"Ma io mi difendo bene: parlo anche quando provano a mettermi in difficoltà", esordisce Senhit con un sorriso sicuro, mentre ascolta le raccomandazioni per l’intervista. È evidente che la cantante, attrice e performer conosciuta come la Freaky Queen non teme le domande scomode. "Rispondo a tutto perché ho sempre puntato alla sincerità e alla verità di chi sono", continua, preparandosi ad affrontare un'altra conversazione franca e appassionata.
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Con il nuovo singolo Colombia, disponibile sulle piattaforme streaming e in digitale, Senhit esplora ancora una volta la sua vena creativa con un brano elettropop che mescola ritmo sensuale ed energia esplosiva. Colombia racconta la storia di una ballerina sudamericana, forte e sicura di sé, un'ode alla libertà e all'inclusione. "Mi sento cittadina del mondo – dichiara Senhit – ho voluto rendere omaggio al mondo latino con un brano musicalmente coinvolgente dal testo provocante, libero e apparentemente leggero".
Fresca dal successo dell’I am what I am tour 2024, che l’ha portata ad esibirsi nelle principali città europee e concludersi trionfalmente al Dollar Bill di New York, Senhit continua a risplendere nel panorama musicale internazionale. La sua carriera vanta collaborazioni con artisti del calibro di Benny Benassi, Flo Rida, Steve Aoki e Tory Lanez. Ricordata per l’esplosiva performance di Adrenalina all'Eurovision Song Contest 2021, Senhit è diventata un’icona per il pubblico internazionale, anche se in Italia – come ci dirà nel corso di quest’intervista – c’è ancora molto da faticare.
Con Colombia, Senhit non solo celebra la cultura latino-americana, ma continua la sua missione di trasmettere messaggi positivi e di libertà. Pronta a rispondere a ogni domanda, ci immergiamo nella sua visione artistica e personale.
Intervista esclusiva a Senhit
Come nasce Colombia?
Sono molto fiera di Colombia perché nasce dal desiderio di creare dei suoni un po' diversi da quelli che ho usato negli ultimi brani. Anche se non è poi così tanto diversa, è sempre una canzone elettro pop, molto energica e estiva, ed è stata realizzata dagli stessi autori e produttori con cui avevo collaborato per Adrenalina o altri pezzi precedenti. Volevamo fare qualcosa di un pochino più latino ma che contenesse, come sempre, qualcosa di africano perché mi piace sottolineare le mie origini, mischiate con questo mondo europeo.
Colombia ha un testo apparentemente leggero, ma in verità come da mia tradizione cerca di trasmettere messaggi positivi e di libertà. Racconta di una ballerina contesa da uomini e donne, che esprime la sua libertà attraverso la danza e la sensualità, senza preconcetti e pregiudizi, in maniera giocosa ma non superficiale.
Uscirà anche un remix a giugno, quindi continueremo a ballare per tutta l’estate. Ho avuto anche la fortuna di promuoverlo in Colombia, grazie a diversi network sudamericani, un mercato che mi si è aperto anche grazie alla mia partecipazione Eurovision nel 2021 con Flo Rida.
La protagonista sembra somiglia a te. È una canzone autobiografica?
Parecchio, anche se non è del tutto autobiografica: la protagonista potrebbe essere chiunque, uomo o donna non ha importanza. Non voglio creare etichette o distinzione di generi, non mi è mai piaciuto farlo, nemmeno nelle canzoni. Non sempre è facile per via di una lingua come l’inglese con cui è più complicato ma ci provo.
Racconto, nel caso di Colombia, di questa persona che non sono nella fattispecie io ma che ho incontrato in una spiaggia colombiana, una donna che balla benissimo e che è contesa da uomini e donne, con un modo di esprimersi libero che viene voglia di invidiare in maniera positiva. È una figura che incarna la libertà e l'indipendenza, elementi che cerco sempre di trasmettere nella mia musica.
