The Road to Know (Cat Sounds) è il terzo album da solista del musicista, produttore e compositore Saro Cosentino. Autore delle musiche di Romanzo radicale, il film di Mimmo Calopresti che racconta la vita di Marco Pannella in onda su Rai 3 venerdì 11 novembre in prima serata, Saro Cosentino nel nuovo album si avvale della presenza di nomi importanti come Peter Hamill, Tim Bowness e Karen Eden, tra gli altri.
Registrato nel Regno Unito, negli Stati Uniti e in Repubblica Ceca (nello studio che Saro Cosentino ha a Praga, città in cui vive), The Road to Now si compone di otto brani che affrontano temi tra loro molto differenti. Di questi, abbiamo voluto parlare direttamente con Saro Cosentino per un’intervista esclusiva che non si ferma alla sola musica.
Nato a Roma, Saro Cosentino ha debuttato con un primo album da solista ma da allora si divide fra la composizione di colonne sonore per cinema, teatro e tv, e il lavoro di compositore e produttore. Ha ad esempio firmato tre diversi capolavori per Franco Battiato, motivo per cui non abbiamo potuto esimerci dal porgli una domanda sul maestro catanese, a cui risponde con disarmante e onesta sincerità.
Intervista esclusiva a Saro Cosentino
Perché hai scelto di vivere in Repubblica Ceca?
Vivo fisso qui dal 2015, quindi da sette anni. Però, è dal 2001 che ho preso casa qui: la usavo come studio dove venire a scrivere, facendo avanti e indietro da Roma. Alla fine, ho deciso che si stava meglio in Repubblica Ceca per tante ragioni e mi sono trasferito. Il perché è abbastanza complesso: far l’artista in Italia comporta tutta una serie di ostacoli.
E perché proprio la Repubblica Ceca e non l’Inghilterra, ad esempio?
Io ho vissuto molto in giro. Ho vissuto negli Stati Uniti o in Inghilterra ma avevo bisogno di uscire dall’influenza anglosassone. Ho scelto quindi l’influenza mitteleuropea e Praga è una città che negli ultimi anni è cambiata tantissimo.
Vivi in una zona di confine europeo a est. Si avverte il peso della guerra in Ucraina?
Moltissimo. In Repubblica Ceca ci sono quasi un milione di ucraini, la gravità della situazione si avverte quotidianamente. La situazione è molto pericolosa: siamo sull’orlo di un precipizio che speriamo non si apra mai. La tensione è palpabile: sono abbastanza “anziano” da ricordarmi la crisi dei missili di Cuba. È da allora che non avvertivo un pericolo così imminente e la cosa che fa un po’ paura è anche questa specie di accettazione all’orrore assoluto che avverto. Mi sembra pazzesco che non si scenda in piazza ovunque a protestare, a invitare tutti a fermarsi: l’atomica non è accettabile come opzione.
Il tuo ultimo album si chiama The Road to Now. Qual è la tua strada di adesso?
È il presente. In qualche modo, siamo sempre orientati al presente, anche se pensiamo al futuro o al passato. L’unico momento in cui è possibile agire è adesso: non c’è la possibilità di modificare il passato o di cambiare quello che sarà il futuro. L’unica maniera che abbiamo di intervenire nella nostra storia è quella di agire nel presente.
Cosa rappresenta per te la fine del viaggio (cantata in Time to Go)?
Non è ancora per me il momento della fine del viaggio ma trovo abbastanza inquietante come la nostra cultura abbia esorcizzato la morte, nel senso che non se ne parla. È l’unica certezza che abbiamo, nessuno uscirà vivo da questo viaggio, eppure non riusciamo a confrontarci con la morte: la viviamo come qualcosa che ci dà sgomento ma non l’affrontiamo mai.
L’affrontiamo individualmente, nel segreto delle nostre paure, ma non la socializziamo mai né come paura né come approccio alla fine del viaggio quando invece dovremmo prepararci al momento, senza morbosità. Al di là dei discorsi spirituali annessi, la nostra cultura ha come nascosto o emarginato la morte, nonostante sia un elemento della vita. Se imparassimo ad affrontarla, vedremmo le cose da una prospettiva diversa. L’esperienza può aiutare a capire ciò di cui hai veramente bisogno e non.
Quanto è importante rimanere sani di mente, come si dice in The Joke?
La sanità è un concetto un po’ plastico. Non esiste un confine tracciato per cui tutto ciò che sta da un lato è normale e ciò che sta dall’altro è anormale. In tutti noi, sono presenti elementi di entrambe le barricate: il problema è riuscire a bilanciare la follia con la logica. In The Joke, come si evince anche dal video, si sottolinea la tendenza che abbiamo a fare massa e a non ragionare individualmente. E ciò che si percepisce come scherzo in massa non è detto che lo sia realmente.
Se vogliamo allargare gli orizzonti, è un po’ quello che è alla base degli episodi di bullismo: la massa agisce nei confronti del singolo giustificandosi poi con lo scherzo.
