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Stefano Chiantini: “I miei supereroi dall’approccio antieroico alla vita” – Intervista esclusiva

stefano chiantini
Nel suo nuovo film Supereroi, Stefano Chiantini ci guida in un viaggio intimo e poetico alla scoperta dell'eroismo quotidiano, lontano dai riflettori e dalle narrazioni epiche. In quest’intervista esclusiva, il regista ci apre il suo mondo interiore, rivelandoci una visione del cinema come strumento per dare voce alle emozioni più autentiche e complesse, in una celebrazione della bellezza dell'umano e della verità dei legami più semplici.
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Nel nostro incontro con Stefano Chiantini, ci immergiamo subito in un’atmosfera di riflessione profonda sul cinema e sulla sua capacità di raccontare la complessità della vita quotidiana. Stefano Chiantini ci accoglie con uno sguardo che va oltre la semplice promozione di Supereroi, il suo ultimo film prossimamente in sala per BiM, per condividere con noi il significato che il cinema ha per lui: uno strumento per esplorare emozioni complesse, per affrontare il dolore, la bellezza e la fragilità che definiscono l’essere umano.

Lontano dalle grandi epopee eroiche, il regista sceglie di raccontare le storie di chi, con forza e dignità, combatte le battaglie della vita di tutti i giorni. In questo, Supereroi, presentato alla Festa del Cinema di Roma e prossimamente in sala, diventa quasi un manifesto del suo cinema, un inno silenzioso a quegli “eroi comuni” che vivono nell’ombra, lontani dai riflettori.

Supereroi si segnala come un’opera delicata e intima, distante dalle narrazioni enfatiche e dai colpi di scena eccessivi. Con la sua regia riflessiva, Stefano Chiantini ci racconta di Jenny e Alvaro, una figlia e un padre che, pur non essendo legati dal sangue, sono uniti da un amore profondo, anche se difficile. Il loro rapporto, descritto con grande sensibilità e attenzione ai dettagli, diventa una lente attraverso la quale osservare le dinamiche familiari, le incomprensioni, le ferite mai del tutto rimarginate e la necessità del perdono.

La scelta del regista di esplorare un legame tra padre e figlia è inusuale e interessante: invece di costruire una figura paterna idealizzata, Stefano Chiantini ci presenta Alvaro come un uomo fragile, imperfetto, ma capace di amore e dedizione. Attraverso Jenny e Alvaro, il regista ci ricorda che la famiglia non è definita solo dai legami di sangue, ma dalla profondità dei sentimenti, dalla capacità di resistere e di crescere insieme, nonostante le difficoltà.

Nel corso dell’intervista, Stefano Chiantini si apre e ci parla di Supereroi, presentato alla Festa del Cinema di Roma, come di un progetto personale, quasi una riflessione autobiografica. Il film, infatti, nasce dal suo desiderio di raccontare l’eroismo silenzioso che lui stesso ha visto nella sua famiglia: persone comuni che lottano ogni giorno per mantenere uniti i fili della vita. La sua cinepresa si sofferma sulle piccole cose – un gesto affettuoso, uno sguardo non detto, un silenzio carico di significato – trasformando queste semplici immagini in momenti di poesia. È un cinema che si muove per sottrazione, in cui ogni inquadratura è studiata per non aggiungere enfasi a situazioni già di per sé intense e toccanti.

Questa intervista è quindi molto più di una conversazione sul film: è una porta d’accesso al mondo interiore di Stefano Chiantini, alle sue speranze, alle sue frustrazioni e alla sua determinazione di continuare a fare cinema, nonostante le difficoltà di un’industria che spesso fatica a riconoscere il valore di opere così intime.

Supereroi diventa, in questo senso, non solo un racconto universale sull’amore e il perdono, ma anche una dichiarazione d’intenti da parte di Stefano Chiantini, un regista che continua a credere nella forza della verità e nella bellezza dell’umano. Con questo film, ci invita a riflettere sui nostri legami, a riscoprire il significato della famiglia e ad abbracciare, con delicatezza e rispetto, le piccole, grandi storie che spesso si nascondono nei gesti più ordinari.

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Stefano Chiantini (Press: Cristina Scognamillo, Cristiana Zoni per CZ24, Manzo & Piccirillo).
Stefano Chiantini (Press: Cristina Scognamillo, Cristiana Zoni per CZ24, Manzo & Piccirillo).

