Entrare nel mondo di Senghe, il nuovo album di inediti degli Almamegretta, è un bagno rigenerante di energia, spiritualità e sete di conoscenza. Reggae, elettronica e melodia mediterranea si fondono negli undici pezzi che lo compongono. Le canzoni costruiscono un ideale ponte tra Ponente e Levante. E offrono un viaggio tra le pieghe dell’oggi, nelle sue problematiche o tematiche. Un viaggio affrontato con la lucidità di chi sa che si deve necessariamente pensare al futuro e non fossilizzarsi solamente nel presente.
Già dal titolo dell’album, Senghe, gli Almamegretta mettono in chiaro qual è il loro intento. Senghe in napoletano vuol dire fessure. “Abbiamo immaginato un muro, all’apparenza compatto, ma che in realtà presenta delle crepe. Un muro può dividere gli ambienti ma anche le persone all’interno della stessa casa, può essere un ostacolo alla comunicazione. Un muro può separare gli Stati, i Popoli. Le crepe in un muro sono quindi una possibilità; di far passare la luce, ma anche di parlarsi, di confrontarsi”, ha spiegato Raiz, il leader degli Almamegretta.
E di fessure Senghe degli Almamegretta ne apre tante nella nostra mente. Ci invita a riflettere sulle diversità e sull’importanza dell’abbraccio a tutti quei figli che non ci somigliano e non sono nostri. Sui giocattoli che una volta rotti non possono essere riparati perché non sappiamo concretamente come farlo: è la metafora è azzeccata per tutti quei problemi di cui la Terra è affetta oggi, a cominciare dalle questioni climatiche. Sulle migrazioni e sui flussi, su quello che è successo, succede e sempre succederà. Sulla speranza e sul desiderio di abbraccio collettivo, uno rimedio per non soccombere ai demoni di un presente che spesso non ci rappresenta.
E per entrare nel mondo di Senghe degli Almamegretta non potevamo avere miglior guida di Raiz stesso, che si è prestato a un’intervista fiume, senza remore o sconti. Cantante, autore, musicista, scrittore, attore, padre, marito e icona gay. Napoletano di nascita ma anche israeliano di adozione. Basta questa definizione multipla per farci capire come sia un uomo in eterno movimento, capace di guardarsi intorno con una spiritualità non scontata.
Intervista esclusiva a Raiz
Hai un nome che per me siciliano vuol dire molto: Raiz. Il rais per noi era il re delle tonnare.
Non a caso l’ho scelto quando all’inizio della mia carriera cercavo un nome che fosse più agevole di Gennaro Della Volpe, bello lungo e tecnicamente così connotato. Ero stato in Sicilia e avevo scoperto che rais era la parola usata per indicare il capo di una spedizione di pesca. È evidente che è una parola che viene dall’arabo e che fa da ponte tra le due sponde del Mediterraneo. Faceva quindi al caso mio, mi stava bene sia fisicamente sia come concetto.
E anche oggi a distanza di anni ci ritroviamo a parlare di sponde del Mediterraneo. È appena uscito Senghe, il nuovo album degli Almamegretta, che coniuga tutte le sponde del Mediterraneo, passando da Israele all’Africa all’Italia. Voi siete tra i pochi gruppo italiani che sono riusciti a esportare la loro musica anche all’estero. Mi faceva sorridere bonariamente che tra i vostri estimatori e follower sui social ci sia il regista Paul Greengrass.
Siamo un gruppo underground che ha diversi estimatori ma che è sempre rimasto nella sua nicchia. Ma proprio per questo possiamo permetterci anche estimatori celebri.
Senghe segna l’ingresso nell’universo degli Almamegretta di due nuovi nomi. Perché il gruppo ha sentito l bisogno di aprire le porte a Paolo Baldini, uno dei nomi più importanti del dub/reggae in Europa, e ai testi di Danilo Turco?
Siamo un gruppo che ha tanti anni di vita e di esperienza insieme. Secondo me, ciò ha fatto sì che le cose a un certo punto cominciassero a cristallizzarsi. Come in un matrimonio, c’è molto amore ma è un po’ come se fossero venuti a mancare gli stimoli facendo adattando l’intimità sulla mediocrità. Noi siamo diventati troppo accondiscendenti con noi stessi, ci conosciamo da troppo tempo e non siamo più capaci di dire l’uno all’altro che qualcosa non ci piace, ci stiamo noi male per primi.
