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Silvia Salemi: “Mai libera dal mio senso di responsabilità” – Intervista esclusiva

Silvia Salemi
A sette anni di distanza dall’ultimo album, Silvia Salemi torna con un nuovo disco che racchiude il passato, il presente e il futuro dell’interprete di A casa di Luca, brano simbolo non solo di un’intera generazione ma anche del passaggio da un’era a un’altra.
Nell'articolo:

Silvia Salemi è tornata sulle scene musicali con la sua raccolta 23 ore, un progetto che segna un'importante riflessione sul tempo, le scelte e le opportunità. Ispirato alle Occasioni di Eugenio Montale, il titolo 23 ore rappresenta un percorso emotivo e narrativo che si sviluppa attraverso le ore di un giorno quasi completo, lasciando la ventiquattresima ora in sospeso tra il concreto e l'immaginato.

Con questo progetto, Silvia Salemi invita gli ascoltatori a riflettere sul valore delle scelte non compiute e di quelle ancora da fare. 23 ore è un viaggio emblematico che accompagna fino alla ventiquattresima ora, simbolo di riscatto e possibilità, un'ora magica in cui tutto può ancora accadere.

In un'epoca dominata dalla logica del singolo "cotto e mangiato", Silvia Salemi ha scelto di realizzare un album per fare ordine nel suo percorso musicale, accorpando suoni avanzati e recenti, in un modo che le permette di raggruppare passato, presente e futuro. 23 ore è un resoconto che lascia aperta la domanda su ciò che accadrà dopo, una riflessione sulla ventiquattresima ora come momento cruciale per il cambiamento.

La raccolta segna anche il ritorno di Silvia Salemi sulle scene live con il Voce Summer Tour, un'anteprima del progetto indoor che porterà nelle principali città italiane tra il 2024 e il 2025.

Nela nostra intervista esclusiva, Silvia Salemi discute il concetto di ventiquattresima ora, il suo percorso musicale, la maternità e il ruolo dell'artista nel trattare temi sociali importanti. Un dialogo profondo che esplora l'equilibrio tra responsabilità e creatività, e la continua ricerca di nuove opportunità e significati nella vita e nella musica.

Silvia Salemi (Foto: Sara Galimberti; Press: Parole e Dintorni; Thanks to Sacha Lunatici).
Silvia Salemi (Foto: Sara Galimberti; Press: Parole e Dintorni; Thanks to Sacha Lunatici).

Intervista esclusiva a Silvia Salemi

23 ore arriva a distanza di anni dal tuo ultimo album. In un’epoca in cui prevale la logica del singolo “cotto e mangiato” perché realizzare un album?

In questi anni, di singoli ne ho pubblicati in un numero anche cospicuo e avevo bisogno di fare ordine ma anche di accorpare una modalità musicale recente ma non odierna come quella di 23, il mio lavoro del 2017 con suoni già avanzati, con qualcosa di più recente. 23 ore rappresenta un modo per me di raggruppare il passato, il presente e il futuro, nell’ottica della ventiquattresima ora, lasciando quindi in sospeso quello che sarà. È un po’ come quando si fa il punto della situazione e si tirano le somme: nel riassumere la tua vita, le tue attività, il tuo percorso e il tuo spirito, ti metti a tavolino con te stesso e tracci il resoconto.

In altre parole, 23 ore è un resoconto che però ti lascia con un punto interrogativo su ciò che accadrà dopo, su ciò che può succedere oppure no in base alla nostra volontà. Abbiamo sempre una palla da giocare: anche quando sembra che abbiamo fatto tutto, c’è sempre qualcosa in più che germoglia e può dare un’occasione.

E, poi, il disco è anche un mezzo per avvinarmi ai festeggiamenti dei trent’anni del mio percorso musicale, di cui faccio risalire il punto zero alla vittoria del Festival di Castrocaro nel 1995.

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In questi trent’anni, quante volte ti sei avvicinata alla ventiquattresima ora?

Molte volte ma mai così tanto come adesso in cui la sto vivendo: ho un bagaglio di ore vissute che posso raccontare, spiegare e ricordare. Ma la ventiquattresima ora è anche quella in cui ti dicono che hai due ore per presentare un pezzo a Sanremo prima che a mezzanotte scadano i termini per farlo. E, quindi, corri, sbrighi, fai e ti organizzi in modo tale da esser pronta per quell’ora. Nella nostra vita, è tutto una ventiquattresima ora, anche quando corri per andare a prendere a scuola tua figlia per evitare che la lascino fuori sotto la pioggia… la ventiquattresima ora non altro che un momento che può essere cruciale per il cambiamento della tua vita e per il quale devi decidere tu se e come giocare quel match.