Il bullismo, la violenza sulle donne, la discriminazione nei confronti della comunità lgbtqia+ e tutte le altre forme di sopraffazione vengono sempre giustificate con lo scherzo: ma stavo scherzando, ho tanti amici gay, il mio più caro amico è ebreo o nero… tutte giustificazioni patetiche.
Lo abbiamo visto di recente in un programma televisivo italiano: una molestia in diretta tv è stata motivata con la goliardia, con lo scherzo. Come se fosse normale toccare il fondoschiena a una donna per scherzo.
È accaduto in televisione ed è una situazione limite. Immaginate però se fosse successo alla cassiera di un supermercato. Se avesse reagito al superiore che allunga la mano, avrebbe perso il posto di lavoro. E forse non l’avrebbe nemmeno denunciato: la violenza fisica in quei casi si somma alla paura anche della sopravvivenza. Ed è una forma molto violenta di sopraffazione. Quando si parla di molestie sui luoghi di lavoro, sottovalutiamo quanto oltre alla violenza del gesto non richiesto ci sia anche una forma di violenza economica.
In Pray, si dice “non ho cercato di salvarti, non ho pregato per te”. Chi avresti voluto salvare?
Il testo è di Karen Eden, bisognerebbe chiederlo a lei. Non vorrei interpretare male le sue parole ma credo che si riferisse al ruolo in cui è stata relegata la donna, quello di salvatrice, di infermiera, di mamma.
Quella con Karen Eden non è l’unica collaborazione eccellente presente nel disco. Ci sono anche artisti come Tim Bowless (come singolo è appena uscito You’re the Story) e Peter Hamill. Come sono nate le collaborazioni e perché hai voluto proprio loro come compagni di questo tuo viaggio?
Al di là dell’essere interpreti straordinari, bravi e che ben si adattano con il mio modo di scrivere, per me sono importanti i rapporti. Le persone con cui lavoro devono essere anche persone con cui in qualche modo condivido una visione del mondo. Per me non è tanto importante la tecnica quando l’anima.
Tra queste anime però non ce n’è nessuna italiana a livello di interpreti.
Onestamente, non ragiono in termini di italiano o di straniero. Ragiono semmai in termini di voci.
Tra affondare e nuotare, come si canta in Us, cosa scegli?
Nuotare. Nuotare per me significa non farsi travolgere dagli eventi. Occorre nuotare anche quando la corrente è forte: ognuno di noi deve dare il suo contributo per migliorare la situazione. Credo sia uno dei ruoli del nostro essere vivi in questo pianeta. È doveroso non arrendersi, anche se tutto sembra ormai tendente alla distruzione: il clima, il pianeta, le guerre, i regimi e via di seguito…
Nel tuo lungo percorso, ci sono stati momenti in cui ti sei arreso?
No, direi di no.
In When Your Parents Dance, scritta con Peter Hamill, si fa riferimento alla figura dei genitori e alle loro relazioni sentimentali. Come sono stati i tuoi genitori?
I miei sono stati dei genitori normali. Il concetto di normalità ti viene trasmesso dai genitori e dal modo in cui ti crescono: sono loro che ti mostrano come relazionarti con l’esterno, che ti introducono alla vita e alla socialità. Certo, quando poi fai il salto e vai nel mondo, scopri che quella è solo una delle tante normalità possibili.
Faccio un esempio stupido. Avevo un amico inglese di famiglia italiana i cui genitori possedevano un ristorante. Invitato un giorno a pranzo da un compagno di scuola, ha chiesto alla madre dell’amico cos’altro poteva scegliere oltre al piatto che gli era stato portato davanti. Non aveva idea che in quella casa c’era un piatto solo. Era abituato a ordinare al ristorante, era quella la sua normalità.
Sei genitore. Com’è stato il passaggio da figlio a genitore?
Ho due figlie. Il momento del passaggio avviene solo quando si smette di essere figli, quando muoiono i tuoi genitori. È una sensazione particolare, che si prova soltanto in quel frangente: è cambiata realmente la tua posizione all’interno della catena. Devi reinventare il tuo ruolo sociale ma anche la tua persona.
Le tue figlie hanno seguito la tua strada?
No, fanno tutt’altra cosa. Una è psicologa mentre l’altra è giornalista. La prima lavora in Inghilterra mentre la seconda, la più grande, in Italia, nella redazione del programma di Rai 3 Mezz’ora in più.
Ed è proprio su Rai 3 che l’11 novembre andrà in onda il docufilm Romanzo radicale, diretto da Mimmo Calopresti, per cui hai curato le musiche. Che tipo di rapporto ti lega con Calopresti, con cui collabori da tantissimo tempo?
Il primo lavoro che abbiamo fatto insieme è stato un documentario su Panatta e la vittoria dell’Italia della Coppa Davis in Cile. Era il 2009 e si chiamava La maglietta rossa. Da quel momento sono seguite varie collaborazioni per documentari, docufilm e film. Calopresti è uno di quei tre registi con cui lavoro da un po’ di anni e con cui mi trovo molto bene: il secondo è Angelo Orlando e il terzo è Mohames Asli, un regista egiziano che lavora in Marocco. Mi piace lavorare per il cinema: non si parte mai da un foglio bianco ma da una storia, lo trovo molto più semplice rispetto a quando devi scrivere canzoni o musica partendo da zero.
