Simona Molinari ha appena pubblicato il suo nuovo album dal titolo Hasta siempre Mercedes, in cui rende omaggio a una delle artiste più influenti e simboliche di tutta l’America Latina, Mercedes Sosa. Insignita della Targa Tenco come miglior interprete per l’album Petali, Simona Molinari è a oggi una delle cantautrici pop-jazz di spicco nel panorama musicale italiano e, incontrandola, capisci subito perché.
Nel corso di quest’intervista in esclusiva, Simona Molinari sa ad esempio come dosare le parole e quale significato a esse attribuire e non possiamo che concordare con lei. Non è un caso, ad esempio, se per Hasta siempre Mercedes utilizziamo il verbo “pubblicare”: si tratta infatti di uno di quei pochi progetti che, rifuggendo a ogni politica di musica fluida, è stato pubblicato solo su supporto fisico. Il disco non si trova dunque sulle piattaforme digitali ma è possibile acquistarlo sullo store della sua etichetta, la BMG.
Le undici tracce che compongono il lavoro di Simona Molinari sono ispirate all’opera teatrale El Pelusa y la Negra, una storia “cantata” di Mercedes Sosa e Diego Armando Maradona, creata dal poeta, drammaturgo, sceneggiatore e regista Cosimo Damiano Damato, e pescano nel vasto repertorio dell’artista argentina, tra classici argentini e riferimenti a Napoli (“Caruso, una canzone che Mercedes cantava spesso”). Ma non solo: Simona Molinari si fa accompagnare da due colleghi come Tosca e Paolo Fresu e propone anche un brano inedito, Nu fil’ e voce (composto da Bungaro e Rakele), arricchendo l’omaggio alla cantante che è diventata simbolo della sua terra e della lotta per la pace e i diritti civili contro la dittatura.
Ed è proprio dai diritti civili e dalla parità di genere che cominciamo la nostra chiacchierata con Simona Molinari, chiamata qualche anno fa a dover scegliere tra il divenire madre e il continuare la sua carriera di cantante. Senza rinunce, ha scelto entrambe le opzioni, contro chi invece voleva “preservare la sua immagine”. Per chi volesse vedere El Pelusa y la Negra e assistere dal vivo alla straordinaria prova di Simona Molinari, questi i prossimi appuntamenti in teatro: 15 dicembre 2023, Ostuni (BR), Palazzo Roma Cinema Teatro; 28 marzo 2024, Milano, Teatro Carcano; 18 maggio 2024, Roma, Auditorium Parco della Musica, Sala Petrassi.
Intervista esclusiva a Simona Molinari
Mercedes Sosa, oltre a essere stata una delle cantanti più note d’Argentina, è stata anche un’attivista che si è battuta per i diritti civili nel suo Paese e non solo. si è ritrovata spesso nella condizione di dover scegliere, qualcosa che risuona anche nella tua vita quando in un momento particolare del tuo percorso sei diventata madre e la tua ex casa discografica ti ha fatto quasi capire che non era il caso di continuare la vostra collaborazione. Riflettendoci e pensando anche a grandi nomi della musica italiana, sono diverse le cantanti che non sono mai diventate madri. Curioso come dato.
Curioso ma vuol dire tanto. Il mestiere di cantante di prende tanto e l’immagine della mamma è purtroppo poco cool e poco alla moda. Diventare madre non vieterebbe di lavorare ma causerebbe un problema di immagine. Quand’ero molto più giovane io, alle cantanti donne veniva richiesto di trasmettere un’immagine, comunque, erotica. Anche oggi tale connotazione è presente ma fortunatamente si comincia a parlare anche di pensieri e punti di vista di una donna, non più solo oggetto del desiderio maschile ma anche veicolo di contenuti. Trovo ad esempio interessante l’esempio di Levante: ai miei anni era impossibile fare quello che ha fatto lei, dimostrando che non si parla soltanto con un corpo ma anche attraverso le proprie idee.