Le partite prevedono due modalità di gioco: attacco o difesa. Il tuo ruolo?

Ho sempre giocato in attacco ma a me stessa e alle cose che dovevo fare, sempre in modo proattivo e creativo, mai in modalità oppositiva o marziale da guerriera bellicosa. Al conflitto, preferisco l’azione, la voglia di creare idee, spesso anche in squadra. Ultimamente, mi sono trovata a lavorare in team e non c’è nulla di più bello e stimolante del condividere con gli altri anche quando la si pensa diversamente: è dal match e dal mix che nascono le idee migliori, che coinvolgono tutti i cuori e tutte le sensibilità, un pensiero unico in cui tutti si ritrovano dentro.

Un grosso successo commerciale è una ventitreesima o una ventiquattresima ora?

Una ventitreesima ora perché è un successo, una cosa accaduta che, proprio perché già in essere, ti richiama a fare altro. Non dormo sugli allori e non mi rilasso, anche se me la godo, la riconosco e ne sono grata. Come nel caso di A casa di Luca: è una canzone che canto sempre con grande amore ma che mi imprime un nuovo incipit, una nuova esigenza di fare altro e generare quella ventiquattresima ora…

Se l’artista fosse sazio delle sue 23 ore, non scriverebbe più, non avrebbe più quel moto nell’animo di creare, di provare emozioni e di trasmetterle. Qualcosa che invece da tempo provo a fare con varie modalità di espressione come la radio, il teatro o un libro, tutte valide. Qualsiasi sia il mezzo, il punto di caduta è sempre il dare e il ricevere dalla gente in uno scambio meraviglioso.

L’hai citata: A casa di Luca, una canzone che in qualche modo ha anticipato i tempi e ciò che sarebbe successo oggi.

Un po’ come Video killed the radio star fotografava un passaggio ben preciso in un’epoca in cui la tv si apprestava a soppiantare la radio, A casa di Luca parlava dell’era delle immagini, dove per immagine intendiamo la televisione, Instagram ma anche l’intelligenza artificiale. Ora come allora il senso della canzone era ed è chiaro: se siamo soltanto esteriorità, non abbiamo un mondo interiore e al primo momento di solitudine non ce la facciamo.

Ed è da ciò che poi derivano le depressioni e le grandi solitudini di oggi: l’incapacità di superare se stessi fa sì che ci si aggrovigli e si rimanga spesso prigionieri sempre di se stessi, senza sapere come affrontare il domani. Ci si sentiamo tutti piccoli e, quindi, cadiamo in tante tentazioni: le nostre debolezze ci portano dipendenze… Al contrario di quanto accadeva a casa di Luca: zero dipendenze, zero solitudine, zero artificio. Bastava la semplicità di una chitarra, di un bicchiere di vino, di un piatto di pasta, di una vista mare meravigliosa e di un gruppo di amici che poteva anche stare in silenzio ma star bene.

Nella tua risposta, citi una parola che spesso solo a pronunciarla fa paura: depressione. Mai conosciuta?

Non saprei. Il cliché vuole artista in sofferenza per poter scrivere canzoni e può anche essere in parte vero: è l’emozione profonda che porta a scrivere, a mettersi al pianoforte e a tirar fuori delle cose che poi diventano eterne e di tutti. Si parte sempre dalle grandi profondità per arrivare alla superficie ma, molto onestamente, non mi potrei permettere la depressione: tutti i giorni, una vita impegnata di madre e di professionista mi impone a calci nel sedere di alzarmi e di reagire.

Credo, tuttavia, che esistano due forme di depressione: quella organica, per cui hai bisogno di un sostegno effettivo da parte di medici, farmaci e terapie, e quella che devi superare da solo, il cosiddetto mal di vivere ovvero quell’incapacità di affrontare il tutto che nasce dentro di noi. E la seconda dipende da come si affronta la vita e dalle forza che si ha dentro.

Alla nascita, sono stata fornita di strumenti potentissimi legati alla mia condizione di famiglia colpita dal lutto per la perdita di mia sorella. Sono nata combattente, dovevo affrontare la vita e non potevo fermarmi, altrimenti sarei stata risucchiata dentro un buco nero. Ciò mi ha dato una grande capacità di reazione… capisco chi vive la depressione perché non ha quello strumento per trovare dentro di sé quella forza da tirare fuori e superarsi: ha tutta la mia comprensione.

E l’altra parola chiave venuta fuori è solitudine. L’hai avvertita in qualche momento?

