Nello sterminato catalogo di RaiPlay è arrivato in esclusiva Sisterhood, il bel documentario diretto da Domiziana De Fulvio che racconta di sorellanza e di equità di genere attraverso la storia di tre squadre amatoriali di basket femminile. In tre luoghi differenti del mondo – New York, Roma e Shatila – tre gruppi di donne hanno dato vita a tre team di giocatrici che, tra problemi ed esigenze differenti, hanno dimostrato come a far la differenza sia la sorellanza, la stessa che Robin Morgan definiva potente in un suo libro degli anni Settanta.
Se a New York la sorellanza passa attraverso l’esigenza di costruire una rete internazionale di confronto e solidarietà sulla condizione delle donne e delle altre soggettività oppresse, a Roma l’esigenza è ancor più femminista: non chiamateci mamme è il desiderio delle Bulle, unite per mandare un segnale politico in risposta al razzismo, al clima di violenza e oppressione, e al retaggio della cultura cattolica.
Diversa ancora è l’urgenza che muove le giovani in Libano. Sono tutte ragazze tra i 16 e i 20 anni, palestinesi, che vivono in un campo rifugiati. La loro volontà di far squadra supera ogni oppressione culturale e religiosa: per loro il basket diventa sinonimo di emancipazione e integrazione.
Oltre a raccontarlo in Sisterhood, il basket è qualcosa che Domiziana De Fulvio ha anche praticato sul campo. Classe 1983, è al suo primo importante per progetto e con lei abbiamo voluto parlarne.
“Vorrei venire a Palermo per Santa Lucia. Mi dicono che si mangi tantissimo in quel giorno, dalle arancine a quel dolce particolare. Come si chiama?”. “Cuccia”, rispondo io. Inizia così l’intervista a Domiziana De Fulvio, la regista di Sisterhood.
E, in fondo, il cibo non è tanto lontano dal suo documentario. “Ma anche a Roma si mangia tanto e bene: non è un caso che le ragazze di Roma, Le Bulle, si ritrovino spesso intorno a un tavolo, a differenza di quelle arabe o di quelle statunitensi. Il cibo fa proprio parte della nostra cultura: senza cibo e un bicchiere di vino non andiamo da nessuna parte. E allora ti è piaciuto Sisterhood?”
Rispondo sinceramente, si. Anche se, per come son fatto io, sono rimasto perplesso dal nome che si sono date le giocatrici di pallacanestro romane, le Bulle. “Lo hanno scelto in maniera ironica”, fuga subito ogni dubbio Domiziana De Fulvio sulle protagoniste romane di Sisterhood.
Intervista esclusiva a Domiziana De Fulvio
Ho avuto la percezione che Sisterhood potesse e dovesse raccontare ancora molto altro. 53 minuti sembrano pochi per affrontare i tanti temi sul piatto.
Purtroppo, ho avuto poco tempo per girare. Per me che sono donna, esordiente e documentarista, è stato un po’ difficile all’inizio portare in cantiere il progetto. Poi, ho trovato la coproduzione giusta ma c’era poco budget e quindi poco tempo a disposizione per le riprese.
Sisterhood, sorellanza. Il significato della parola viene spiegato all’inizio del film da una giocatrice newyorchese. Cos’è per te la sorellanza?
Lei spiega molto bene cosa sia. Mi sono ritrovata nelle sue parole e di fatto nel suo vissuto. Avendo avuto anch’io una cultura di strada, chiamiamola così, mi sono rivista nella sua definizione. Ho scelto Sisterhood come titolo per fondere quel tipo di cultura che mi ha formata con alcune delle teorie femministe degli anni Settanta. Sisterhood is Powerful, la sorellanza è potente, era il titolo di un libro scritto da Robin Morgan.
La sorellanza descritta da Mo all’inizio fa riferimento a quella che è la sua cultura afroamericana. Ma è anche quella su cui ho voluto far luce con il mio lavoro: la sorellanza come modello di famiglia. spesso di trovano sorelle o fratelli anche al di fuori dei vincoli di sangue o genetici. La famiglia può essere anche tutta quella comunità di persone che ci creiamo intorno e con cui stiamo bene. Non è raro che le amiche diventino come sorelle: nascono con loro relazioni profonde dettate dalle affinità, dagli interessi intellettivi e dalle lotte condivise.
In barba a tutti coloro che dichiarano che la famiglia è una sola, quella naturale. L’intento era quella di mostrare che esistono dei modelli alternativi.
E per farlo hai scelto tre luoghi completamente differenti in tre paesi del tutto diversi come gli Stati Uniti, il Libano e l’Italia. Perché proprio quei luoghi e non altri?
I luoghi sono venuti quasi per caso. Il senso di Sisterhood non è casuale ma i luoghi sì. Rappresentano tre diverse realtà femminili con cui ho avuto l’opportunità di confrontarmi anche in campo. In un primo momento, pensavo di raccontare soltanto la storia della squadra di Beirut. Avevo conosciuto le ragazze palestinesi e libanesi tramite un progetto che si chiama Basket Beats Borders di Daniele Bonifazi e David Ruggini, attivisti di Un ponte per.
