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Sette inverni a Teheran: Storia di Reyhaneh Jabbari e di tutte le donne che lottano per la libertà

sette inverni a teheran
Tra i tanti film presentati al Festival di Berlino 2023, Sette inverni a Teheran è quello che più ha colpito per come ha raccontato della condizione femminile in Iran. Un pugno allo stomaco che ci aiuta a riflettere anche sull’importanza, ancora oggi, di una giornata come l’8 marzo.

Al recente Festival di Berlino il film Sette inverni a Teheran ha vinto il Peace Film Prize. Diretto da Steffi Niederzoll, il documentario ripercorre con l’ausilio della voce dell’attrice Zar Amir Ebrahimi (la protagonista del bellissimo Holy Spider) la vicenda di Reyhaneh Jabbari.

Nell’estate del 2007, un uomo si è avvicinato all’allora diciannovenne Reyhaneh Jabbari, studentessa di architettura che lavora anche come decoratrice d’interni, per chiederle il suo aiuto nella progettazione di alcuni uffici. Durante il sopralluogo, ha però cercato di violentarlo e Reyhaneh lo ha accoltellato per legittima difesa.

Arrestata per omicidio e condannata a morte, Reyhaneh ha trascorso i successi sette anni in prigione mentre la sua famiglia assumeva avvocati per scagionarla e informava l’opinione pubblica del suo caso. Tuttavia, nonostante gli sforzi dei politici nazionali e internazionali e delle organizzazioni per i diritti umanitari, la magistratura iraniana ha continuato a citare il “diritto alla vendetta di sangue”. Ciò significava che, finché Reyhaneh non avesse ritirato le sue accuse contro l’uomo, la sua famiglia avrebbe potuto esigere la sua morte.

Reyhaneh non ha mai cambiato la sua testimonianza ed è stata impiccata all’età di 26 anni. Nel documentario Sette inverni a Teheran, la regista Steffi Niederzoll ricorre a materiale audio e video originale, alle testimonianze e alle lettere che la stessa Reyhaneh ha scritto in prigione per sottolineare quanta ingiustizia ci sia in Iran offrendo il ritratto di un’eroina che, involontariamente, ha sacrificato la sua vita nella lotta per i diritti delle donne.

Il poster internazionale del film Sette inverni a Teheran.
Il poster internazionale del film Sette inverni a Teheran.

Chi era Reyhaneh Jabbari

Reyhaneh Jabbari, la cui vicenda è ripercorsa nel film Sette inverni a Teheran, era nata il 5 novembre 1987 ed era la primogenita di Shole Pakravan e Fereydoon Jabbari. Insieme alle due sorelle Sharare e Shahrzad, era cresciuta a Teheran in una famiglia amorevole e dalla vena artistica. Aveva studiato informatica e lavorato part time come interior designer nell’ufficio di un amico di famiglia.

Reyhaneh era una donna giovane e moderna con sogni e progetti ambiziosi da realizzare. Tuttavia, la conoscenza con Morteza Sarbandi, un ex agente dei servizi segreti, cambiò per sempre il corso del suo destino. Quando questi cercò di stuprarla, Reyhaneh si difese con un coltello e lo colpì alla schiena prima di fuggire via da quell’appartamento in cui si era recata per questioni di lavoro.

Poco dopo la coltellata, Morteza Sarbandi morì a causa delle conseguenze riportate. Quella stessa sera, Reyhaneh venne arrestata. Per 58 giorni, non ebbe alcun contatto né con i suoi avvocati né con la sua famiglia. Quel periodo di tempo venne usato per estorcerle una confessione che di fatto portò alla sua condanna a morte in un processo farsa un anno e mezzo dopo.

Reyhaneh trascorse così sette anni e mezzo in carcere. Qui conobbe diverse donne appartenenti agli strati sociali più disparati della società iraniana e cominciò a scrivere testi sull’oppressione sistematica delle donne da parte delle leggi islamiche. Testi che furono in seguito resi pubblici dalla madre Shole. Fino al giorno della sua esecuzione, il 25 ottobre 2014 nella prigione di Rajai Shahr, Reyhaneh lottò instancabilmente per migliore le condizioni delle sue compagne di reclusione.

