Per metà astigiano e metà siciliano, Simone Coppo è stato di recente tra i protagonisti della serie tv di Rai 2 Il giro del mondo in 80 giorni, in cui interpreta il capotreno Marco. Quasi per ironia della sorte, il titolo della serie tv riassume un po’ la vita dello stesso Simone Coppo, che non avrà impiegato 80 giorni per girare il mondo ma che nel suo piccolo ci è riuscito.
Sin dalla nascita, le parole “movimento” e “confini” hanno accompagnato quella che Simone Coppo definisce essere una vita “piratesca”, fatta di avventure in mare, giuste sfortune e porti in cui attraccare. Quali siano le giuste sfortune sarà lui stesso a raccontarcele. Noi conosciamo le giuste fortune, quelle che lo hanno visto ad esempio per tre stagioni protagonista della serie tv (svedese) The Restaurant, nel cast di un film di successo come Dalla paura all’amore o recitare a fianco di Mark Ruffalo nella serie tv Un volto, due destini.
Sul set della prossima serie tv di Daniele Luchetti per Rai 1, Simone Coppo ha alle spalle tanto teatro, a cui ovviamente accenneremo durante la nostra conversazione. E non potremo fare diversamente dal momento che è stato il narratore dell’ultima opera scritta dal premio Nobel Dario Fo con Franca Rame, Storia di Qu.
Intervista esclusiva a Simone Coppo
“Sono in movimento”, mi risponde Simone Coppo quando gli chiedo come sta. “Il movimento in generale è una costante della mia vita”. E ha ragione nell’affermarlo perché è sin dalla nascita che Simone Coppo è in movimento. Del resto, la sua è una storia personale fatta di una famiglia di viaggiatori: “L’appartenenza geografica è un concetto abbastanza astratto per me: da piccolo sono cresciuto in Brasile ma ho anche una connessione fortissima con la Sicilia sia per un fattore genetico (mia madre è siciliana) sia perché l’ho vissuta tantissimo da quando sono nato fino a ora (continuo ancora a esplorarla”, mi rivela quando scopre che anch’io sono siciliano. “L’altra mia metà è invece piemontese, monferrina nello specifico”.
Nella serie tv di Rai 2 Il giro del mondo in 80 giorni, andata in onda con successo durante le festività natalizie, Simone Coppo interpretava Marco, il capotreno che Fogg incontrava in Italia nel suo viaggio fino in Puglia. “Tornano ancora una volta il movimento e il viaggio, qualcosa con cui ho a che fare sin dalla nascita: stavo per venire a mondo a bordo di un aereo".
"In quel momento, tutta la mia famiglia era in Brasile ma mia madre stava rientrando in Italia… sarà anche per questo che ho sempre sentito forte il tema dello “straniero” in senso lato: non a caso Lo straniero di Camus è uno dei miei libri preferiti. Nelle mie conversazioni con gli altri, non chiedo mai di dove sei ma di dove ti senti: è una conseguenza dell’aver vissuto la vita in maniera piratesca. E la risposta può cambiare nel tempo: ci sono momenti in cui ci si sente di un luogo e altri di un altro. Sono però convinto che racconti molto più del di dove sei”.
Già dal primo scambio di battute è chiaro che quella con Simone Coppo sarà una conversazione felicemente impegnativa. “Ero a ridosso della mia entrata in scena quando mia madre decise di farmi nascere in Italia”, mi specifica quando torno sulla sua venuta al mondo, “ma sono poi tornato in Brasile, dove ho vissuto la mia infanzia. Ho rischiato di nascere apolide: ecco perché trovo veramente molto relativa tutta l’angoscia che si vive oggi per i confini geografici”.
Il giro del mondo in 80 giorni va ben oltre i confini geografici.