Tra i brani cantati da Mercedes Sosa che hai scelto di reinterpretare per il tuo disco c’è anche Gracias a la vida. Il grazie alla vita di cui si canta non è un semplice grazie ma cela dietro tanti diversi significati.
È un grazie alla vita che è stato scritto da Violeta Parra un anno prima che si togliesse la vita. Ha un valore enorme perché ringraziava la vita per le cose semplici che sa offrirci e con cui nasciamo già, cose che non possiamo dare per scontato e che per il popolo argentino non sono state così scontate per un lungo periodo di tempo, così come non lo sono oggi per il popolo ucraino o per il popolo palestinese.
È incredibile come certi corsi e ricorsi storici stiano negli ultimi tempi prendendo il sopravvento: basti vedere anche il risultato delle ultime elezioni argentine. La tecnologia è stata ed è in grado di traghettarci verso il futuro ma nessuno si è preoccupato di far evolvere allo stesso modo l’umanità. Scienza e progresso hanno fatto passi da giganti ma la stessa intensità non è stata riservata alla parte culturale e umana dell’uomo. abbiamo quindi emozioni paleolitiche, istituzioni medievali e tecnologie futuristiche, come scriveva il biologo E.O. Wilson, ma se non impariamo a gestire le emozioni il rischio è quello di usare le armi per autodistruggerci.
La prevaricazione porterà alla morte stessa dell’umanità. L’evoluzione naturale ci porta a pensare che sopravviverà solo il più forte e quindi tendiamo a prevaricare l’altro, nessuno di noi è disposto a rinunciare a un privilegio per crescere tutti insieme allo stesso modo. È sconveniente farlo ma sarebbe quello che renderebbe diversi dalle bestie. Continuando così invece finirà che sopravviverà il più forte ma distruggerà tutto quanto: cosa rimarrà intorno a lui? Cosa se ne farà se non è rimasto nulla? Cosa lascerà a chi arriverà dopo di lui? È un’idea che ritorna anche nella musica e nell’attivismo di Mercedes Sosa. Tutto il suo pensiero era incentrato sul “rimaniamo umani”.
Come hai scelto le canzoni di Mercedes Sosa che sono presenti nel tuo album?
Tra il suo sterminato catalogo, ho scelto quelle che risuonavano più attuali. Todo cambia, ad esempio, ha un testo che sembra scritto oggi. “Cambiano il clima, il mondo di pensare e le persone ma non cambia l’amore per il mio popolo e quindi per l’umanità”, scriveva in un momento in cui era esule per ragioni politiche.
Nonostante gli ostacoli che la vita ti ha posto davanti, non è nel tuo caso cambiato l’amore per la musica, che ti accompagna sin da quando hai otto anni.
Il segreto della felicità per me è custodire sempre l’entusiasmo, il sogno e l’amore che si prova per qualcosa. Nel mio caso, questo qualcosa è la musica: dura nel tempo e mi mantiene viva, facendo sì che mi svegli ancora con il desiderio di costruire e di progettare. Mi dà gioia ma richiede allenamento. È un po’ come quando vai in palestra: se molli un giorno è finita. È il perseverare che ti porta a star bene e ti dà felicità a rilascio prolungato.
Uno dei pochi casi in cui il perseverare non è diabolico.
Perseverare nell’amare qualcosa da fare non lo è mai stato, soprattutto se torni su quel qualcosa per cercare di renderlo migliore ogni giorno. Quel qualcosa è generativo sempre di nuovi progetti e di nuovi sogni. È l’autodeterminazione che ti fa rimanere agganciato ai tuoi desideri profondi nel momento in cui, scrollando lo smartphone, chiunque cerca di importene qualcuno di nuovo che fa comodo ai venditori. È difficilissimo riuscirci ma è fondamentale... è molto complicato farlo soprattutto quando non si conosce se stessi: restare agganciato a ciò che sei ti richiederà di fare delle scelte che, seppur sconvenenti, ti daranno gioia e felicità. Non tutto ciò che fa bene è sconveniente ma di sicuro tutto ciò che conviene tende a portarti lontano da te.
