Kristine Kujath Thorp è la protagonista del film Sick of Myself, in uscita nelle sale italiane il 5 ottobre grazie alla distribuzione di Wanted Cinema. Del film e dei suoi temi abbiamo già trattato in un apposito post delicato ma TheWom.it ha avuto la straordinaria possibilità di parlarne direttamente con l’attrice via Zoom e di chiederle molto delle ragioni del suo personaggio e del suo pensiero su determinati temi.
Una delle prime cose che abbiamo chiesto a Kristine Kujath Thorp, star poco più che trentenne del cinema norvegese (la vedremo prossimamente anche in The Promised Land mentre abbiamo già potuto ammirarla nello splendido Ninjababy) è come ha fatto a calarsi nei panni di un personaggio come Signe, che nel film Sick of Myself rivela di essere una narcisista patologica che, impegnata in una relazione tossica, arriva persino a sfregiare se stessa per la ricerca spasmodica della popolarità.
E l’assenza di giudizio è innegabilmente la chiave giusta per approcciarsi al ruolo di una giovane cameriera che, con un fidanzato artista che calamita ogni attenzione di amici e non solo, una volta assaggiato un briciolo di notorietà non può più farne a meno. Sick of Myself è sicuramente un film molto duro nei confronti della società dell’apparire e una commedia antiromantica che, tra una sequenza surreale e un’altra tristemente reale, fa sorridere quanto spaventare.
Ma il film Sick of Myself non è l’unico argomento di confronto. Prendendo spunto dai personaggi dai lei interpretati, abbiamo ad esempio chiesto a Kristine Kujath Thorp se le giovani donne, millennial e Gen Z, sono adeguatamente rappresentate dal cinema. E la sua risposta è lucida, com’è lucida la sua riflessione sull’inclusività nel mondo della moda. Quest’ultima non è stata una domanda casuale: nel suo delirio di menzogne e verità, Signe e il suo volto deturpato dalle pillole che compra online catturano l’attenzione di una stilista che vorrebbe trasformarla in top model. A patto di non aver responsabilità sulle sue possibili ricadute…
Intervista esclusiva a Kristine Kujath Thorp
Signe, la protagonista di Sick of Myself, è una narcisista patologica. Hai cercato di capire quali siano le motivazioni psicologiche che la spingono a ricercare notorietà a tutti i costi? Come hai giustificato il suo castello di bugie? E, soprattutto, cosa ti ha convinto a interpretare un personaggio così negativo?
Non riesco a giustificare quello che fa ma la capisco. All’inizio, non è stato semplice ma, lavorando sulla sceneggiatura e sul personaggio, ho cercato di capire la sua vita, cosa le fosse successo e perché si comporta in un determinato modo. Da attrice, tendo a capire come funzioni la mente dei miei personaggi.
Nel caso di Signe, più pillole assume più si ritrova coinvolta in una rete di bugie che le fanno perdere la presa sulla realtà: credo che neanche lei, a un certo punto, sappia distinguere cosa sia reale e cosa no. Da attrice, è stato interessante e divertente ma mi ha creato molta confusione: mentre recitavo, non ero sicura se stesse mentendo oppure no. Tanto che è stato rivedendo il film e determinate scene che mi sono accorta di come, quelle situazioni in cui pensavo fosse sincera e onesta erano in realtà frutto delle sue costruzioni mentali.
Sick of Myself affronta anche il tema delle relazioni tossiche, argomento di cui si parla sempre più. Quale pensi che sia il primo passo da fare per evitare di rimanere intrappolati in una relazione che, anziché far bene, fa male?
È difficile dare una risposta, così com’è difficile uscire da una relazione tossica e capire quando lo è. Credo che un primo passo importante da fare sia parlarne con gli amici e le amiche, raccontando loro come ci si sente o che piega abbia preso la propria relazione. Quando si è intrappolati in un legame tossico, non è facile accorgersene da soli: ecco perché serve il punto di vista di chi ci è accanto, ci conosce e ci vuole bene, e, soprattutto, accettarlo senza alcuna preclusione. Chiaramente, la scelta finale sul da farsi spetta sempre alla persona coinvolta: è sempre lei a dover decidere se restare o andare. Ed è questa la vera sfida.