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Intervista esclusiva a Stefano Chiantini

“Non ho mai capito perché chiamare l’ultimo lavoro fatto “fatica”: realizzare un film è una gioia… la vera fatica è recuperare i soldi e mettere insieme tutte le energie per riuscirci ma, quando ci riesci, farlo è semplice”, scherza Stefano Chiantini quando nel dare il via al nostro incontro per confrontarci sul suo Supereroi ci soffermiamo a riflettere su un termine che spesso la stampa utilizza nel riferirsi ai lungometraggi in promozione. E di riflessioni, più o meno importanti ma mai banali, il nostro incontro ne prevederà molte altre, a cominciare da quella relativa al titolo stesso del suo film.

“I supereroi del titolo sono le persone che tutti i giorni affrontano la quotidianità e ogni difficoltà che questa si porta dietro, soprattutto nella vita di gente comune e normale come può essere stata la mia famiglia con due genitori che hanno vissuto e hanno cresciuto tre figli con un solo stipendio, quello di mio padre operaio (mamma era casalinga)”, risponde Stefano Chiantini.

Avevamo già un film di Paolo Genovese con lo stesso titolo e una canzone di Mr. Rain: in cosa si differenziano i tuoi supereroi dagli altri?

Si differenziano sicuramente per il loro approccio molto antieroico alla vita e per la sensibilità con cui vengono raccontati. Mi rendo conto di aver usato un titolo abbastanza abusato e c’è stata a proposito anche una lunga discussione in cui Edoardo Pesce aveva colto l’occasione per proporre come titolo Apnea. È stata una polemica che ha continuato ad accompagnarci durante le riprese in maniera carina e simpatica ma, essendomi legato a Supereroi, ho deciso di non cambiarlo. Tra l’altro, c’era anche una scena che, tagliata al montaggio, vedeva un bambino sulla spiaggia di Civitavecchia vestito da Superman avvicinarsi al personaggio di Pesce chiedendogli che supereroe fosse lui, dando il via a un dialogo che dava anche maggior senso al titolo.

Cosa non ti convinceva di Apnea come titolo? Dopotutto, la canzone di Emma Marrone accompagna anche una scena tra i protagonisti.

Rispetto al film, trovavo il titolo un po’ troppo chiuso, claustrofobico. E, poi, mi sembrava anche una piccola mancanza di rispetto verso Emma Marrone, un’indelicatezza nei suoi confronti. Dopo Il ritorno, abbiamo mantenuto un ottimo rapporto: grazie a quel lavoro, ho conosciuto una persona veramente molto bella e professionalmente molto seria e preparata. In lei, ho come intravisto l’esigenza e la voglia di raccontarsi, di far uscire fuori ciò che si porta dentro in tanti modi diversi. E l’ho scelta appositamente perché mi stimolava l’idea di legare un personaggio così “pop” a un ruolo da antidiva.

I supereroi del tuo racconto sono, nello specifico, Jenny e Alvaro, una figlia e un padre, descritti in maniera realistica e con grande sensibilità, con tutti i loro pregi e i loro difetti. Non c’è nessuna mistificazione nei loro confronti.

Era importante che fosse così perché altrimenti avrebbe perso di significato sia il film sia l’operazione che volevo portare avanti. Per me, era fondamentale che il film fosse “vero” e che mantenesse una certa sensibilità e sottrazione rispetto all’enfasi e alla retorica che avrebbe potuto portarsi dietro. Bastava distrarsi un attimo che sarebbe accaduto… Ho ritenuto quindi necessario rimanere attaccato alla realtà e alla verità, legittimando anche un titolo così empatico.

Alvaro e Jenny, un padre e una figlia contraddistinti da un rapporto molto forte. Dopo aver indagato la maternità con i tuoi precedenti tre lavori (Naufragi, Il ritorno e Una madre), doppiamo aspettarci tre capitoli in cui esplorerai la paternità o è stata semplicemente una casualità?

Dopo la ‘trilogia sulla madre’, sentivo il bisogno di raccontare anche la genitorialità declinata al maschile. Nel panorama cinematografico, non si sono viste molte storie sul rapporto padre e figlia, è più facile che si raccontino legami di ‘padre e figlio’ o di ‘madre e figlia’ mentre accade meno di frequente che mi mischino le carte. Mi andava dunque di concentrare su di loro la mia attenzione ma non so se ci sarà un seguito a quest’analisi genitoriale, anche perché non ho mai deciso a priori di fare una trilogia sulla maternità: me ne sono reso conto a cose fatte. Pensandoci, però, anche il mio prossimo film parlerà sempre di famiglia e di rapporti tra genitori e figli ma in maniera ancora una volta diversa.