Abbiamo allora avuto bisogno di un orecchio esterno e al contempo interno e lo abbiamo trovato nel produttore Paolo Baldini. È un orecchio interno perché, per sua stessa ammissione, Baldini ha cominciato a suonare ascoltando gli Almamegretta. Quindi, è uno che conosce benissimo il nostro catalogo, le cose che facciamo e i nostri gusti: era uno di noi anche prima di essere uno di noi. Tant’è che la sua attività di produttore di Senghe è diventata anche quella di direttore artistico della tournée e di bassista del gruppo. Paolo, che ha dieci anni meno di me, è come se ci avesse restituito quello che noi abbiamo dato a lui in termini di skills.
Danilo ha addirittura 23 anni meno di me, potrebbe essere tecnicamente mio figlio. Anche lui è cresciuto ascoltando gli Almamegretta. Generalmente non scrive in napoletano ma lo fa per affetto e piena stima nei nostri confronti. Mi ha fatto sentire tre cose che mi piacevano molto e che sentivo adatte a me. E poi, ultimamente, mi diverto a fare l’interprete. Ho appena concluso le registrazioni di un disco tutto dedicato a Sergio Bruni.
Nello scrivere i tuoi testi utilizzi lingue come il napoletano, l’inglese e l’ebraico. Quest’ultima conferisce un aspetto molto interessante per i continui riferimenti. Ben Adam, una delle nuove canzoni, fa ad esempio riferimento a un’espressione che nella Bibbia ebraica compare ben 107 volte, di cui 93 solo nel libro di Ezechiele. Tu conosci molto bene Israele.
Ho vissuto molto tempo in Israele e ci tornavo spesso. L’abitudine si è interrotta a causa della pandemia e per varie vicende familiari. È stato un bel periodo: stavo in inverno per ritornare in Italia d’estate, per i concerti e i vari impegni professionali. Quindi, Israele è un Paese che ho imparato a conoscere bene, così come la sua lingua e la sua cultura. Ben Adam in ebraico vuol dire “essere umano”: gli inglesi lo hanno tradotto con “son of man”, cioè “figlio dell’uomo”, una locuzione che sentivo spesso anche nel cristianesimo (Ecco il figlio dell’uomo) ma che non mi diceva nulla. Studiando l’ebraico, pare che Ben Adam voglia dire “essere umano”. È la ragione per cui canto nella canzone “non voglio confini, adesso sono solo un essere umano”.
Il testo dice anche “odio tutti gli ism. Tutte le parole che terminano in -ism in inglese (l’equivalente del nostro suffisso -ismo) hanno ovviamente una connotazione negativa. Ma ti svelo una curiosità: in arabo, ism è anche un modo offensivo per rivolgersi a qualcuno indicando superiorità. Un concetto che, seppur involontariamente, si sposa bene con il testo della tua canzone: ism sembra quasi in contrapposizione con ben adam.
Non sapevo di questa connotazione. Certo, ism ha sicuramente a che fare con qualcosa legato al nome. Ma il mio riferimento era proprio a tutte quelle parole che in inglese terminano con -ism.
La canzone inizia anche con wahed, hamsa, sabaa e tisaa. I numeri uno, cinque, sette e nove in arabo. Come mai?
Nessun significato particolare, è il mio cap, il codice di avviamento postale. L’arabo è un’altra mia grande passione. Vorrei parlare arabo e allora ogni tanto mi faccio insegnare delle parole. Hamsa è una di quelle parole che uso più spesso in concerto o a cui ricorro quando c’è qualcuno che non ispira troppo fiducia. È una parola che si pronuncia con tutta la mano aperta, con il palmo rivolto all’esterno. È il gesto apotropaico per eccellenza, quello usato per allontanare via il malocchio.
Credo che sia un simbolo noto in tutto il Mediterraneo. Lo usano non solo gli arabi ma anche gli ebrei. Gli ebrei la chiamano la mano di Miriam mentre gli arabi la mano di Fatima. Ma sempre la stessa cosa è: probabilmente una vagina, simbolo globale per eccellenza di qualcosa che prolifera e allontana la morte.
Scegliete come singolo di lancio di Senghe, Figlio, una splendida riflessione sull’inclusività che pone in evidenza uno dei problemi principali del nostro tempo: la mancanza di comunicazione. È infatti l’invito a un padre ad avvicinarsi a un figlio che reputa diverso da lei. Dove figlio non è solo colui che è legato a un padre da rapporti genetici ma anche chi gli appartiene indipendentemente dai legami di sangue.