Grazie al progetto, per due anni è arrivata a Roma la squadra di pallacanestro femminile palestinese. Approfondendo la conoscenza con le giovani, sono rimasta affascinata dalla loro esperienza e ho maturato l’ipotesi di raccontare le loro storie. Nel frattempo, però, ho vinto una borsa di studio che mi ha portata a New York. Ed è stato qui che ho conosciuto le Ladies Who Hoop e ho cominciato a capire che, anche a migliaia di chilometri di distanza, c’erano affinità (ma anche divergenze) tra le esperienze.
Ho cominciato allora a pensare che sarebbe stato interessante raccontare le realtà delle tre squadre per evidenziare il concetto di sorellanza. A latitudini diverse, erano nate tre differenti squadre di basket femminile che, in base alla loro culla d’origine, hanno un approccio al gioco e a determinati temi molto simile ma anche esigenze differenti.
In più ho realizzato come le tre squadre avessero nel loro piccolo creato modelli altri rispetto a quelli a cui siamo abituati. È interessante a questo proposito sottolineare come le americane facciano un lavoro del tutto inedito con le giovani ragazze, a partire dai 12 anni. O come le ragazze palestinesi, nonostante la situazione ancora molto tosta per la Palestina (sebbene se ne parli poco), riescano a portare avanti con determinazione o costanza i loro propositi.
Per chi non lo sapesse, anche tu hai giocato a basket. Circostanza che ti ha portato a conoscere da vicino le tre realtà ma, soprattutto, quella delle Bulle.
Ho iniziato a giocare a basket da adulta, proprio come accaduto a moltissime delle ragazze della squadra romana. Le ho conosciute così: avvicinandomi allo sport e cominciando a frequentarle. Ho cominciato per vari motivi. Da anni non praticavo sport che non fosse andare in bicicletta: avevo bisogno di stare con altre persone e in un contesto che non fosse la palestra, che con il tempo ti aliena.
Il desiderio era quello di confrontarmi con qualcuno e di praticare uno sport di squadra, qualcosa che non avevo mai fatto in vita mia. è stata una mia amica a parlarmi delle Bulle e ho seguito il suo consiglio: è stato amore a prima vista, nonostante le difficoltà del caso. L’inizio è stato anche abbastanza imbarazzante, mi sentivo fuori luogo però era divertente. Nel momento in cui fai uno sport di squadra entrano in ballo mille fattori che ti fanno produrre un’energia differente e ti permettono di comunicare anche a livello fisico. Si crea una certa complicità: il basket non è solo tirare la palla in un canestro ma anche capire come si muoverà una compagna o l’avversaria. C’è tutto un altro modo anche di fare gruppo e di ascoltarsi.
Ecco perché ritengo sia importante cominciare a farlo da piccole: ti forma tantissimo sia a livello fisico sia a livello sociale. Impari a gestire lo spazio intorno a te e di conseguenza a rispettare l’altro. Farlo a livello amatoriale come lo fanno le ragazze che ho raccontato permette di capire anche cosa siano l’accoglienza e l’inclusività.
E da ragazze che praticano uno sport definito maschile per eccellenza di giudizi e pregiudizi ne hanno vissuti tanti, come raccontano loro stessa. Ne hai avuto esperienza diretta?
No. Ma per il semplice fatto che ho giocato in contesti “protetti”. Certa cultura è difficile da estirpare ma qualche traguardo è stato raggiunto e qualche battaglia vinta. Come quella, ad esempio, come dell’andare a giocare insieme la sera o uscire. Le ragazze newyorchesi sono riuscite a superare il luogo comune per cui la sera non avrebbero potuto uscire perché per loro pericoloso: lo fanno insieme, diventando sostegno l’una per l’altra. Si sono prese spazi e ore che non appartenevano loro e che invece appartengono a tutti quanti.
Le ragazze palestinesi sono riuscite anche ad andare oltre ai tabù imposti dalla religione o da una cultura secolare.
La maggior parte di loro giocano senza hijab, solo una ragazza lo indossa. Molte cose stanno cambiando anche a quella latitudine, come si evince dalla conversazione di una giovane con la madre (tua nonna non te lo avrebbe permesso!). C’è stato un superamento di determinati limiti e il loro stesso coach, un uomo, sta facendo un lavoro significativo, preparando una donna che possa prendere il suo posto. Le palestinesi non sono solo le più giovani sono anche quelle che vivono in un contesto particolare: un campo di rifugiate e di rifugiati. Su di loro vige un certo stigma anche sociale legato proprio all’essere palestinesi.
Le donne romane sono invece mosse dal desiderio di non essere definite solo come mogli o madri. Vogliono che la loro identità non sia definita dai parametri degli stereotipi di genere.
Ma non solo. Rivendicano anche il diritto di opporsi a quella che è una certa tradizione anche cattolica e a certi retaggi che vengono dall’essere cresciute in una città con il Vaticano a due passi. È un peso che non riguarda solo i romani ma tutta la cultura italiana, a cominciare dalla politica. Perché ad esempio in uno stato laico dovremmo avere degli obiettori di coscienza? Questo è indicativo di quanto la Chiesa influisca sulle nostre vite in maniera anche pesante.