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Sara Drago: “Il peso dello zaino dell’indipendenza” – Intervista esclusiva

Sara Drago
La figura dell'attrice porta spesso con sé un intreccio di sfide e scoperte personali che vanno oltre la semplice recitazione: Sara Drago, rivelazione di Call My Agent Italia, ci racconta il viaggio emotivo e professionale tra le due stagioni della celebre serie tv, esplorando non solo il suo ruolo come Lea ma anche il suo essere donna.

Conclusa recentemente la seconda stagione delle serie tv Sky Call My Agent, Sara Drago riflette sulla complessità di lasciare un personaggio come il suo, Lea, in attesa e il processo di riconnessione con esso dopo un intervallo. Cosa resta le rimane dentro, ad esempio, tra una stagione e l'altra? E come si evolve la sua relazione con un personaggio così ricco e sfaccettato nel tempo?

Ma non solo. Dalla lunga esperienza teatrale alle spalle, Sara Drago approfondisce la fisicità del suo mestiere, il dialogo tra il corpo dell'attrice e la presenza scenica richiesta, e ci introduce nel delicato equilibrio tra la sua vita personale e le esigenze del suo alter ego televisivo. Tra questi aspetti, emerge una riflessione sulla femminilità nell'ambito lavorativo e personale, un tema tanto caro quanto complesso che Sara Drago esplora con sensibilità e apertura.

Attraverso l'interpretazione dell’agente Lea, un personaggio che non chiede scusa né permesso, Sara Drago si confronta con le distanze e le vicinanze tra sé e la sua creatura scenica, scavando nel significato di gentilezza e assertività. In aggiunta, la relazione speciale con la sua agente Donatella Franciosi offre uno spunto per discutere di come le dinamiche professionali si intreccino profondamente con affetti e valori personali.

Quest'intervista non solo ci svela l'intensità del ritorno di Sara Drago nei panni di Lea per una nuova stagione ma ci offre anche uno sguardo intimo su come l'industria dello spettacolo modella e viene modellata dalle donne che ne sono protagoniste. Un dialogo aperto su successo, identità e arte, che promette di arricchire la comprensione del pubblico sulla vita dietro la camera.

Sara Drago (Foto: Fabrizio Cestari; Styling: Flavia Liberatori; Make-up artist: Emanuela di Gianmarc
Sara Drago (Foto: Fabrizio Cestari; Styling: Flavia Liberatori; Make-up artist: Emanuela di Gianmarco using Sisley Paris; Look: Emporio Armani; Press: MPunto Comunicazione).

Intervista esclusiva a Sara Drago

La messa in onda della seconda stagione di Call my agent è terminata di recente. Per te, che vi hai preso parte da attrice, l’esperienza è terminata ovviamente molto tempo prima. Cosa lascia un personaggio che per forza di cosa viene messo in stand-by in attesa della stagione successiva? Tra una stagione e l’altra cosa rimane in un’attrice di un personaggio? E com’è poi riprenderlo?

Subito dopo la fine delle riprese sento sicuramente addosso come le tracce di un’altra qualità energetica, di un altro modo di guardare e di relazionarsi. Quando si interpreta un personaggio con un arco narrativo così grande come Lea, per mesi continui a cedere lo spazio del tuo corpo e della tua emotività a qualcun altro per poi tornare a te non è semplice: giochi con i volumi del tuo corpo, con il tempo intimo, con la voce e le tue forze, e di conseguenza quell’esperienza di trasformazione non può che lasciare cenni. Con il passare del tempo, invece, si sedimenta… è un po’ come andare in palestra: all’inizio, senti il dolore ma poi hai la sensazione che i tuoi muscoli si siano rinforzati.

Con Call my agent, era la prima volta che mi capitava di riprendere lo stesso personaggio da una prima a una seconda stagione, che avevo la possibilità di farlo crescere in un arco narrativo differente. Riattivando la memoria, è come se si risvegliasse pian piano un essere umano che in qualche modo è diventato una parte di te ma è interessante scoprire come è diventato dopo un anno di distacco in cui anche tu sei inevitabilmente cambiato.