In Sick of Myself, si fa satira pungente anche sul modo in cui l’inclusività sembra essere diventata la parola chiave di certi ambienti, a partire dalla moda. Guardandoti intorno, pensi che lo show business sia realmente inclusivo o che debba fare ulteriori passi in avanti?
Non siamo mai abbastanza inclusivi: dovremmo cercare di esserlo sempre di più. Il film sottolinea come l’industria della moda voglia essere inclusiva solo nella misura in cui ciò comporta un tornaconto economico. Tutti quanti desideriamo maggiore inclusione, sia coloro che fanno parte di una minoranza sia chi quel concetto di minoranza non l’ha mai vissuto sulla propria pelle: dovrebbe esserci maggiore rappresentazione in ogni campo, dalla pubblicità al cinema. La questione, però, diventa spinosa quando ci si trova di fronte a un dubbio amletico sull’uso che viene fatto dell’inclusività: serve ai brand per vendere di più ma, se non la usassero come leva, si veicolerebbe maggiormente il concetto di inclusività?
Dopo Ninjababy, in cui ti vediamo nei panni di un’adolescente alle prese con un’inaspettata gravidanza, impersoni in Sick of Myself un’altra millennial. C’è la volontà precisa di raccontare le ragazze della tua generazione? Quale tipo di racconto pensi che manchi ancora?
Da attrice, la mia volontà è quella di interpretare personaggi che abbiano molta profondità e molti di quelli che ho portato finora sullo schermo sono personaggi profondi. Dopo Ninjababy e ora con Sick of Myself, in molti si complimentano con me per aver dato vita a “quel tipo di donna” e penso che sia davvero molto triste: significa che dobbiamo fare ancora molta strada per ritrarre al cinema le donne nella loro totalità. Purtroppo, ancora oggi, molti personaggi femminili nei film sono anche noiosi da guardare: si è fatto qualche passo avanti ma ce ne sono ancora troppi da fare.
Nella maggior parte delle interviste per Sick of Myself, sottolineano quanto coraggiosa io sia stata nel prendermi sulle spalle una figura femminile così insolita. E mi dà davvero fastidio: perché dovrei essere coraggiosa nel ritrarre un diverso tipo di donna che non somiglia a quelli che si vedono solitamente al cinema?
L’universo femminile, come il maschile, è ricco di sfumature interessanti da raccontare: non esiste una sola tipologia di donne. Mi piacerebbe vedere anche più film con antieroine protagoniste. Adoro i film con gli antieroi maschili forti: tutti finiamo in un certo senso per innamorarcene ma perché ciò non accade con le antieroine, verso cui si punta invece il dito e si manifesta odio? Non è la stessa cosa? Credo che siano uguali se non più interessanti da vedere e scoprire.
Per la notorietà, Signe sacrifica gli affetti, tradisce le amicizie e immola se stessa. Ricorda per certi versi la Nicole Kidman di Da morire ma anche, con le dovute differenze, le tre protagoniste di La morte ti fa bella. A chi ti sei ispirata?
Non mi piace mai trarre ispirazione da personaggi già esistenti. Tuttavia, mentre cercavo di capire le motivazioni di Signe, ho guardato diverse volte Re per una notte, il film in cui Robert De Niro interpreta il personaggio di Rupert Pupkin, un uomo che sogna di diventare un comico affermato e che ha molti punti di contatto, se vogliamo, con la mia protagonista. Ma ciò che più mi ha ispirato è stato osservare come si comportano le persone alle feste o su Instagram, dove è possibile vedere che tipo di ritratto danno agli altri di sé. Non mi piace ricorrere a personaggi già portati in scena o a persone reale: mi piace inventare un mondo tutto mio.