Una donna che ha anche le sue fragilità…
Assolutamente sì. È una donna con delle fragilità, degli scheletri nell'armadio, come tutti. Ma è anche molto determinata, testarda, a volte incosciente. È fragile, insicura, un po' bambina e un po' puttana: un po’ come sono io. Attraverso la sua storia, cerco di mostrare che la vulnerabilità e la forza possono coesistere, rendendo il personaggio ancora più realistico e autentico.
Sei così determinata?
Tantissimo. I miei genitori mi hanno trasmesso valori fortissimi di determinazione e mi hanno insegnato a camminare a testa alta. Hanno avuto il privilegio di emigrare in Italia negli anni Cinquanta e mi hanno cresciuta in un determinato modo, qualcosa che mi ha aiutato molto nella mia carriera: mi ha dato la grinta per affrontare ogni sfida. Sono cresciuta in un ambiente dove la perseveranza era fondamentale. I miei genitori mi hanno sempre incoraggiato a seguire i miei sogni, anche quando le cose sembravano difficili.
Hai mai avuto difficoltà a causa delle tue origini eritree in Italia?
Fortunatamente no. Probabilmente mi sono corazzata negli anni e grazie al mio lavoro, che mi permette di viaggiare e sperimentare, non ho mai avuto questo tipo di disagio. L'Italia è diversa politicamente da quando sono arrivati i miei genitori (c’era molta più accoglienza di oggi), ma è una diversità politica: il popolo ha una gran voglia di aprirsi e di fare. In tal senso, manca la spinta dall’alto ma sono molto propositiva e positiva: prima o poi ci sarà un cambiamento. È vero che ci sono stati momenti difficili, ma ho sempre trovato il modo di affrontarli. La mia esperienza di vita e la mia carriera mi hanno insegnato a vedere ogni ostacolo come un'opportunità di crescita.
Che rapporto hai con la terra d’origine dei tuoi avi?
Molto stretto, anche perché da 15 anni mio padre è tornato a vivere in Eritrea. Vive lì anche la mia nonna materna e ciclicamente, compatibilmente col tempo e con gli impegni, andiamo a trovarli. Ci sono stata anche di recente e conto di tornarci entro la fine dell’anno, anche se quello che avrò davanti sarà sempre un paese terribilmente povero. La guerra civile è terminata da tempo ma in verità la sua eco ancora si sente a distanza… Ci vado spesso e ci vado volentieri. Mi piace poi quando rientro in Italia riuscire a portare con me qualcosa di quei luoghi per usarlo nella mia musica, come può essere il suono di un tamburo o i canti delle donne.
Se ci pensiamo, molti dei problemi di quella terra derivano storicamente dai noi italiani…
…ma molti anche dei progressi: sono rimaste conseguenze sia positive sia negative. Asmara è stata ricostruita grazie agli italiani. Ricordo perfettamente come mio nonno, purtroppo morto recentemente, parlasse ancora l’italiano.
Che ricordi hai collegati ai viaggi in Eritrea?
Ricordo come quand’ero più piccola mi colpisse la mancanza dell’elettricità. Ancora adesso, la luce non è arrivata dappertutto: con mia sorella, che ha due anni meno di me, osservavamo il cielo stellatissimo ma al contempo, abituate alla civiltà occidentale, anelavamo l’hamburger di un fast food. Ma ricordo anche le capre o le mucche: mio nonno mi svegliava tutte le mattine presto per andare a mungerle. Sono comunque tutti ricordi molto belli, genuini e puri, quelli che conservo.