Il testo parla di un figlio che non assomiglia in nulla al padre. Oggi il più grande atto di egoismo dei genitori è quello di voler produrre dei cloni di se stessi un po’ per affermarsi. Succede, quindi, che quando un figlio non ti somiglia, d’aspetto o caratterialmente, ci resti male. Eppure, la cosa bella è proprio quando tuo figlio non ti somiglia: è un altro essere umano.
Ma parla anche di tutti i figli che non sono i tuoi figli, un tema che viene trattato anche più in là nel disco. E dell’orrore che stiamo vivendo in questo momento con una guerra nel cuore dell’Europa. Una guerra convenzionale che non ci saremmo mai aspettati laddove nel 1940 c’era stata un’altra guerra: diverse sono le vicissitudini ma stessa è la modalità.
Ci sono continue guerre nel mondo, basti pensare all’Africa, e non so dire quale sia la più terribile o la meno peggio ma questa ha a che fare con gli Europei, con un sacco di persone che conosciamo e che la stanno vivendo in prima persona. In Israele conosco molti ucraini che hanno una famiglia in Ucraina, gli ebrei ucraini sono tutti emigrati in gran parte in Israele. Così come in Italia conoscono molti ucraini, grandi lavoratori, che raccontano di storie terribili, o tanti russi.
Non ha a che fare con Figlio ma non posso fare a meno di chiedertelo. Consideriamo tutti quella in Ucraina come la prima guerra nel cuore dell’Europa. Sembra quasi che ci siamo dimenticati di quanto accaduto non tanto tempo fa nell’ex Jugoslavia.
Non ce ne siamo dimenticati. La guerra in Ucraina la sentiamo forse maggiormente perché c’è il coinvolgimento di uno dei due ex blocchi della Guerra fredda. In un certo senso, è come se stesse accadendo tutto ciò che negli anni della Cortina di Ferro non si era realizzato: è come se ci fosse rotto qualcosa. E non è perché si voleva dare addosso a Putin: aveva già invaso Cecenia e Siria e non interessava niente a nessuno. È chiaro che ci sono anche interessi commerciali sull’Ucraina, un Paese che vuole stare nell’Unione europea e che per le sue risorse può potenzialmente diventare molto ricca. Però, hai ragione sull’orrore jugoslavo, era dietro l’angolo.
Ed era una guerra fratricida. Non Oriente contro Occidente ma fratello contro fratello, che rischia di riesplodere per una suddivisione territoriale fatta a tavolino. Una delle grandi piaghe dell’umanità è quella di sedersi attorno a un tavolo e di stabilire le priorità di popoli tra loro molto diversi.
Un po’ come quello che è accaduto con le linee indicate dall’accordo Sykes-Picot in Medio Oriente.
Con la pretesa di costruire finiamo col distruggere come cantate in Toy: when you build, you destroy.
In quella canzone inserisco un classico modo di dire napoletano tradotto in inglese: non giocare se non sai aggiustare il giocattolo… Non lo smontare perché poi ti ritrovi un giocattolo rotto. Don’t play tough if you cannot fix the toy: un idiomatismo inglese che non c’è ma che mi sono inventato io. Un po’ come i giamaicani che si sono inventati tante cose in inglese.
Il riferimento non è del tutto casuale. Il reggae nasce là, con annessa tutta la sua dimensione spirituale.
Senghe ha qualche tono mistico. Non facciamo mai riferimento a religioni organizzate però abbiamo sicuramente messo dentro la nostra spiritualità. L’idea di far parte di un unico ecosistema e di essere come le foglie di un albero, non separate dall’albero ma indipendenti, ci affascina come gruppo. Tutti, come umanità in generale, invece continuiamo a fare come se non facessimo parte dell’albero. Abbiamo fame, ci tagliamo un piede, ce lo mangiamo e poi pretendiamo di correre: è impossibile. La soddisfazione temporanea di mangiarsi il polpaccio porta a cadere una volta che ci si rialza in piedi.
Toy è come se fosse il dialogo di un dio, senza una particolare connotazione, con l’uomo. C’è però nell’album anche una sorta di controcanto, Sulo, in cui è invece un uomo a parlare con Dio. Anche quel brano parla di egoismo umano. “Ho ucciso per mandare avanti la famiglia… se non ho scelto bene perché non mi hai punito finora”?