Quanto lavoro serve per conoscersi?
Più che lavoro serve tanta ricerca e tanta forza per custodire la propria passione. Nel mio caso, è un lavoro che ho fatto per prima sulla mia carne in maniera, appunto, sconveniente.
Sei cresciuta a L’Aquila ma sei nata a Napoli. Hai subito anche tu il fascino di Maradona?
Sono nata dopo che era finita la grande epopea di Maradona ma l’eco della sua figura e di ciò che ha rappresentato per la città è sopraggiunta fino a me. Ha ispirato il senso di rivalsa e riuscita nei napoletani, riaccendendo la speranza nei napoletani, in cui si riconosceva. Alcune esistenze, come la sua, vanno al di là anche delle stesse debolezze che nei fatti ha poi dimostrato di avere. Curiosamente tra lui e Mercedes Sosa ci sono molti punti in comune: Mercedes ha vissuto ad esempio gli ultimi della sua vita in depressione, lui invece in preda alle sostanze stupefacenti.
L’uno aveva poi il suo punto di forza nei piedi e l’altra nella voce, elementi che hanno rappresentato ispirazione per interi popoli e che hanno generato, appunto, speranza lottando (forse inconsapevolmente nel caso di Maradona) contro il disincanto. Non deve comunque essere stato facile “essere Maradona”: il problema dell’uomo rimane sempre l’idealizzazione che ti porta a fare scelte… sconvenienti. Anche lui, però, come Mercedes è sempre stato dalla parte del popolo e mai del potere.
Com’è stato crescere lontano dalla tua città?
Sono nata nel quartiere Pignasecca, che quarant’anni fa non era la zona turistica di Napoli che è oggi. Ho avuto la fortuna di avere due genitori che hanno voluto emanciparsi grazie alla cultura: hanno studiato e, a un certo punto, hanno ritenuto giusto portare noi figli a crescere altrove per darci qualche possibilità in più. Ci siamo dunque ritrovati in una città completamente diversa e non a contatto con realtà molto difficili. Mi sono sempre chiesta chissà come sarebbe andata la mia vita se fossi cresciuta nel quartiere in cui sono nata, come avrei vissuto e che direzione avrei preso.
Negli anni, dopo il terremoto, sono andata via anche da L’Aquila. Curiosamente, mi sono sempre lasciata alle spalle delle situazioni di grande disagio: con le dovute differenze, come Mercedes Sosa anch’io mi sono sentita per certi versi in esilio. Mi commuove sempre pensarci: mi porto dentro fisso il dolore per la gente e delle città che ho dovuto lasciare… non ero in esilio ma ho lasciato nel secondo caso una città distrutta e nel primo, da bambina, tutti i miei parenti, la mia famiglia e il calore di una città come Napoli, dove chissà avrei potuto avere un percorso altrettanto bello.
Tutto sarebbe dipeso sempre dalla cultura: è quella che ci dà la possibilità di emanciparci, di capire, di comprendere il mondo e di scegliere da che parte stare. È grazie ai libri che nasce il pensiero critico ma chiaramente bisogna avere la possibilità di accedervi, una possibilità legata alla famiglia, al posto e al momento in cui nasci.
Chi più ha, ha il compito anche di distribuire e ricordare anche a chi non ha: purtroppo, ci siamo dimenticati dell’idea di condivisione, anche delle esperienze. Dipendiamo ormai tutti dalla cultura dei numeri, che nulla ha a che spartire con la cultura che ci permette di capire chi siamo. Oggi hanno voce in capitolo solo coloro che hanno certi numeri ma il paradosso spesso è che, dopo aver raggiunto i numeri, non hanno nulla da dire o non se ne ricordano nemmeno. A fine percorso, a fine vita, non verrà chiesto quanti numeri avevamo sui social ma cosa abbiamo seminato intorno al metro quadro che ci circonda: bellezza o violenza?