Sì, ma perché è uno stato d’animo individuale. Reale o metafisico che sia, è uno stato nostro. Tuttora, quando ho un momento di sconforto o solitudine, mi metto a cucinare. Non mi riferisco alla solitudine derivante dall’assenza di compagnia ma a quella in cui il tuo animo è lasciato solo a se stesso, facendoti sentire solo con i tuoi problemi e i tuoi macigni sulle spalle, pensando di non farcela e che nessuno ti possa salvare. Ed è in quei casi che occorre capire dov’è la via d’uscita, trovarsi degli impegni e cercare nuovi slanci per un nuovo inizio: la ventiquattresima ora anziché il buco nero della depressione.

Silvia Salemi (Foto: Alek Pierre).
Silvia Salemi (Foto: Alek Pierre).

In ambito professione, sei mai stata lasciata sola in qualche modo?

Credo di no. Ma è anche vero che, quando mi sono ritirata per qualche anno per dedicarmi alle mie figlie, il mio team e il mio gruppo di lavoro di allora non hanno capito la mia scelta. Lo hanno ritenuto un gesto “brutto”: lasciavo tutti per andare a fare la madre, una cosa nobilissima ma che gettava loro nello sconforto annullando tournée e uscite. Lo hanno visto come un mio “negarmi” al mondo della musica ma per il mio carattere e la mia essenza non potevo fare diversamente: avrei tradito me stessa se avessi continuato a fare il mio lavoro allegramente lasciando le figlie crescere con una tata o la nonna. Non sarei stata Silvia e sarei stata infelice.

Dipendeva anche dalla tua esperienza personale di crescita il voler stare al fianco loro?

Volevo stare insieme a loro, abbracciarle, baciarle, annusarle, vestirle, comprar loro i vestiti, farle mangiare bene, portarle in palestra o a nuoto, prenderle da scuola… in questo, sono molto lupa protettrice: le mie due figlie direbbero che sono rompiscatole. Per come la penso io, la madre è la protettrice di alcuni valori che può trasmettere con la presenza ai figli, soprattutto quando sono molto piccoli. Capisco però anche le madri che non possono farlo e me ne dispiaccio perché spesso sono costrette a negarsi per condizioni economiche difficili che le obbligano a lavorare, privandole della felicità di vedere la pappa, il sonno o il primo dentino del figlio.

Definendoti “rompiscatole” hai fatto la felicità delle tue figlie…

Ma loro sono più rompiscatole di me (ride, ndr). Siamo come tre matrioske: spesso mi rimproverano ad esempio di avere dei difetti (come la fissazione per un certo ordine in bagno) quando poi loro replicano esattamente ciò che sono io: in pratica, ho creato due mostri! Lo dico ridendo ma è chiaro che mi interessava dare loro un piccolo solco da seguire, lasciandole comunque libere di fare ciò che vogliono e di operare le loro scelte in piena autonomia. Credo che il solco sia importante, spetta poi ai figli decidere se starci dentro o lasciarlo: tutti quei ragazzi che oggi si sentono smarriti lo sono anche perché non hanno avuto un solco, una prima lettera da cui partire per costruire un proprio alfabeto.

È l’importanza della cosiddetta socializzazione primaria: famiglia e scuola.

Esatto, di un’educazione classica in senso stretta. Mia madre mi ripeteva sempre che essere diplomati ad esempio al liceo classico faceva la differenza. Lì per lì non capivo ma oggi mi rendo conto che quella formazione classica mi ha dato una forma mentis utile a far ragionamenti che oggi non si fanno più: abituati a mettere flag o a cercare la risposta giusta tra le possibili, i ragazzi hanno un’educazione quasi anglosassone che non stimola più il pensiero o la riflessione. Sono pieni di nozioni ma senza un’elaborazione delle stesse. Fortunatamente, leggo che nella Silicon Valley si stanno riscoprendo cultura classica e scienze umanistiche: pare che interessi nuovamente il pensiero.

Tant’è che nel 2009 ti laurei in Lettere e Filosofia. Cosa ti ha spinta a concludere gli studi accademici?

Sono tanti i motivi, a partire da uno infantile: al liceo mi era stato detto a chiare lettere che, facendo il lavoro di cantante, non avrei mai avuto un pezzo di carta in mano e non sarei mai stata una persona completa e concreta. Avevo risposto che sarei invece andata a Sanremo e che mi sarei anche presa una laurea. E così ho fatto: è stata, prima di tutto, una sfida con me stessa, una reazione adolescenziale che mi ha poi spinta a laurearmi con 110 e lode con due figli a casa e, quindi, da madre e moglie.