A un certo punto della storia, scopriamo che Jenny non è figlia biologica di Alvaro ma, nonostante ciò, il loro rapporto non perde di forza o di intensità. È un modo anche questo per ribadire che un figlio è sempre un figlio?

Senza volerlo o rendermene conto, ho toccato un tema che è di stretta attualità. Per me è quasi scontato che a guidare e a legittimare i rapporti sia l’amore e non uno status. Era talmente scontato che non ci ho riflettuto più di tanto né in fase di scrittura né in quella di riprese: è stato solo a film finito che ho realizzato quanto la mia posizione fosse netta su ciò. Può sembrare anche stupido sottolinearlo ma alla luce di ciò che viviamo oggi o a cui assistiamo anche la banalità più ovvia ha bisogno di essere ricordato: c’è veramente qualcuno che pensa che non sia l’amore a guidare i rapporti?

Nella dinamica padre e figlia, affascinante è il modo in cui è delineato il personaggio della madre di Jenny: non c’è alcun atteggiamento di condanna da parte di Jenny o di Alvaro nei suoi confronti per gli errori commessi in passato. Siamo di fronte quindi a una bella rottura di stereotipo rispetto a quei racconti che, in condizioni simili, colpevolizzano una donna per le sue scelte.

Questo è un aspetto di cui invece ho tenuto conto proprio perché, quando a legare tutto è l’amore, ogni altra cosa passa in secondo piano. Il non colpevolizzare nasce anche da un’esperienza mia personale: ho una figlia di undici anni frutto di una relazione che è terminata prima che lei venisse al mondo. L’atteggiamento di condanna è inutile in tali contesti, meglio lasciare spazio a sentimenti d’amore: pensiamo a quante cose potrebbero migliorare se cominciassimo tutti a farci guidare da un ragionamento così semplice…

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Supereroi: Le foto del film

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È un sentimento d’amore anche quello con cui senza sensazionalismi scegli di trattare la malattia, un disagio che interviene nella vita dei protagonisti improvvisamente e che ne ridisegna la traiettoria, senza pietismi e senza facili moralismi.

Con Edoardo Pesce abbiamo fatto un grande studio in merito alla malattia. Siamo stati in diversi centri e in più posti, e abbiamo conosciuto tante persone la cui vita è stata segnata da accadimenti simili a quelli che colpiscono Alvaro. E ne abbiamo voluto raccontare la dignità e il dolore senza alcuna enfasi, sottraendoci dalla retorica e dal facile voyeurismo per restituire la delicatezza con cui ci siamo confrontati e relazionati ed evitare ogni tipo di violenza emotiva.

Una delle scene di Supereroi più poetiche è quella in cui Jenny lava il padre. Cos’è la poeticità per Stefano Chiantini? Come si manifesta e a quale esigenza di fondo risponde?

Per me, la poeticità sta nelle piccole cose. Mi emoziona maggiormente e trovo più commovente uno sguardo o un gesto anche minimo d’affetto che qualcosa di eclatante sbattuto in faccia alle persone. Dal mio punto di vista, la poesia sta nelle piccolezze che raccontano l’animo umano. Ecco perché poi preferisco sempre muovermi per sottrazione filmando piccoli dettagli di determinati momenti.

Abbiamo citato prima Emma Marrone ma sono tante le attrici che hai in qualche modo scoperto o rimodellato attraverso i tuoi film, da Micaela Ramazzotti ad Aurora Giovinazzo. A queste, aggiungiamo oggi anche Sara Silvestro.

A me piace molto lavorare con le attrici (ma anche con gli attori) e cercare di portarle a un registro e un’intimità che il pubblico non si aspetta. L’ho fatto con Asia Argento in Isole, con Micaela Ramazzotti nella seconda parte di Naufragi, con Emma Marrone o ora con Sara Silvestro, giovane attrice alla sua opera prima. Ma anche con Angela Finocchiaro in Una madre, un film che finalmente arriva in sala il 19 novembre partendo dal Sacher di Nanni Moretti, che verrà a introdurlo.

Come hai trovato Sara Silvestro?

Ho portato avanti un casting con Laura Muccino. Pur non amando molto i provini, mi piace incontrare in presenza le persone per capire quali emozioni e che feeling si instaura con loro. Tra tutte le persone incontrare, Sara è stata quella che mi aveva trasmesso le sensazioni più forti e anche Laura ha avuto la stessa percezione, ragione per cui era convintissima della scelta. Oltre alla spontaneità e a quell’energia che era impossibile non cogliere, Sara aveva anche qualcos’altro in comune con il personaggio di Jenny: il nuoto.