È differente dal riprendere lo stesso personaggio in teatro tra una tournée e l’altra?

Nonostante la partitura e l’arco narrativo siano gli stessi, da attore in quel periodo di stacco sei cambiato e, conseguentemente, anche il personaggio cambia con te. È un po’ come quando si ritorna in uno stesso posto ogni tot di tempo: ci si guarda nello stesso specchio dello stesso bagno ma ci si rende conto di come l’immagine riflessa sia diversa rispetto alla volta precedente. Non si tratta di un fattore solo estetico ma anche interiore.

Quello di Lea è senza dubbio un personaggio complesso e non semplice, con infinite spigolature. Quale di queste è quella in cui Sara come donna fa più fatica a specchiarsi?

Il suo non chiedere mai ‘scusa’ o ‘per favore’. Per lei, è come se la gentilezza fosse un qualcosa di cui non le importa tanto: va dritta alle cose tagliandole con l’accetta. E il suo modo di fare un po’ mi affatica tanto che delle volte ho avuto la tentazione di infilare un ‘grazie’ da qualche parte, seppur con i suoi modi. Giustamente, però, il regista Luca Ribuoli ha sempre detto ‘no’: Lea non chiede, Lea esige.

Il suo è un atteggiamento molto distante dal mio e a volte ho sentito come una forma di resistenza al suo risultare profondamente stronza. Nella vita reale, non riuscirei mai a essere come lei e faccio di tutto per evitare di manifestare la mia aggressività, cercando di contenermi.

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Lea è un’agente di star. Anche tu hai ovviamente un agente ed è una donna: Donatella Franciosi. Hai preso ispirazione da lei per qualche tratto di Lea? E qual è il rapporto che vi lega in relazione a quello che la tua Lea ha con i suoi assistiti?

Da Donatella Franciosi ho preso sicuramente la passione che le vedo mettere nel suo lavoro. Un agente trascorre moltissimo tempo a svolgere la sua professione e a prendersi cura della carriera dei propri assistiti: è una professione che potenzialmente non ha limiti di orario… in questo, Lea e Donatella sono molto simili ma hanno anche similarità nel modo in cui si relazionano agli assistiti, con amore e dedizione: ognuno di loro è come se fosse una creatura unica e speciale con cui costruire insieme un rapporto specifico e prezioso. Perché, comunque, si maneggia una materia umana: se vogliamo metterla in termini di mercato, si ‘vendono’ persone, con le loro emozioni, i loro corpi e le loro voci.

A differenza di Lea, Donatella è una donna molto paziente, molto dolce e anche molto, molto materna… fino a quando non le si pestano i piedi in qualche modo (ride, ndr): sa benissimo come mettere dei confini e stabilire il punto oltre il quale non si passa.

E a Sara cosa pesterebbe i piedi?

La mancanza di rispetto, qualcosa che incontro spesso nel mio percorso in forme anche diverse tra loro, a volte anche molto sottili e apparentemente innocue. Non sopporto quando le persone si rivolgono a te svalutandoti quando stanno semplicemente ponendo una domanda, hanno una richiesta da farti o necessitano che tu faccia qualcosa. Una delle cose più difficili in generale è cercare di stare sulle cose per quelle che sono: se serve qualcosa, la chiedo e non ci infilo dentro altre dinamiche. Non accade soltanto nel mio ambiente di lavoro ma in tutti: mia madre, ad esempio, è una ragioniera, ha cambiato tanti posti di lavoro ma, confrontandoci, capitavano anche a lei le stesse situazioni.

Nonostante sia odiosa e insopportabile, Lea è diventata in breve tempo un’icona della community LGBTQIA+ trasformando anche te in un simbolo queer. Ti ha sorpreso? Avevi mai pensato che potesse accadere?