Lo spessore culturale che ti può dare una preparazione umanistica è qualcosa che ti porti dietro anche quando rispondi alle domande per un’intervista, scrivi un nuovo format o fai un concerto: puoi usare la parolaccia così come il termine aulico per esprimere un concetto sensato. Non è un caso che ci siano tanti artisti, non solo cantanti, che hanno anche una laurea: è la preparazione che permette poi anche di “abbassare” il livello per darsi alla leggerezza e alla giocosità. Sono convinta che quando una persona è preparata, si avverte e a ciò non potevo mai rinunciare.

Come hai educato le tue figlie alla diversità?

Con dolcezza, senza imporre dei messaggi ma invitandole a capire, ad assecondare e a mettersi nei panni dell’altro semplicemente con l’osservazione. Se osserviamo una persona con una disabilità, ad esempio, prima della sua “diversità” deve arrivarci la forza e l’essenza. Chi viene considerato diverso è qualcuno da ammirare ed emulare nella sua potenza. Faccio un esempio pratico: ho una collega e carissima amica non vedente che si chiama Annalisa Minetti: trovo che sia una portatrice di valori, di potenza e di messaggi che neanche le parole possono spiegare. Quando vedo lei che corre, che canta o che fa da madre con destrezza e naturalezza, mi rendo conto di come la diversità non vada solo onorata e rispettata ma anche emulata nella sua forza.

Quand’ero piccola e frequentavo scuola, ero sempre nella cosiddetta ‘sezione degli sfigati’. Appartenendo a una famiglia semplice di persone che mi dicevano che dovevo farcela da sola, non godevo di raccomandazioni e sono finita sia alle elementari sia alle medie nella famigerata sezione G, quella che nel nostro paese, Palazzolo Acreide, era considerata per alunni ‘difficili’ che andavano aiutati oltre che istruiti. Ciò ha finito per formarmi tantissimo: ho potuto imparare dalle loro difficoltà, dal modo in cui apprendevano e da come si relazionavano alla vita mettendomi nei loro panni. Ho dunque provato a entrare nella diversità e a viverla non a contrastarla.

Chi siamo noi per dire ‘Tu sei diverso, io sono quello giusto e tu sei quello sbagliato’? Cos'è diverso, cosa è normale? Chi ha stabilito il prototipo corretto? Siamo tutti diversi… anzi, chi riesce a fare con una sola mano ciò che chi è considerato “normale” fa con due merita i veri applausi. La diversità non dovrebbe essere un meno ma un valore aggiunto.

Animali umani, uno dei tuoi ultimi singoli, affronta un tema abbastanza doloroso: la violenza contro le donne.

Un cantante, quasi come un aedo, si deve occupare di certi temi, soprattutto quando sono completamente pervasivi della società e non sono stati risolti. E c’è una grande amarezza di fondo nel farlo: se qualcosa arriva a noi musicisti, cantanti, cantautori e artisti, vuol dire che le istituzioni hanno fallito.

Assistiamo tutti giorni a casi di donne uccise per mano di un uomo e non si può rimanere inermi a guardare: proverei un senso di inutilità e di inadeguatezza a non occuparmene. Non posso cantare soltanto di sole, mare, amore, stella e luna senza mai dire una parola sulle mie amatissime donne, le nostre madri che vengono assassinate perché, prima di essere le compagne di quegli uomini che le uccidono, sono potenziali madri.

Chiederei agli uomini se violenti se ucciderebbero mai la loro madre: alcuni forse sì, lo farebbero, ma la maggior parte per istinto sarebbe portato a rispondere che non si tocca chi ha dato loro la vita. Le donne sono portatrici di vita e come tali vanno accarezzate e amate. Si può discutere con una donna e confrontarsi ma mai ricorrere alla violenza. Ed è un discorso che vale anche a parti inverse, non voglio necessariamente stigmatizzare il maschio ed elevare la femmina a simbolo di perfezione.

È giusto il confronto ma non è mai accettabile la violenza…

In molti, invitano le donne a fuggire al primo schiaffo. Io sostengo che dovrebbero farlo prima: “Stai zitta” è già una frase non tollerabile. Si può dire e fare tutto con amore, con dolcezza e con concordia, camminando mano nella mano. Stiamo quindi molto attente alle famose bandierine rosse, ai segnali d’allarme che si accendono e che dovrebbero spingere a creare confini. E per confine intendo possibilmente anche il crearsi una capacità economica che permetta loro di non dipendere dall’uomo e dalla sua mente per cui il controllo e il dominio passano anche da quella.