In Italia, è arrivata la versione doppiata ma è stata girata interamente in inglese e letteralmente in giro per il mondo con un cast composto da attori di varie origini, ognuno con il suo bagaglio culturale che solitamente veniva fuori nelle cene, tra un antipasto e un primo. Tra l’altro, è stata girata nel 2020 in piena epoca Covid quando i confini geografici erano diventati per tutti confini casalinghi. Vivevamo una sorta di contrasto fortissimo: ricordo gli aeroporti totalmente isolati e presidiati dai militari a cui dovevo mostrare le 25 pagine di protocollo per viaggiare e spiegare che stavo andando a girare Il giro del mondo in 80 giorni quando chiunque non poteva nemmeno uscire dal salotto di casa.
Credo sia stata una delle esperienze più arricchenti del mio percorso. È stata un’esperienza formativa unica il poter avere a che fare con così tante culture, lingue, colori e sfumature, attraverso il linguaggio universale del cinema.
Nella serie tv sei un capotreno. Alla luce di quello che è stato finora il tuo percorso, ti senti il guidatore del treno della tua vita o semplicemente un passeggero?
Né l’uno né l’altro. Probabilmente, la risposta sincera è che mi sono sentito come l’operaio che va letteralmente a mettere le rotaie in un posto dove ancora non ci sono. Il capotreno per viaggiare dovrebbe avere già un percorso tracciato mentre il passeggero sale a bordo su invito o con un biglietto. Nel mio caso, invece, molte delle cose che ho fatto non avevano ancora un sentiero o un pregresso.
Per come la vedo oggi, il modo migliore per analizzare il passato è pensare a come ci si sta indirizzando verso il futuro e io mi vedo come colui che mette delle rotaie dove ancora non ci sono sia da un punto di vista artistico sia da un punto di vista personale. È sempre stata questa la forza motrice che mi ha guidato: quando ho cominciato, non avevo né un treno di cui essere a capo né nessuno che si offriva di salire a bordo.
Binario ma anche strada sono termini con cui ti relazioni ben presto. I tuoi primi passi sono proprio come artista di strada.
È un’ottima osservazione, un sunto del mio percorso. Alla strada, associo sempre l’idea del mare. Lo amo alla follia forse perché l’ho vissuto sin da piccolo, da quando trascorrevo le mie lunghissime primavere in Sicilia dai nonni, e continuo a viverlo ancora oggi (negli ultimi tempi, sono andato alla scoperta delle piccole isole che circondano la regione): si può essere degli ottimi navigatori ma vince sempre il mare.
Ho avuto sin da subito la fortuna di avere delle giustissime sfortune che mi hanno portato a essere molto autonomo ed estremamente conscio di quali fossero delle dinamiche: di mio mettevo il dito per fare l’autostop ma, in quel caso, a vincere era la macchina che si fermava o no. A 14 o 15 anni proponevo le mie magie, il gioco delle tre carte, siparietti comici o spettacoli completamente improvvisati per strada di cui a volte ero attore e a volte presentatore. È stata quella più o meno la mia formazione, radicata in qualcosa di verace: l’attenzione che il pubblico doveva riservarti non era mai scontata o dovuta, dovevi guadagnartela.
Ogni volta dovevi trovare un motivo per cui far fermare un passante. È lì che si bilancia quel rapporto a volte sproporzionato tra quello che si chiede e quello che si dà al pubblico: molto spesso si richiede ammirazione o riconoscimento intellettuale dando poco in cambio. La strada ti insegna la generosità e la conservo ancora come bussola o attitudine.
Essere artisti è una forma di vita piratesca fatta di mille fattori differenti. Ci sono le competenze (mi sono state poi date dalla Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi, in cui mi sono diplomato a 21 anni) che rappresentano la conoscenza della propria nave. E ci sono le esperienze che portano a capire come funziona la nave e farla navigare sia in condizioni di tempesta sia nelle giornate di sole. Come recita un bellissimo detto tra i marinai, i migliori navigatori non sono quelli che navigano con ogni tipo di mare ma quelli che sanno quando tenere la barca in porto.