Pensarci? No, ma sono sempre stata abbastanza in lotta contro ogni rigidità di pensiero, le schematizzazioni e le etichette, anche per le cose semplici della vita. Da un lato, quindi, mi ha sorpreso perché non me l’aspettavo mentre dall’altro lato posso affermare che è qualcosa dentro cui mi sento bene: è bello che mi percepiscano come tale. È accaduto soprattutto nell’ultimo anno ed è qualcosa su cui inevitabilmente sto riflettendo, anche adesso che ne parliamo. Mi stanno chiamando per diverse manifestazioni e mi hanno invitato a far da madrina a un festival internazionale di cinema queer e per me è una sorpresa: non ho mai amato le definizioni ma ho un mio orientamento eterosessuale per cui mi sono domandata cosa abbia spinto la community a battezzarmi come icona.

Per quanto mi riguarda, ho cercato anche grazie all’aiuto della sceneggiatura e dei miei colleghi di dare tridimensionalità a Lea e di non renderla bidimensionale, come spesso accade in racconti che ricorrono al cliché della lesbica con determinate caratteristiche anche fisiche dimenticando di quanto varia sia l’umanità. Lea è forse una novità in tal senso e non ha connotati riconducibili agli standard di rappresentazione che spesso vengono restituiti: è lontana da ogni etichetta.

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Lea è una donna in carriera come lo è Sara Drago. Il teatro dove ti sei sempre mossa ti permette di lavorare ma non di diventare un volto riconoscibile e familiare come la televisione. Detto in termini pratici, la serialità e il cinema permettono di raggiungere punti più alti in termini di fama e notorietà. Ti spaventa il successo?

No, non mi spaventa perché lo percepisco come una grande possibilità per poter investire sempre di più nel mio lavoro e realizzare dei sogni concreti a esso connessi. È come se il successo concretizzasse la possibilità di far questo lavoro come piacerebbe a me, permettendomi di dire dei no,  di scegliere che cosa fare e, di conseguenza, orientare il mio percorso come desidero, verso un luogo più affine a me. Cosa che, recitando a teatro per tanti anni, non ho potuto fare.

È vero che il potere è sempre nelle nostre mani ma è altrettanto vero che non sempre è facile esercitarlo per via di contingenze diverse: avevo una situazione economica differente e forse ero diversa anch’io… avevo più paura e, quindi, capitava che mi accontentassi prendendo dei lavori che non mi piacevano. Per come sono fatta io, era qualcosa che mi faceva soffrire parecchio.

Il successo, dunque, rappresenta per me l’opportunità di poter fare ciò che mi piace. E spero che arrivi per davvero e che non sia soltanto un bagliore di grande clamore intorno a un bel progetto o a un bel personaggio interpretato.

Per molto tempo, gli attori teatrali hanno vissuto sulla propria pelle il pregiudizio per cui non erano considerati idonei al mezzo televisivo e cinematografico.

Il pregiudizio c’è stato e c’è, sicuramente. È vero che recitare davanti a una camera e recitare su un palco sono due attività tra loro diverse a livello tecnico ma è anche vero che quella dell’attore teatrale trombone è un’idea molto vecchia che fatica a morire perché, dal punto di vista teatrale, Roma non è che sia una città che offra chissà quale forma di teatro contemporaneo, quello che si pratica in teatri piccoli o nei teatri off.

E forse il pregiudizio è ancora forte per questa ragione: nei grandi imperi del teatro romano non metterò più piede dopo esserci stata diverse volte ed essermi addormentata, sentendomi sequestrata. Quel tipo di teatro proposto a Roma non mi interessa ed è inquinante per la percezione di cosa possa essere il teatro stesso. Da questo punto di vista, Milano rappresenta sicuramente un altro mondo e non lo dico perché sono milanese: ci sono tantissime compagnie che fanno un lavoro di ricerca, che guardano all’estero, che aprono il proprio immaginario dandosi la possibilità di creare e di non accontentarsi più di mettere in scena un divano circondato da quella bella carta da parati dei salotti borghesi…

Anziché vedere quel tipo di teatro come quello romano, preferisco guardarmi una bella serie tv. Non vado a teatro per sedermi nella poltroncina facendo finta che tanto è innocuo quello che sta accadendo lì. Per me, il teatro è un rito, quella cosa che riaccade tutte le sere come se fosse per la prima volta e che va a rompere gli schemi e a destrutturare un certo immaginario sedentario.