È un pezzo molto ironico. Ha a che fare con la religiosità popolare. Essendo tu siciliano, conosci molto bene la religiosità di quelli che fanno le donazioni alla Chiesa e dieci minuti dopo ordinano una strage. È un modo per auto assolversi: almeno qualcosa l’ho fatta… anche se era meglio che non avessero fatto niente. Si potrebbe anche aprire un dilemma etico.
Possiamo anche aprirlo, non ce lo vieta nessuno.
Siamo ancora messi così, davvero le cose al sud non cambiano mai. Sembra il solito discorso, vecchio e stravecchio, meridionalista sulla connivenza Stato-mafia ma noi stiamo così. Ogni innervazione delle istituzioni è purtroppo inquinata. Succede anche altrove ma con meno effetti e meno ramificazioni ma ognuno ha i suoi raccomandati. Siamo ancora fermi a tutta quella serie di cose che ha fatto sì che l’Italia diventasse quello che è stata fino al “tradimento” di Falcone e Borsellino: hanno cercato di rompere quel patto e sono stati “giustiziati”.
Siamo ancora fermi a un secolo fa, a Tomasi di Lampedusa e al suo tutto cambia affinché nulla cambi, nonostante ognuno di noi dovrebbe essere un Homo Transient, seconda traccia di Senghe che si apre con un chiaro riferimento al Deuteronomio (26, 4-10).
Quel verso fa riferimento ad Abramo che esce dalla casa di suo padre idolatra. Nella Bibbia, Dio dice ad Abramo “vai verso un posto che io ti dirò”. È per questo motivo che viene chiamato “ebreo”. Ibhri vuol dire ebreo non nell’accezione di “giudeo” che conosciamo noi ma in quella di “colui che ha attraversato”. Abramo nella Bibbia perché una decisione: è un “traditore” della sua famiglia (come tutti i grandi portatori di progresso, deve tradire) e per andare oltre attraversa effettivamente un fiume, l’Eufrate, per andare dall’Iraq verso l’Egitto per andare a costituire un grande popolo.
Mi serviva per fare una metafora sulle grandi migrazioni, che sempre ci sono state e ci saranno. La storia dell’umanità è fatta di migrazioni, di gente che a un certo punto va via dalla propria terra per necessità contingenti, spirituali o politiche. È quello che succede oggi ai siriani, che lasciano il loro Paese per l’Europa, dove vengono accolti come vengono accolti. Canto “Io ti sto portando i miei figli perché tu non ne hai… io sono la legge di Dio che riempie il vuoto di carne senza fare figli e figliastri, senza pensare a chi sei tu e a chi sono io”. Questo è quello che succede e quello che ho voluto stigmatizzare. E aggiungo “non so se porto civiltà però non posso avere pietà, allo stesso tempo, perché non posso permettermi di non dare da mangiare ai miei figli”.
Non voglio essere facilone o abbracciare la retorica abbastanza vuota dei porti aperti. Le migrazioni rappresentano un grande problema, sono uno tsunami, qualcosa che non si può evitare. Perché sono, per la legge di causa ed effetto, conseguenze di altre conseguenze. Meglio saperlo che non saperlo: meglio accogliere l’onda piuttosto che cercare di opporvisi in maniera stupida. Alzare i muri o mettere tutti i militari che vuoi non servirà a niente. “Se c’è un muro, io lo scavalcherò”, dice sempre il testo, “dove non c’è l’erba, io la farò crescere… andrò a coltivare un posto che non è coltivato. Io sono quello che è successo, che succede e che succederà”.
Ed è un po’, in maniera meno irruenta e più mistica, sempre il discorso di Black Athena, canzone della nostra tradizione.
Nel continuare il percorso dentro Senghe, ci sono tre pezzi che sembrano distanziarsi dagli altri. Sono Make it Work, Miracolo e Water de Garden. Li ho trovati molto personali.
Make it Work è stato scritto da me. Miracolo da Paolo Porcari, il tastierista degli Almamegretta. E Water de Garden da me facendomi interprete degli Almamegretta genitori: a eccezione di Gennaro, siamo ormai tutti padri di figli.
In Water de garden, penso a mia figlia che cresce e penso di innaffiare un giardino. Lei mi dà tanto, cerco di consegnarle un futuro migliore. Ritorno nuovamente sulla questione di cosa consegneremo ai nostri figli. Il modulo espressivo musicale è però quello più simile agli Almamegretta di Sanacore. Si sente il reggae Uk degli anni Novanta, condito con un po’ di elettronica e tutte le voci sotto, molto new sound e Adrian Sherwood, che sono stati un po’ i nostri riferimenti.