Sei stato collaboratore di artisti come Alice, Morgan, Milva, Ivano Fossati. Segui l’attuale scenario della musica italiana? Cosa ne pensi?
Se per scenario intendiamo ciò che passa alla radio o ciò che è presente nelle classifiche, c’è davvero poca roba: c’è poco da aggiungere sulla trap. Però, contestualmente, si produce tanta musica di qualità che non passa in radio o non entra in classifica: è qui che trovo cose interessanti. Ciò ha inevitabilmente una ricaduta su chi fa musica: si è costretti a pensare a un lavoro che permetta di sopravvivere e sostentarsi.
La musica si riduce così a un hobby: se vogliamo che gli artisti siano degli hobbisti come i pittori della domenica, allora ci si becca la qualità del pittore della domenica. Se si vuole invece che studi e continui a produrre le sue cose, occorre dare anche un minimo di sostentamento. Vedo tantissimi ragazzi che provano a fare musica, che formano gruppi e che suonano per pochi spiccioli, ma che dopo un paio d’anni sono costretti a mollare. È difficile investire tempo, lavoro, denaro e studio in qualche cosa che poi non dà alcun ritorno.
Il passare in radio mette invece in moto un volano anche economiche. Permette di fare più concerti ma anche di autofinanziarsi. Invece quello che sta accadendo fa molta paura: c’è molta omogeneizzazione della proposta e ci sono schiere di artisti, anche di un certo peso, che non vengono più trasmessi. Abbiamo un numero di radio che è pazzesco ma sono tutte uguali tra di loro, c’è una certa incapacità a differenziarsi e a trovare una propria strada.
L’intera industria discografica ha puntato sul target degli adolescenti ma gli adolescenti, in quanto tale, rappresentano un pubblico volatile, i cui gusti cambiano da un mese all’altro. Ciò fa sì che si ricerchi continuamente il nuovo fenomeno da proporre, che non si discosta molto dal precedente. È come quando esce un nuovo modello di smartphone: tutti in coda a comprarlo per poi avere tra le mani qualcosa che è uguale a precedente ma di un colore diverso.
Questo è quello che accade con i trapper: uno vale l’altro. Non ho ancora sentito qualcosa che possa essere interessante a livello di suono o di composizione. Sui testi stendiamo un velo pietoso: non c’è un’esigenza di fondo o un grido che possa essere di ribellione o di protesta. Spesso mi chiedo cosa resterà di tutta questa musica. Forse niente.
Oggi neanche De André riuscirebbe a pubblicare un disco.
Già De André faceva fatica ai suoi tempi. Creuza de ma, il disco più rappresentativo, secondo i discografici della Ricordi avrebbe dovuto vendere solo qualche copia a Genova. Ciò indica quanto la lungimiranza della discografia sia sempre stata un problema: occorre investire sugli artisti per due o tre album prima che questo arrivi a una sua poetica che lo differenzia dagli altri. Oggi, se un singolo non ha successo, si passa a un altro artista. Un po’ come le saponette al supermercato: non te ne piace una, ne prendi un’altra.
È anche la logica dei talent televisivi: ogni anno, c’è un nuovo nome da idolatrare che sostituisce quello di chi ha vinto l’anno prima.
Stanno facendo carne da cannone di una generazione di ragazzi che sperano di fare questo mestiere e vedono nei talent l’unica possibilità per farlo. E ciò porta anche all’omologazione di cui prima: li fanno sembrare uno uguale all’altro piuttosto che puntare sulla loro individualità. Finché vanno bene, li usano e li spremono con contratti che spesso non fanno guadagnare nulla. Dopodiché, li buttano via facendo sì che si ritrovino dal vivere il grande successo al nulla.
Tu sei stato uno dei produttori di Franco Battiato. Proprio a fine mese esce un nuovo documentario a lui dedicato: La voce del padrone.
Si, raccoglie un po’ di interviste a tutti gli amici di Franco dell’ultimo periodo. Io ho sempre rifiutato di prendere parte a tutte queste celebrazioni. Ho sempre avuto l’idea che più che celebrare l’artista scomparso diano all’intervistato l’occasione per parlare di se stessi: lo trovo abbastanza triste. Non è ricordare Franco Battiato ma diventa “ricordare io con Franco Battiato”, un esibizionismo fine a se stesso. Un po’ come quando ogni volta che muore qualcuno di famoso la gente si appresta a pubblicare sui social la foto che li ritraeva insieme
A proposito di Franco, ho fatto un solo intervento per il libro Franco Battiato. L’alba dentro l’imbrunire curato da Francesco Messina. L’ho fatto solo perché so che Francesco è stato un amico vero di Franco e conosco tutto l’amore che ha messo nel libro. Per il resto, preferisco non intervenire: lascio che a parlare sia il lavoro fatto insieme. La nostra amicizia, invece, rimane un fatto privato: Franco è un amico che a me manca molto.