Noi attori di teatro dobbiamo lottare ancora molto contro la fuffa che inquina l’idea stessa del teatro. Lo spostamento verso un altro mezzo non rappresenta un problema: se hai tanto lavoro, studio, tecnica e preparazione alle spalle, davanti a una camera devi solo regolare i volumi.

Una tua collega, in una recente intervista, mi ha detto: “Con le parole che pronunci a teatro, vuoi che facciano paura i dialoghi di una serie tv?”…

E ha ragione. Anche se, recitare ciò che appare quotidiano alle volt può essere molto più infido di recitare Shakespeare: il rischio di cascare nel generico, di non pesare le parole e di cedere all’automatismo è dietro l’angolo… anche un semplice ‘ciao’ dipende da come lo si dice, da dove si aggancia dentro di te, a chi lo stai dicendo, per quale ragione, in che situazione e dalla relazione con l’altro.

Possono sembrare delle banalità ma occorre pensarci, sebbene non tutti i progetti a cui prendi parte ti consentono di avere tutto il tempo utile per porti ogni domanda e trovare le risposte: un’interpretazione non è qualcosa che decidi a tavolino ma qualcosa che scopri come funziona facendola. Se andassimo di default, ci specchieremmo nella genericità quando invece il nostro obiettivo è la specificità.

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Nel ripensare ai tuoi spettacoli teatrali, non possiamo non sottolineare quante volte tu abbia utilizzato il corpo come strumento necessario del tuo essere attrice. Che relazione hai con il tuo corpo?

Il corpo è il mio strumento. Parto sempre da lì: lo metto in una posizione e provo a respirare emettendo un suono per vedere come la mia voce cambia. È come uno strumento musicale: modificandolo anche impercettibilmente (il modo in cui tengo la bocca, in cui guardo, spingo lo sterno o il bacino), cambia il risultato e divento un’altra persona. Non mi piace recitare sempre allo stesso modo, mi piace semmai inventarmi un essere umano il più credibile possibile: punto alla diversità, evitando il rischio di replicarmi o di replicare alcuni piccoli vezzi attoriali. Sono molto vigile su questi aspetti: è per me una questione di etica del lavoro.

La tua femminilità ha aiutato la tua carriera o l’ha ostacolata?

Solo di recente ho iniziato a gettare le basi per un rapporto più sereno con la mia femminilità. Per tantissimi anni, anche da adolescente, ho cercato di nasconderla, come se dovessi allontanare da me i tratti della morbidezza, della dolcezza e della bellezza. Mi indisponeva che gli uomini potessero avvicinarsi a me per quelli e non per ciò che sono realmente io, per il mio carattere o per la mia personalità. Quindi, non ho dato alla mia femminilità la possibilità di aiutarmi…

Lavorandoci, cosa hai scoperto che ti piace di te?

Che sto più comoda nella morbidezza, nell’accoglienza e nell’ascolto che nella durezza: mi ga stare molto meglio. È come se indossassi un abito più morbido anziché avere sempre degli abiti ruvidi addosso. Ho scoperto che la femminilità è come il cashmere, una lana pregiata da portare, una coccola.

Hai cominciato giovanissima a lavorare come attrice: hai incontrato più giganti buoni o nani malefici?