Sette inverni a Teheran: Le foto del film

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Una storia da raccontare

“Come tutti quanti, ho sentito parlare del caso di Reyhaneh Jabbari dai mass media nel 2014”, ha raccontato Steffi Niederzoll, la regista tedesca di Sette inverni a Teheran, suo film d’esordio (venduto in tutto il mondo da Cercamon). “Ne ho letto sui giornali. In Germania il suo caso ha avuto una forte eco mediatica dal momento che uno dei suoi zii viveva nel paese. Era una delle tante notizie strazianti che provenivano dall’Iran ma per me è diventata qualcos’altro quando nel 2016, tramite il mio compagno iraniano dell’epoca, ho conosciuto un cugino di Shole, la madre di Reyhaneh, e sua moglie a Istanbul: erano scappati dall’Iran e si ritrovavano bloccati in Turchia. Erano fuggiti per mettere al sicuro tutto il materiale video relativo al caso di Reyhaneh, girato di nascosto”.

“Tra questi materiali, ho trovato un video particolarmente commovente”, ha proseguito la regista. “Erano le immagini di Shole, seduta in macchina davanti alla prigione, in attesa di sapere se a sua figlia sarebbe stata concessa la grazia o meno. Erano per lei attimi pieni di speranza e stanchezza al tempo stesso, che hanno segnato indelebilmente la mia coscienza. Da quel momento in poi, sono tornata diverse volte in Turchia, ho stretto amicizia con i due cugini e sono stati loro a chiedermi se me la sentissi di realizzare un film da quel materiale”.

“Ero consapevole della grande responsabilità che avrebbe per me comportato dire di sì a quella richiesta. Non volevo fare promesse a vuoto ma mi sono comunque offerta di fare una copia dei filmati, di portarli in Germania, di farli tradurre ed eventualmente di riflettere su come li avrei potuti usare”, ha spiegato Niederzoll. “E, mentre copiavo il materiale video, fuori dalla finestra ho visto una donna con un velo blu addosso guardare il mare. Poco dopo, era davanti a me: era Shole, appena arrivata in Turchia con la figlia più piccola”.

“Il nostro primo incontro è stato imbarazzante. Per me, lei era qualcuno di famiglia: l’avevo vista in attimi molto privati nelle immagini. Per lei, invece, ero un’estranea che vedeva per la prima volta. Abbiamo però cominciato a parlare. Mi ha raccontato storie e aneddoti, abbiamo bevuto insieme il tè e guardato le foto d’infanzia di Reyhaneh. Ed è in quel momento che ho capito che dovevo realizzare questo film”.

La regista Steffi Niederzoll.
La regista Steffi Niederzoll.

Il materiale video

Cosa c’era nel materiale video che poi è finito nel film Sette inverni a Teheran è la stessa regista Steffi Niederzoll a rivelarlo. “Le registrazioni audio e video effettuate durante la prigionia di Reyhaneh erano principalmente realizzate dai componenti della sua famiglia per conservare le prove di quanto stava avvenendo. Molti dei video erano realizzati con la fotocamera di un telefono cellulare”.

“Sebbene di bassa qualità dal punto di vista tecnico o traballanti, sarebbero state quelle immagini il fulcro del mio lavoro. Sono immagini incredibilmente potenti, restituiscono luoghi altrimenti inaccessibili (come le prigioni iraniane) e ci permettono di vivere attimi emotivamente incredibili (come il momento in cui Reyhaneh chiama sua madre per dirle che la stanno portando via per l’esecuzione)”.

Oltre alle immagini di Reyhaneh e della sua famiglia, Sette inverni a Teheran contiene video provenienti dalla capitale iraniana girati da altri “operatori”. “Non ci avrebbero mai permesso di girare un film come Sette inverni a Teheran in Iran”, ha rivelato la regista. “Motivo per cui mi sono rivolta a una casa di produzione iraniana che ci ha aperto l’archivio delle immagini riprese da un collettivo durante il periodo in cui Reyhaneh era in carcere. Molte delle riprese scelte avrebbero potuto costare la vita a chi le ha girate: ecco perché i nomi di costoro non compaiono nei titoli di coda o, se compaiono, sono sotto forma di pseudonimi”.

Per correttezza, la regista Steffi Niederzoll ha provato a contattare anche la famiglia dell’uomo ucciso. Inutilmente.

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