Let it Walk, invece, è un pezzo dance che fa riferimento proprio a quella dance che ho molto amato e a quella scena di cui ho in qualche modo fatto parte: nel secondo disco dei Letfield, Rhythm and Stealth, c’è ad esempio un pezzo mio, Rino’s Player. Le it Work è dedicata a mia moglie in cura per il cancro al seno. Affronto il tema del cancro in maniera molto ottimista per esorcizzarlo: quello che è rotto, aggiustalo. Perché? Il cancro che cos’è? È una cosa che non è un virus e non è un batterio… è una cosa che tu generi. Forse un giorno scopriremo che la genesi del cancro ha molto a che vedere con la psiche.
Seguendo il percorso di mia moglie, si è creato un rapporto molto umano, anche profondo, con molti oncologi. Ho cercato di farmi raccontare da loro cos’è il cancro: sappiamo come curarlo ma non abbiamo nozioni sulle sue origini. Si, ci sono dei dati scientifici ma non sappiamo molto. Si dice ad esempio che su chi fuma ha un’incidenza maggiore ma mia madre ha fumato dai 13 agli 86 anni e aveva i polmoni puliti quando è morta.
Tralasciando tutto ciò, la canzone è da incoraggiamento per mia moglie e per tutte le persone che stanno affrontando la sua stessa situazione, il brutto male… Nessuno ha il coraggio di chiamare il cancro con il suo nome: brutto male, come se poi esistesse un bel male. Come il diabete o il raffreddore, è giusto chiamarlo con il suo nome per sapere bene con chi si ha a che fare. È la prima cosa che insegnano ai malati di cancro appena coscienti della malattia.
Quanto ha influito Abraham Yehoshua, lo scrittore recentemente scomparso, in Water de garden? In Viaggio alla fine del millennio parla di come amore e speranza possano gettare le basi per un futuro sì difficile ma vivibile. Lo stesso tema della canzone.
Non ci avevo riflettuto. Yehoshua è stato stimolante per la mia ricerca sugli ebrei arabi, un mondo poco conosciuto. In Israele non vengono chiamati nemmeno ebrei arabi ma orientali: questo fa capire come l’élite ashkenazita (cioè russo, polacca e quindi europea) abbia riprodotto il proprio centrismo anche laggiù, in un Paese che doveva superare l’eurocentrismo. Hanno creato un paese di terroni e polentoni, dove i terroni sono gli ebrei arabi e i polentoni i russi, i polacchi e via dicendo. È stata una grande mortificazione: se fossi arrivato dal Marocco, non avresti potuto parlare arabo perché in quel momento il Paese stava combattendo contro i paesi arabi: non si poteva parlare la lingua del nemico. Paradossalmente, si poteva parlare il tedesco, la lingua di chi fino all’altro ieri rinchiudeva gli ebrei nei campi di concentramento.
Yehoshua è stato uno degli ebrei arabi per eccellenza, ha rivendicato tale appartenenza per tutta la vita. Mi è servito da stimolo per ricercare quel mondo di estremo confine che è quello della cultura cosiddetta sefardita orientale. E sulla musica araba cantata in ebraico o in ladino.
Ritorno su quanto sia bizzarro chiamare gli ebrei arabi orientali. Un marocchino non è orientale rispetto a Israele, caso mai è occidentale. Io amo quel mondo lì, quello in cui non si capiscono bene i confini: è la terra prediletta degli Almamegretta. C’è quell’humus culturale dove vale la pena stare, in mezzo a tutte le contraddizioni. No matter what.
Quanto è importante per te la ricerca? Sei quasi in eterno movimento.
Sono così. A parte il fatto che cerco di fare sempre meglio. Questa è la prima volta in cui sono molto soddisfatto di un disco che ho fatto e di cui, ascoltandolo, non cambierei nulla. Muovermi in continuazione è stato il sale della vita: sono una persona abbastanza curiosa. Mi piace conoscere le cose e credo che quest’attitudine affondi le sue ragioni nel fatto che sono anche un attore. Recitare mi dà la possibilità di mettersi nei panni di qualcun altro con molta credibilità.