Forse, più nani malefici. Ma i giganti buoni, quando arrivano, sono talmente travolgenti e ribaltanti che mettono in ombra tutti i maledetti nanetti che hai incrociato fino a quel momento. L’incontro con un grande maestro spesso annienta tutte le brutte esperienze, ti risveglia e ti fa ritrovare e ripulire la perla preziosa che custodisci dentro te: il talento, il fuoco della tua passione, la tua unicità. Grazie a ciò, tutte quelle persone che hanno cercato di inscatolarti in una cosuccia che serviva a loro ma che non eri tu, di svalutarti o di portarti a non riconoscerti, scompaiono: ti giri e ti accorgi che non erano nemmeno dei nani ma delle pulci o delle cimici da letto… erano sicuramente più dei giganti buoni ma questi ultimi avevano una luce così potente da non poterne rimanere abbagliati.

Storia di una famiglia

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Tra i giganti buoni ultimamente incontrati c’è anche Laura Angiulli, grandissima regista teatrale che ti ha voluta come protagonista del suo secondo film: Storia di una famiglia .

Laura è una donna dalla luce molto potente, oltre che incredibile. Ha una volontà, una determinazione e una capacità di raggiungere quello che vuole senza pari. Non avevo mai incontrato prima una donna come lei che, di fronte a qualsiasi problema sorgesse sul set o a qualsiasi cosa non stesse funzionando per ragioni varie, si prendesse del tempo per trovare una risoluzione, far telefonate e smuovere il mondo intero. Laura sa esattamente quello che desidera ottenere e come, nel bene o nel male, riuscirci. Ho ammirato la sua forza di carattere e le sue immense qualità.

Curioso che per il tuo esordio al cinema tu abbia scelto una regista che, comunque, proviene dal teatro.

È stata Laura a scegliere me ma è anche vero che io ho scelto di accettare la proposta dopo un bell’incontro conoscitivo in cui mi ha parlato dell’operazione che aveva in mente e dell’opera che aveva scritto. Tra l’altro, direttore della fotografia del film sarebbe stato  Cesare Accetta, che aveva in passato curato le luci per Cristina Pezzoli, uno dei fari più grandi della mia vita… C’erano tutta una serie di circostanze e di contingenze che mi hanno inevitabilmente portata a dire ‘sì’, qualsiasi cosa da quel progetto – complesso, particolare, strano, anticonvenzionale ed estremo – potesse venir fuori.

C’erano, dunque, tutte le condizioni giuste per cui sentivo che dovevo partire la mia sperimentazione per il cinema da lì, con Laura, a Napoli e con una storia così viscerale del viaggio dentro la psicologia della donna che interpreto con tematiche molto care sia a me sia alla regista.

Hai appena definito Cristina Pezzoli una tua maestra, uno dei fari più grandi della tua vita. Cosa ti ha insegnato?

Cristina è stata la prima che mi ha messo davanti agli occhi uno specchio proprio spietato di me stessa. Era una di quelle donne in grado di radiografarti l’anima, capace di vedere attraverso gli strati di maschere che indossiamo per coprirci e di andare dritto in fondo dandoti il coraggio di esporti. Condividendo con un attore un’ipotesi di verità rispetto a come funziona, quali sono i suoi blocchi artistici, quali i suoi punti di forza e quali le zone in cui si addentra, Cristina ti sottoponeva quasi a una sorta di analisi attraverso lo strumento dell’arte spingendoti ad assumerti la responsabilità anche di ciò che dici. Ti smontava e aveva la capacità di rimontarti…

Mi ha insegnato a diventare autonoma, a prendermi la responsabilità del mio mestiere e di chi sono artisticamente, e a proteggere il mio talento. Ma è anche stata lei a dirmi a un certo punto ‘Perché cazzo non sei ancora andata a Roma? Hai rotto i coglioni, Drago: ti devo prendere a calci nel culo?’. Ed ecco perché, quando è morta, sono partita per Roma: morendo, è come se mi avesse dato un bel calcio in culo…

La parola morte contiene in sé anche parte della parola amore, l’altra sua faccia della medaglia. Cos’è per te l’amore?