Che c’è un’emergenza è palese, con un tessuto sociale che resta drammaticamente silente e omertoso, soprattutto nei piccoli centri in cui, nonostante i segnali, ci si gira dall’altra parte per farsi gli affari propri. Se determinate situazioni fossero invece registrate, denunciate, dichiarate e condannate a livello sociale, la persona in questione ci penserebbe due volte prima di mettere in atto determinati comportamenti proprio perché in quel contesto deve viverci.

Dal punto di vista del benessere mentale, il successo di A casa di Luca, arrivato quando eri ancora un’adolescente, ti ha caricato di aspettative?

È successo esattamente il contrario: è stato talmente inaspettato che mi ha stupito e cambiato la vita. Vivevo di entusiasmo e di esaltazioni, tutti i giorni c’erano soprese e novità. È chiaro che quando ci sono aspettative tradite stai male ma in quel caso le aspettative andavano tutte in positivo, mi sentivo veramente fortunata perché nulla mi era dovuto. Mi pesava semmai l’essere ancora una ragazzina di diciotto anni che doveva ancora concludere il liceo e mi chiedevo cosa ci sarebbe stato dopo: non capivo l’impatto e lo vedevo tutto addosso a me.

A Sanremo sei poi tornata negli anni dopo. È ancora una partita aperta per te quella con il festival?

Ho grande stima di Sanremo. Credo che sia il palco della consacrazione per ogni artista ma anche quello in cui ci può anche far molto male, ragione per cui va sempre preso con molta attenzione, a piccole dosi e con la consapevolezza che si può andare su o giù nell’arco dei minuti di una canzone. Andare al festival è un passaggio fondamentale per un artista, una sorta di laurea: non a caso, negli ultimi anni, anche artisti che contano milioni di streaming e raccolgono centinaia di migliaia di persone a pagamento nei loro concerti passano comunque dall’Ariston.

Per me, non è una partita né aperta né chiusa. Adoro quel posto ma non mi presento ogni anno proprio perché c’è stato negli ultimi anni sempre un impegno a più lunga scadenza con cui fare i conti: la radio oggi (conduce Avanti tutta su Rai Isoradio, ndr) come il teatro in passato. Quindi, alla fine è un po’ colpa mia se non ci sono più tornata dall’ultima volta.

Silvia Salemi (Foto: Alex Pierre).
Silvia Salemi (Foto: Alex Pierre).

La radio: cosa ti dà?

Intanto, mi restituisce in contatto con il pubblico da una postazione diversa da quella del protagonista. Mi fa sorridere chi pensa che il conduttore sia il protagonista: non lo è perché conduce, prende per mano qualcun altro facendo un passo indietro, a differenza del cantante che solitamente è il frontman di tutta una situazione scenica e sempre al centro dello storytelling.

Per me, abituata al palco o allo stare al centro dell’attenzione, rappresenta una bella sfida, che mi permette anche di sviluppare una certa empatia nel mettermi nei panni degli altri: sarà che determinate sensazione le ho vissute e ciò mi permette di proiettare le cose o di porre le domande in maniera diversa.

Si dice sempre che la radio restituisca libertà. Quand’è stata la prima volta nella tua vita in cui ti sei sentita libera?

Credo mai: sono sempre astratta dal senso di responsabilità dato dal dover fare qualcosa. Non rimando mai nulla e di conseguenza mi ritrovo sempre a inseguire le cose. La considero quasi una forma di schiavitù… Ma, se per libertà intendiamo l’essere e l’esprimere se stessi, quando salgo su un palco sono libera. Direi che vivo una libertà semi-condizionata, con il braccialetto elettronico che mi geolocalizza!

 L’impegno, purtroppo, non rende mai liberi e io sono una ragazza responsabile da quando avevo nove anni: mia madre lavorava, per cui in casa cucinavo e sistemavo tutto sebbene frequentassi ancora la quarta elementare. Libera dunque mai dalla responsabilità, anche se non c’era nessuno che mi imponeva cosa fare: era la mia formazione caratteriale che mi portava a fare ciò che facevo. Se vogliamo, esprimevo la mia libertà nell’assecondare il mio carattere.

Rimpianti per essere cresciuta in fretta?

Probabilmente, sì. E infatti ho voluto che le mie figlie fossero il più lineare possibile all’età che avevano, provando a non farle sconfinare verso una diversa.

Silvia Salemi (Foto: Sara Galimberti).
Silvia Salemi (Foto: Sara Galimberti).
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