Credo, come dicevo una volta in un dialogo tra me ed Elio Germano, che chi fa l’attore ha un difetto della personalità. Non si spiegherebbe altrimenti l’esigenza di provare cosa si prova a essere qualcun altro… uno meglio di te, peggio o molto diverso da quello che sei. Un giorno ti ritrovi a fare il soldato, un altro il camorrista: solo una volta ho fatto il cantante per un recente cameo in La vita bugiarda degli adulti, la serie Netflix tratta dal romanzo di Elena Ferrante.
Anche il desiderio di imparare le lingue è un modo per essere qualcun altro. Imparare l’ebraico mi ha permesso ad esempio di vivere come un israeliano tra gli israeliani. Ha significato potenza perché mi ha permesso di mettermi veramente nei panni degli ebrei. Se non conosci il loro mondo, come fai a capire chi sono gli altri? Gli Almamegretta sono stati un po’ vittima, consensuale, delle mie peregrinazioni: se l’idea è questa, implementiamola tutti insieme.
La tua esperienza da attore è abbastanza variegata. Personalmente, ti ho amato in Ammore ‘e malavita, il film dei Manetti Bros. presentato qualche anno fa in concorso al Festival di Venezia. Ma anche in una serie tv che, dopo essere passata quasi in sordina sulla tv generalista, è esplosa grazie alle piattaforme: Mare fuori. Decine e decine di milioni di streaming per quella che è uno dei pochi prodotti in grado di parlare ai giovani e di intercettarne le problematiche.
Mare fuori presenta dei giovani in carcere. Il fatto che siano reclusi è un po’ metaforico. Non c’è nessuna pretesa di iperrealismo. Interpreto il padre camorrista e dispotico di Ciro, uno di quei genitori che spera che i figli assomiglino in tutto e per tutto a lui. Posso anticipare che nella terza serie, avrò un ruolo di maggior peso, così come la figlia femmina del mio don Salvatore, interpretata da un’attrice giovanissima ma bravissima, Maria Esposito. Mi sono divertito: Mare fuori è un bel progetto popolare, nel senso pop del termine. Riesce a parlare molto bene dei ragazzi ai ragazzi, mettendo in scena dinamiche di vita vissuta. Al di là dell’ambientazione, mostra come uscire fuori dal seminato ha conseguenze da pagare.
Mi diverte lavorare come attore in maniera professionale. Avevo attraversato prima di Ammore e ‘malavita il cinema solo in maniera tangenziale. I Manetti hanno creduto tanto in me: erano convinti che fossi quel personaggio e mi hanno permesso di vivere sul set tra le otto settimane più belle della mia vita.
Tra l’altro, in Ammore ‘e malavita recitavi con Giampaolo Morelli, che hai ritrovato diverse volte lungo il tuo percorso.
Ho recitato anche nell’ultimo film che ha diretto e interpretato, 7 ore per farti innamorare. Interpretavo il segretario gay del direttore di una rivista per soli uomini. Sono stato molto attento a non calcare troppo la mano e a non cadere nel grottesco, tanto che sul set ho ricevuto i complimenti dei parrucchieri gay, che si sono detti orgogliosi della mia interpretazione.
Tu sei consapevole di essere un’icona gay?
Sono stato eletto anche due volte “Uomo dell’anno” dal portale Gay.it. Sono contento dell’apprezzamento, credo dipende dalla mia mascolinità così espressa o marcata.
Ma anche dal tuo percorso artistico, mi permetto di aggiungere. Una canzone come Figlio può essere estesa anche a tutta la comunità lgbtqia+.
Nel mio percorso ci sono ad esempio la scrittura di Nun te scurdà, in cui sono una donna. Ma anche nel mio libro, Il bacio di Brianna, pubblicato lo scorso anno per Mondadori: ci sono venti racconti e in due di loro parlo in prima persona da donna.
Ho un’ultima curiosità da chiederti. Senghe è uscito in cd, vinile e cassetta. Perché la cassetta?
Secondo me, è una scelta snob (ride, ndr): è un oggetto carino. Gli Almamegretta sono un gruppo non generalista. Se lo fossimo, potremmo uscire tranquillamente solo in forma liquida. Siamo come il salumiere che ti vende i prodotti buoni, quello che ti fa la confezione fatta bene. C’era l’idea di offrire degli oggetti che possono essere poi conservati: i supporti fisici sono qualcosa che puoi conservare e ascoltare quando e come ti pare. Sono un ricordo, qualcosa di bello forse non tanto dissimile dalla maglietta. La cassetta assume quasi il valore del feticcio: è figlia del periodo in cui sono nati gli Almamegretta.