Hai quasi bruciato una seconda domanda su cosa significhi far fermare per strada qualcuno che sta andando per i fatti suoi seguendo la propria agenda.
Il passo della camminata di chi sta per recarsi al lavoro indica come non abbia nessuna voglia di essere fermato da te. Diversamente da quanto avviene in teatro o al cinema, dove si paga in anticipo un biglietto sulla fiducia, per strada il metaforico biglietto si paga solo dopo aver assistito alla performance. Tra l’altro, è un meccanismo che mi ha sempre accompagnato, se penso a quando mi sono spostato per lavoro in territori in cui non avevo necessariamente un riconoscimento.
Trasferirsi in Svezia per una serie tv come The Restaurant ha significato in qualche modo il dover ottenere la fiducia di chi non mi conosceva ancora: torna ancora una volta l’idea del pirata che conquista da solo il suo tesoro. Non scambierei mai il partire all’avventura con qualcosa di più comodo o agevolato. E il mio percorso non è stato mai né comodo né agevolato.
“Giustissime sfortune”. Definiscimile.
Non risponderò mai del tutto a questa domanda per una questione di etica: non riguarda solo me ma altre persone. Ognuno di noi ha il suo metro del dolore e ho imparato che ogni metro va rispettato: l’ho imparato vedendo da bambino la realtà delle favelas.
Credo tuttavia di aver avuto l’immensa fortuna di potermi sorprendere su cose che molto spesso vengono date per scontate ma che per me non lo erano. Giocare, mangiare o dormire al caldo quando fa freddo sono immense fortune che non ho mai dato per certe. Ma nella vita non c’è solo la tragedia: c’è anche la commedia, per me fondamentale. Se si fa arte, non ci si può dare uno spessore celebrando il proprio dolore: è eticamente sbagliato quando c’è un genocidio in corso o ci sono zone del pianeta che hanno una soglia della povertà inaccettabile, che ho visto con i miei occhi.
Su sette miliardi di esseri umani sulla Terra, mi sento iper fortunato in generale. A livello personale, per il proprio benessere, è fondamentale che ognuno faccia del proprio meglio con ciò che ha. Il partire non agevolato è stata una giusta sfortuna perché mi ha permesso di avere ben chiaro quale fosse il mio fuoco: occorre credere in sé e nella propria passione bruciante per uscire da certi contesti e affrancarsi.
Spesso l’ambiente intorno prova a convincerti che non sia possibile ma se incontrassi oggi un ragazzo di 15 o 16 anni con tutta l’onestà intellettuale possibile potrei guardarlo negli occhi e dirgli che “anche se la notte si sembra infinitamente buia, fa un freddo cane e hai male da tutte le parti, trova la forza di fare ciò che più ti piace”.
Intrecciando forza di volontà e capacità di sognare, c’è una piccola probabilità di riuscire ad accendere qualcosa. Nella mia famiglia non c’era nessuna rotaia in campo artistico ma sognavo… e lo facevo grazie all’arte o al cinema.
Sei entrato alla Paolo Grassi a diciotto anni, poco più che ragazzino.
In quel periodo, facevo il dj in un locale di dubbia moralità. Nonostante non avessi nessun parametro di confronto, sapevo che avevo un urgente bisogno di esprimermi e di raccontare. Non conoscevo neanche molto bene le forme espressive: avevo sì incontrato il cinema ma non il teatro, che solitamente quelli come me non li va a cercare (i biglietti hanno un costo assolutamente proibitivo, ragione per cui anni fa ho realizzato un festival con un biglietto a prezzo quasi politico che permetteva di vedere uno spettacolo, mangiare, bere, stare in compagnia e allargare i propri orizzonti).