In passato, Sara è stata una nuotatrice professionista e, per tutta una serie di casuali coincidenze, era anche legata ai posti in cui avremmo girato il film, in particolare a Sant’Agostino, location del finale e luogo in cui lei aveva passato gran parte della sua infanzia per via della nonna che di lì è originaria.

Perché non ami i provini?

Perché li trovo un po’ umilianti sia per l’attore sia per il regista. Nel mio caso, impiego anche un anno a scrivere una storia e poi qualcuno in un minuto deve dimostrarmi di essere in grado di averla capita e di poter interpretarla. E l’attore, in quello stesso minuto, è costretto a creare chissà che cosa per convincermi di essere la persona giusta… Lo trovo abbastanza limitante e riduttivo.

Alvaro è il secondo padre separato che Edoardo Pesce interpreta quest’anno dopo Martedì e Venerdì

Da molto tempo, avevo il desiderio di lavorare con Edoardo ma ho chiaramente aspettato che arrivasse il ruolo giusto da proporgli: ritengo che sia tra i migliori della sua generazione. La scelta di affidare a lui Alvaro non è figlia del fatto di averlo già visto nei panni del padre separato ma di altro: volevo portarlo su un registro più morbido e tenero rispetto ai ruoli che nel tempo gli sono stati cuciti addosso.

E non è stato complesso farlo: di fronte al mio modo di lavorare per cui concedo molto spazio agli attori e chiedo loro molta partecipazione e collaborazione, Edoardo si è sentito libero di esprimersi come meglio credeva. Si è creato un clima di reciproca fiducia e, in più, lo stesso Edoardo mi ha aiutato molto anche nella direzione di Sara. Avendo una padronanza totale sia del mezzo sia delle situazioni da mettere in scena, ha messo Sara in una condizione di agio assoluto.

E a loro due hai affiancato, per il ruolo della madre di Jenny, Barbara Chichiarelli, restituendole anche una dimensione di femminilità che altri progetti hanno invece sacrificato.

Non sono stato io a scoprire quanto straordinaria sia Barbara: la sua bravura è sotto gli occhi di tutti. Con lei, abbiamo fatto anche un grande lavoro di riscrittura e ridefinizione non solo del suo personaggio ma anche di alcuni passaggi della storia. Sono sempre stato del parere che il cinema, un film, lo si fa tutti insieme, ragione per cui do spazio a ogni apporto dei compagni di set: pur avendo una mia visione, resto sempre aperto al dialogo proprio perché ritengo che il cinema sia un mezzo molto democratico e molto collaborativo. Non sono un regista sergente…

Una madre, il film di Stefano Chiantini che inizia il suo tour nelle sale il 19 novembre.
Una madre, il film di Stefano Chiantini che inizia il suo tour nelle sale il 19 novembre.

A proposito di cinema, hai mai avuto la sensazione che i tuoi film fossero amati più all’estero, a cominciare dalla Francia, che in Italia?

Sì, purtroppo sì. E mi dispiace anche. Sono un uomo libero da tanti schemi, ragionamenti e circoletti, e ciò porta spesso a non prendere in troppa considerazione il mio stesso lavoro. Con Isole, ad esempio, sono stato in 70 diversi festival nel mondo, eppure quando è uscito nelle sale italiane quasi nessuno se n’è accorto. Continuo a fare il mio lavoro ma avverto la sensazione di essere messo in disparte, di non essere tenuto in considerazione e di non essere riconosciuto.

Ed è questo che dopo Storie sospese ti ha portato a rimanere fermo per sei lunghi anni?

Dopo quel film, sono rimasto fermo per un lungo periodo anche per via di una storia che avevo scritto e che non si è concretizzata, nonostante il finanziamento accordato e l’impegno di Rai Cinema. Dopo, comunque, la circolazione dei miei primi film, non passati proprio inosservati, sono stato come messo da parte ed è stato per me come dover ricominciare tutto da capo. Fortunatamente poi si sono creati i giusti presupposti per tornare dietro la macchina da presa e ho girato Naufragi

Eppure, avevi dimostrato di essere un regista versatile, in grado di sapersi muovere con tutti i linguaggi e i generi possibili. Prova ne era il grosso successo della serie tv Una mamma imperfetta

…che è un po’ come se non avessi fatto. Nonostante il grande esito, il mio nome e il mio contributo sono caduti nel dimenticatoio. Mi aspettavo che si aprissero dei canali diversi ma non è andata così, non so neanch’io il perché ma è successo.