L’amore è strano. Sarà una banalità ma non a caso Dante scrisse che muove il sole e le altre stelle: è l’unica cosa per cui valga veramente la pena di far tutto. Non si tratta solo dell’amore nei confronti della persona con cui scegli di condividere la vita ma anche nei confronti del proprio lavoro… mentre parlavo di Cristina, pensavo all’amore che aveva nei confronti di ognuno di noi, lo stesso che provo quando penso a lei e quando la incontro dentro di me nelle cose che faccio. Non so quanto possa durare l’amore con il mio compagno, speriamo che sia eterno ma chi lo sa, ma sono consapevole del valore che ha.

Amore è anche quello che abbiamo avuto tutti nei confronti della propria madre.

Io e mia madre Antonella abbiamo un rapporto molto forte. Per vicissitudini familiari, sin da quando ero bambina, ci siamo ritrovate spesso a ribaltare i nostri ruoli, per cui ho fatto un po’ la mamma della mia mamma, qualcosa su cui spesso ci siamo anche confrontate perché è stato faticoso e non sempre giusto. Ma il nostro è un rapporto molto bello e onesto proprio perché ci diciamo in faccia ogni cosa, anche la più scomoda… Mamma è la persona con cui sono cresciuta tanto, sempre, e con cui continuo a crescere ma credo che sia reciproco, per cui cresciamo continuamente insieme e siamo molto legate.

Call My Agent 2: Le foto

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Cristina Pezzoli ti ha insegnato a essere autonoma. Autonomia fa rima con indipendenza. Cos’è per te?

È il risultato di uno zaino che al suo interno ha tutto l’essenziale che serve. È uno zaino che va ricontrollato, ripulito e anche riaggiornato con il tempo per far sì che abbia un buon equipaggiamento per attraversare qualsiasi cammino. Questa è la mia idea di indipendenza non solo dal punto di vista emotivo ma anche fisico o economico.

Quanti anni avevi quando hai preso questo zaino per la prima volta sulle tue spalle?

Forse sin sa molto piccola. Sono dovuta crescere in fretta ma l’esperienza di dovermi occupare abbastanza presto dello zainetto è stata secondo me una fortuna. Anche perché, in qualche modo, sono stati i miei genitori a mettermi nella condizione di doverlo riempire: a 14 anni ho iniziato già ad allenare gli altri nella palestra in cui praticavo ginnastica e a guadagnare i miei primi soldini.

A 16 anni, invece, ho iniziato a far la cameriera: sono stata quindi economicamente indipendente molto presto e smarcarmi dai miei genitori non ha potuto che farmi bene. Se mai dovessi avere dei figli nella mia vita, anche se dovessi essere straricca, mi proporrei di metterli nelle condizioni di vivere un’esperienza simile.

Lo zaino è stato mai pensante da portare?

Sì, a volte sì. Soprattutto quando si è caricato dei pesi di qualcun altro, quando ho dovuto riempirlo non solo con i miei sassi o con ciò che non serviva solo a me stessa. Per portarlo, mi era richiesto il doppio dell’energia necessaria senza che però raddoppiasse la strada percorsa.

Qual è la carezza che più ti è mancata?

L’incapacità caratteriale di mio padre di esserci, di aprirsi alla fragilità o di esternare ciò che sente. È una condizione comune a molte donne ma anche a molti uomini, uno dei mali del patriarcato che viviamo sulla nostra pelle. Di recente leggevo un libro stupendo sulla forza del carattere e, purtroppo, con il passare degli anni questo spinge e viene fuori in tutta la sua natura senza più possibilità di edulcorazione.

Sara Drago (Foto: Fabrizio Cestari; Styling: Flavia Liberatori; Make-up artist: Emanuela di Gianmarc
Sara Drago (Foto: Fabrizio Cestari; Styling: Flavia Liberatori; Make-up artist: Emanuela di Gianmarco using Sisley Paris; Look: Emporio Armani; Press: MPunto Comunicazione).
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