tastiera. Ho cominciato a suonare i primi accordi nella mia cameretta, ovviamente chiusa a chiave, in cui nessuno poteva entrare.
E ancora oggi è così. Vado a una festa con gli amici, mi diverto, mi viene in mente qualcosa e scrivo. Sono felice e scrivo. Sono depressa e scrivo. Scrivo di tutto ma non amo spiegare le mie canzoni. Detesto le famose “guide all’ascolto”: la canzone è uno scambio continuo tra chi l’ha scritta e chi l’ascolta, pronto a dare la sua interpretazione, a farla propria attraverso le mie emozioni.