Al cinema sei stata protagonista del film C’è tempo di Walter Veltroni e ora in teatro sei protagonista dello spettacolo El pelusa y la negra. Cosa ti dà la recitazione in più rispetto alla musica?
Per me, la recitazione è sempre stata una terza parte fondamentale della mia vita. Sono una persona molto timida, ragione per cui per me è sempre stato più semplice nascondermi dietro un personaggio: solo negli ultimi anni ho cominciato a lavorare su questo mio lato… Nel raccontare ciò che volevo raccontare mi nascondevo dietro una specie di maschera, soprattutto negli anni della giovinezza.
Quando ho esordito, raccontavo ciò che volevo celandomi dietro ritmi divertenti e una certa ironia per rispondere a quella leggerezza che veniva richiesta a noi donne. Era un po’ come se mi calassi nei panni del personaggio “cantante” prima di entrare in scena. Negli ultimi anni, invece, ho fatto un lavoro di repulisti ed è finalmente venuto fuori chi ero grazie al pensiero di poter entrare nei panni di qualcuno per poter essere vera. Sembra un paradosso ma mi aiuta tantissimo. Entro, ad esempio, nei panni di Mercedes in teatro per dire cose che appartengo a me ma che avrei difficoltà e pudore a dire in prima persona.
Ho sempre amato il teatro, anche da spettatrice. Mi piacciono molto i monologhi: nascondono sempre qualcosa anche di filosofico che ti spinge a pensare. Sono del resto un’amante delle parole e le parole sono importanti quando sono belle: si sedimentano, ti entrano dentro nei giorni e producono pensieri nuovi, diversi da quelli che faresti da solo. Le parole sono un arricchimento, un nutrimento per tutta l’arte. Ricordiamoci che l’arte, quando è concepita in quanto tale e non come intrattenimento, ha il compito di far germogliare in te cose che sì, sono tue, ma che tu non sei ancora consapevole di avere.
Le parole sono importanti, come direbbe Nanni Moretti…
Noi siamo i nostri pensieri, sostiene Galimberti, ma possiamo pensare solo in base alle parole che abbiamo per farlo. Riflettiamo su tutti neologismi che abbiamo imparato a usare, come ad esempio catcalling. All’inizio, mi faceva sorridere ma poi ha talmente germogliato in me da farmi ricordare la paura che avevo ogni volta che qualcuno mi fischiava dietro dai miei 14 ai 25 anni di età. L’aver coniato la parola mi ha permesso di dare un nome alla paura che avevo, di collocarla da qualche parte nella mia percezione e di elaborarci dei pensieri sopra.
Ce ne sono tantissime di parole nuove: manipolazione, educazione affettiva, femminicidio… fino a quando non esistevano le parole stesse, paradossalmente negavamo l’esistenza di qualcosa che nei fatti esisteva, mancava il contenitore per racchiuderla… Se oggi si desse il giusto valore alle parole, anche sottoforma di contenuto artistico, non si divulgherebbe tutto ciò che invece si divulga, a cominciare dalla violenza: ci vorrebbe un richiamo al pensiero critico prima di diffondere qualsiasi cosa.
Ci dovrebbe pensare chiunque fa cultura: anche i miei colleghi dovrebbero mettersi una mano sulla coscienza e riflettere sulle persone a cui si rivolgono. A un bambino di dieci anni non puoi far arrivare certi messaggi: non ha gli strumenti per classificare l’arte e si convince che ciò che ascolta, soprattutto la violenza, è realtà e in tale la trasforma. Si è minimizzato il valore culturale dell’arte in generale e quanto questa contribuisca a formare i giovanissimi dai 10 ai 14 anni.