Su chi hai potuto contare nel momento in cui il cinema sembrava quasi guardarti con sospetto?

Nessuna persona del mondo del cinema. In quel momento, sono state solamente la mia tenacia, la mia passione e la mia voglia di fare a spingermi ad andare avanti.

Stefano Chiantini con Emma Marrone sul set di Il ritorno.
Stefano Chiantini con Emma Marrone sul set di Il ritorno.

Ma cos’è che ha portato quel ragazzino cresciuto ad Avezzano in Abruzzo a innamorarsi così tanto del cinema?

Il cinema è stata una passione che ho avuto sin da quando ero bambino. Quando ripenso alla mia infanzia, mi rivedo quando tutti i pomeriggi andavo al cinema dell’oratorio parrocchiale per assistere a tutto ciò che veniva proiettato, dai film di Franco Franchi a Ciccio Ingrassia a quelli con Al Pacino. Stavo sempre in quel cinema ed è lì che è nato il desiderio di fare questo mestiere.

Ed è stato poi facile comunicare quel desiderio ai tuoi genitori?

Comunicarlo è stato abbastanza facile. Vengo però da una famiglia molto povera e mio padre, in maniera molto onesta, mi ha lasciato libero di fare come volevo perché, comunque, dal canto suo non avrebbe potuto aiutarmi o garantirmi nulla. Trasferendomi a Roma per studiare Lettere e Filosofia, dovevo lavorare per mantenermi ed è stata, quindi, la necessità (unità alla libertà di cui godevo) a farmi muovere i primi passi nel cinema. E, secondo me, è proprio la fame a fare la differenza.

Cosa ti hanno poi detto i tuoi quando hanno visto il tuo primo film?

Ne erano chiaramente contenti, cogliendo anche le emozioni che trasmetteva. Però, secondo me, non hanno ancora chiaro quale sia il mio lavoro o in cosa consista: davanti ai miei film si emozionano più per l’atmosfera delle cose che per la sostanza… ma sono contenti!

E come hai spiegato a tua figlia il lavoro del papà?

Per lei è quasi scontato che io faccia il regista, lo considera un lavoro come un altro. Non vive di grandi esaltazioni, come se fosse la professione più normale del mondo e com’è giusto che sia.

Oggi resti che è più quello che il cinema ti ha dato o quello che ti ha tolto?

Il cinema mi ha dato e mi da tantissimo. Non è solo il mio lavoro ma è anche la mia passione. Scrivere ad esempio mi piace molto ma chiaramente mi rendo conto ogni giorno di più di quanto sia un processo veramente faticoso e distruttivo. In certi momenti di scrittura è come se mi alienassi dal mondo: non esco più di casa, non parlo quasi con nessuno, cucino e penso al film, mi sveglio di notte e faccio lo stesso… esistono fasi in cui mi prosciuga totalmente ma è per me vitale, oltre che catartico: la scrittura mi permette anche di affrontare i miei dolori, l’emotività e la quotidianità.

Quanto della tua vita è arrivato nelle tue storie?

Tanto, anche perché in un modo o nell’altro il vissuto torna sempre fuori.

Vivi tra l’altro la condizione di essere autore, regista e spettatore delle tue stesse storie. Ma l’esserne poi spettatore ha contribuito mai a ribaltare la prospettiva che ne avevi da autore?

Mi ha aiutato semmai ad avere un punto di vista più distaccato e più obiettivo, spingendomi poi ad analizzarne gli elementi con maggiore lucidità. Dei tre ruoli, quello più faticoso è l’essere spettatore: se da un lato rivedere determinate cose ti genera sofferenza, dall’altro lato potresti anche provare insoddisfazione di fronte al risultato… soprattutto quando tra riprese, montaggio e quant’altro, quel film lo hai rivisto centinaia di volte.

E come ti poni di fronte alle critiche che non colgono lo spirito di una tua opera?

Cerco di pormi in maniera molto distaccata di fronte a ciò che dicono o scrivono. Anche se una critica negativa, legittima o meno che sia, fa comunque male perché è sempre diretta a qualcosa che tu hai scritto, diretto, pensato e vissuto…

Stefano Chiantini sul set di Naufragi con Micaela Ramazzotti.
Stefano Chiantini sul set di Naufragi con Micaela Ramazzotti.
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