Per chi avesse dei dubbi, sei italiana e non eritrea, nata e cresciuta a Bologna,
I miei genitori sono stati molto bravi nel crescermi. Anche perché, come sottolineavo prima, sono arrivati in Italia in un periodo sì complicato ma sicuramente più accogliente dell’attuale. Hanno formato noi tre figli seguendo un’educazione tutta italiana ma cercando anche di mantenere vive le tradizioni eritree. Ancora oggi, mia madre quando si incazza mi urla in eritreo (ride, ndr). Attraverso le canzoni, le feste o il cibo, c’è sempre stato in casa un forte legame con le origini e, crescendo, da persona caratterialmente affamata e curiosa di sapere, l’ho coltivato e accresciuto. Paradossalmente, mia sorella e mio fratello sono molto più italiani di me, anche perché com’è giusto che sia hanno un carattere molto diverso dal mio.
A me piace pensare che a poche ore d’aereo c’è un posto che posso considerare casa… un posticino dove a volte mancano acqua o elettricità ma in cui mi posso gustare mia nonna o le pecore. È come se tornassi indietro nel tempo e un’altra dimensione. Faccio un lavoro in movimento che mi proietta al futuro ma ogni tanto è anche bello fermarsi e godersi piccole cose, anche stupide, che sanno di passato.
Ti dà fastidio quando ti chiedono delle tue origini?
No. Lo considero un gran lusso poterne parlare e trovo che sia un privilegio quando le persone me lo chiedono. Io mi sento italiana e sono italiana, però ho delle fortissime origini eritree. E parlo della stessa Eritrea che capita di vedere nei telegiornali italiani per via di tutti coloro che scappano per venire verso questo mondo. Proprio come facevano un secolo fa gli stessi italiani per andare altrove a cercare una vita migliore. E le similitudini non finiscono qui: anche loro hanno dovuto confrontarsi con la paura del ‘diverso’.
Come nasce il soprannome di Freaky Queen con cui tutti oggi ti definiscono?
Premetto che non mi sono autodefinita così. Tutto nasce dall’uscita di Freaky, la canzone che avrebbe dovuto rappresentare San Marino nel 2020 all'EuroVision, edizione poi cancellata a causa del Covid. Con Luca Tommasini, direttore artistico e creativo di quella che avrebbe dovuto essere l’esperienza EuroVision, abbiamo messo in piedi Freak Trip To Rotterdam, un viaggio lungo un anno che si sarebbe concluso nel 2021.
I fan mi hanno allora soprannominata Freaky Queen e il nome è rimasto anche quando poi nel 2021 ho rappresentato la piccola repubblica all’EuroVision insieme a Flo Rida: anche se non ho ottenuto un gran punteggio in quella circostanza, il titolo mi è rimasto addosso e mi piace portarlo perché rappresenta una libertà autentica e bizzarra. È diventato un simbolo di ciò che sono rappresento: una persona che celebra l'individualità e l'originalità.
Hai mai avuto ostacoli significativi nella tua carriera?
Fortunatamente no. Ci sono stati dei no, ma li ho sempre affrontati con determinazione. Sono una guerriera: non mi spavento facilmente e dove vedo un problema cerco sempre di attraversarlo. Sono molto testarda e caparbia. Ogni ostacolo è stato un'opportunità per dimostrare la mia forza e la mia passione per la musica. Non dico che non ci siano stati dei ‘no’: ci sono stati anche quelli, così come perdite o rifiuti.
Non ti genera sofferenza il fatto di essere un’artista universalmente nota ma poco considerata in Italia dal circuito mainstream?
Ci ho fatto il callo. Ma in Italia è sempre tutto molto complicato: mi hanno offerto di tutto, dai vari reality a tanto altro, ma non è quello che desidero. Sarebbe stato molto semplice andare in tv ma non avevo né voglia né desiderio di snaturare ciò che sono o la mia musica. Però, l’essere come sono mi ha permesso di arrivare ad esempio in Colombia, dove tra l’altro non ero mai stata ma dove oggi posso cantare in un locale e trovare un supporto che mi rende felice.