Ero un malandrino assoluto e non avevo idea che esistessero le scuole d’arte drammatica fino a quando, vedendo ciò che facevo, una persona me ne ha parlato. Avevo imparato tutto ciò che sapevo da solo, dalle tantissime storie che avevo incontrato sulla strada e dalla mia apertura all’altro, e l’idea che esistessero delle scuole per quello mi sembrava quasi l’isola che non c’è. Ho accumulato quindi delle risorse e sono andato a sostenere il mio primo provino alla Grassi senza avere alle spalle nessuna formazione.
Avevo 18 anni esatti e, quando mi chiesero dopo varie selezioni perché avrebbero dovuto prendere me, risposi spavaldamente che se mi stavano porgendo quella domanda era perché, in realtà, mi avevano già preso.
Ci vuole anche una certa dose di coraggio per rispondere così a chi stava decidendo del tuo futuro.
Più che coraggio era per me sicurezza: non esisteva per me un piano B. Non mi chiedevo cosa sarebbe successo se non mi avessero selezionato: era un’ipotesi contemplabile. Chi mi ha scelto è stato in grado di cogliere la mia forza grezza, una fiamma che in quei tre anni di scuola ho avuto modo di affinare. Ma, ripeto, avevo preparato i provini senza sapere cosa fossero o che importanza avesse la scuola: non sapevo nemmeno che si esistessero così tante discipline come quelle che ho poi studiato o così tanti modi di esprimersi. È stato frequentando la scuola che ho scoperto che mi interessavano tantissime forme di espressione e non solo la recitazione: l’importante era sempre ricordarsi che il fine di ognuna è la storia.
A proposito di storie, scrivi ad esempio poesie e canzoni. Quali sono i soggetti da te preferiti?
Se dovessi trovare dei fili rossi, individuerei di certo quello del sogno, che da sempre mi accompagna. È un sogno che ha due nature. Una, estremamente sensoriale, fatta di cieli stellati, onde scintillanti, salsedine tra le labbra, odore di erba bagnata, profumo di vino o sentore di legna bruciata. E una, estremamente animalesca. Un animale che da sempre adoro è la pantera, a cui molti miei amici mi associano: comincio ad avere una casa piena di effigi, statue e disegni dell’animale… ed è un po’ strano!
Perché la pantera?
È un felino estremamente atipico. Sarebbe un leopardo ma è nero e ha una pigrizia contemplativa che ha la porta, appollaiata su un ramo, a osservare tutto il movimento della giungla intorno. E l’osservare è una mia benedettissima maledizione che mi porta ad assorbire lo spazio e le persone che mi circondano per poi restituire sotto forma di espressione ciò che elaboro. Nonostante sia un feroce predatore di grosse dimensioni, la pantera è anche molto giocherellona. E i grandi scarti accompagnano da sempre anche me: da sempre ho a che fare con due poli opposti che incontrandosi danno vita a scintille. Sarà anche per questo che, come colore, mi affascina il viola: è quello delle contraddizioni, in gradi di unire caldo e freddo, rosso e blu.
Spulciando il tuo curriculum, sono tante le esperienze professionali che saltano all’occhio. Ma mi colpisce Storia di Qu a teatro: diretto e scritto dal premio Nobel Dario Fo.
In Storia di Qu, interpretavo il narratore, metateatrale: raccontavo la storia e tutti i personaggi ma ero anche all’interno della storia stessa L’incontro con Dario Fo e osservare il suo lavoro mi ha restituito quello che è a oggi uno dei miei punti fermi: raccontare con generosità. Lui ha usato il racconto per scardinare il potere, affrontarlo e prenderlo letteralmente a schiaffi in faccia, stando sempre dalla parte del popolo e del pubblico (e, di conseguenza, anche dalla mia).
Guardandolo, mi ha dato la conferma di come occorra occuparsi di un racconto in maniera urgente, generosa e spettacolare, senza renderlo mai una noia devastante e piena di retorica didascalica. Le sue opere non avevano mai una pretesa di insegnamento ma di condivisione.