Questo non significa che non proverò a continuare anche per farmi conoscere in Italia: continuo a essere sempre caparbia, testarda e ad andare avanti per la mia strada. Qualcosa prima o poi accadrà, anche in un Paese come il nostro in cui la meritocrazia viene lasciata fuori dalla porta per inseguire altri cliché, come ad esempio il numero delle visualizzazioni o degli stream.
Ti consideri una donna libera?
A livello personale, sì. Non mi sono mai fatta ingabbiare ad esempio dagli stereotipi, puntando sul rispetto nei confronti di ogni tipo di unicità. E pretendendo lo stesso nei miei confronti: come diceva qualcun altro, la mia libertà finisce dove comincia quella dell’altro. Mi piacerebbe che fosse così per tutti ma vedo intorno a noi ancora un po’ di limiti e di vincoli…
Per te la libertà è anche stata distruggerti le ginocchia e correre su un prato come calciatrice…
…con mia madre sempre più incazzata quando rientravo a casa. È stata lei a un certo punto a mettermi davanti a un bivio: ‘o canti o giochi’, le due realtà non combaciavano. Ho cominciato a giocare a calcio solo perché mi ero innamorata del coach che allenava una squadra di ragazzi: pur di vederlo, mi sono iscritta a una scuola per mostrargli che ero anch’io capace di tirare due calci a un pallone. Ho finito poi con il giocare seriamente e ad entrare in una squadra femminile che lo faceva per beneficenza. Ma quando ho cominciato a prendere troppi calci e ad avere troppo lividi ho smesso. È stata però una bella esperienza, un bellissimo ricordo dei tempi di quell’infanzia meravigliosa in cui i bambini giocavano all’aperto e si sporcavano le mani anziché stare davanti a un computer o a uno smartphone.
Giocavi in attacco o in difesa?
In attacco, ovviamente. Ero quella che correva sempre e segnava sempre… una bella metafora di quella che è generalmente la vita: appartengo alla schiera di persone che si rialza senza neanche troppo lamentarsi, si ripulisce e torna in campo a giocare.
Rinunce: qual è stato il ‘no’ che ti è maggiormente pesato?
Un ‘no’ che poi è diventato stimolante e che mi ha permesso di andare avanti con maggior determinazione. I miei sono molto credenti e frequentavano quand’ero piccola una chiesa nel centro di Bologna. Avrei voluto far parte del coro ma la direttrice non hi ha voluta perché mi riteneva troppo ‘stonata’. Avevo dieci anni ma non mi sono arresa: mi sono iscritta ai boy-scout e ho continuato a cantare in chiesa come un’assatanata prima di crescere e di trasformare il canto nel mio lavoro.
Ma c’è stato un altro ‘no’ che ho poi capito solo nel tempo. Mio padre non voleva che facessi questo mestiere perché ‘non portava il pane a casa’. Finite le superiori, ho però deciso di mollare l’università perché dovevo almeno provarci e per un buon periodo non mi ha rivolto più la parola. In realtà, non sa che, così facendo, mi ha fatto il più grande dei favori: mi ha dato la grinta necessaria per non star ferma, adoperarmi, andare all’estero, fare ciò che dovevo fare e ritornare poi a casa. È un po’ la storia del figliol prodigo, come tanti ce ne sono.
Aveva capito le mie scelte così come poi ho capito io il suo ‘no’: avevo frainteso le sue preoccupazioni. Non avrebbe provato vergogna per una figlia ‘diversa’ ma mi stava solo proteggendo come tutti i genitori desiderano fare da un mondo che ho constatato essere pieno di squali.
Quando ha compreso che non ti avrebbe fermata?
Forse quando è venuto ad Amburgo, in Germania, ad assistere alla prima di Il Re Leone, il musical della Disney, trascinato da mia madre. Si è commosso quando mi ha vista in scena: felicissimo e fiero, mi ha abbracciata dopo lo spettacolo per dirmi che ero stata brava… aggiungendo anche ‘Quando torni a casa?’.