Prendere parte a quello che è stato il suo testamento artistico (Storia di Qu è l’ultimo testo che ha scritto con Franca Rame) mi ha fatto capire con il ruolo di quel narratore quanto importante sia l’equilibrio tra il dentro e il fuori la storia. Ritorna per certi versi la posizione in cui giocavo a calcio, quella del centrocampista centrale: sei un singolo ma devi avere anche visione della squadra.
Ti abbiamo visto in vari progetti internazionali, dal film Dalla paura all’amore alla serie tv Un volto, due destini. Hai mai avuto la sensazione che nel tuo caso valga quel detto per cui nessuno è profeta in casa propria?
D’impulso, ti direi di sì. Ma sarebbe una risposta falsa, dal momento che in questo periodo sto girando un’importante serie tv per Rai 1 diretta da Daniele Luchetti (Prima di noi, ndr). Lavorare con lui è strabiliante: è un regista che ha una visione nitida e specifica ma che rimane aperto all’ascolto. Di vero c’è che all’estero ho trovato maggiore apertura e grandissima curiosità, aspetti che non sempre in Italia si trovano, nonostante si abbiano dei talenti strabilianti. Lo step successivo sarebbe quello di imparare finalmente a riconoscerli…
Non parlo ovviamente di me ma basterebbe citare due nomi come Paolo Sorrentino o Paolo Conte per capire come all’estero siano stratosfericamente amati: noi, forse per retaggio esterofilo, siamo da sempre pronti a guardare fuori dai confini. Ed è un peccato perché, ripeto, l’Italia è pullulante di talenti e di calore umano.
L’Italia è sempre quel paese in cui arte, bellezza e comunità si incontrano. Siamo seduti su una miniera a cielo aperto di arte e cultura ma non ce ne rendiamo conto. E, purtroppo, anche la politica va a influenzare tante macro scelte che poi si riversano sulle produzioni e su posizioni che a volte vengono occupate in modo immeritato da chi non ha le giuste competenze. A scanso di equivoci, il mio è un discorso che non ha colore politico: non ci si rende conto che la cultura è uno strumento mediatico da cui parte consapevolezza su tematiche che sono impellenti e che non possono essere più trascurate, a partire dall’emergenza climatica.
La tua compagna è un’attrice (Eleonora De Luca, ndr). È facile far convivere in una relazione sentimentale l’ego di due attori?
Sono tanti i luoghi comuni che si tramandano sugli attori. Spesso mi sento dire che un attore è un bugiardo, notando come la menzogna sia stata un po’ additata come un male quando invece, in senso affabulatorio, è un meccanismo umano insito in tutti noi. Un bambino appena nato piange ogni volta che vuole mangiare: sa che quella recita gli farà ottenere ciò che vuole. I bugiardi o i sinceri esistono sia tra gli attori sia tra i non attori e lo stesso vale per le persone egoriferite.
Per quel che mi riguarda, essere attore (qualcosa che dirò di me solo poco prima di tirare le cuoia) comporta proprio l’assenza dell’ego. La nostra relazione è basata su quello che siamo e non su quello che facciamo: credo che debba essere la regola principale di ogni relazione. Siamo due marinai che navigherebbero felici insieme qualsiasi fosse il nostro lavoro. Ho molta stima di lei, della sua sensibilità e della sua raffinatezza nel vedere il mondo. Si sta insieme non per bisogno reciproco ma per piacere reciproco.
Il concetto di possesso è lontano da me. Oggi si parla molto di violenza sulle donne ma si dovrebbe cominciare a parlare anche di violenza degli uomini tra uomini. Spesso, il male che un uomo esercita su una donna è figlio di un’immagine pubblica che si vuole mantenere agli occhi dei consimili per questione di orgoglio maschile. Ed è ciò che porta uno schifo d’uomo a mettere in atto violenza sulle donne non è altro che conseguenza diretta della paura di tornare tra i simili e ammettere di “non avere più la sua donna”.