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Stefano Skalkotos: “Più fatti, meno parole” – Intervista esclusiva all’attore

L’attore Stefano Skalkotos racconta il suo particolare momento lavorativo. Reduce dal successo di

Stefano Skalkotos sta vivendo un periodo molto pieno come attore. È reduce dal successo di Love in the Villa, commedia romantica Netflix girata a Verona, e fa parte della serie tv Circeo, uno dei titoli di punta che ha contribuito al lancio della piattaforma Paramount+ (prossimamente anche su Rai 1). Ma sono tantissimi altri i progetti a cui Stefano Skalkotos ha partecipato e che presto vedranno la luce. Da Lift (film girato all’estero con un cast da urlo che spaventerebbe chiunque) ad Arnoldo Mondadori – I libri per cambiare il mondo, la docuficion in onda in autunno in prima serata su Rai 1, prodotta da Anele in collaborazione con Rai Fiction.

Dei progetti parleremo con lui nel corso di quest’intervista esclusiva. Ma Stefano Skalkotos è andato anche oltre il semplice lavoro. Senza riserve, ci ha parlato di sé e delle sue origini, della sua doppia identità culturale ma anche del suo rapporto con i genitori e della passione per il cibo. Ma ciò che più ci ha colpito di Stefano Skalkotos è il suo interesse per il baskin e per l’inclusione, una tematica che conosce sin da quando era bambino e che gli sta tuttora molto a cuore. Concretamente e non solo a parole.

Curiosamente, abbiamo cominciato l’intervista a Stefano Skalkotos parlando di viaggio. Inaspettatamente, è diventato un argomento che è ritornato spesso nel corso della conversazione, a dimostrazione di quanti mari devono attraversarsi per diventare uomo.

Stefano Skalkotos.
Stefano Skalkotos.

Intervista esclusiva a Stefano Skalkotos

Stefano, sei costantemente in viaggio. Dove ti trovi in questo momento?

Sono a Roma, la città in cui ormai vivo da 13 anni. Sono stato però recentemente in Sicilia per il trentennale di uno spettacolo teatrale molto bello, La confessione, di Walter Manfrè. Forse l’unico regista teatrale con cui in questo momento mi va di lavorare: non solo perché è una persona a me molto cara ma anche perché mi riconosco nel suo teatro, continuamente in essere e sempre con il pubblico vicino.

Avevano già lavorato insieme per quattro anni portando in giro La cena, un altro suo spettacolo cult scritto da Giuseppe Manfridi. Era un thriller familiare ed era come se il pubblico fosse seduto insieme ai protagonisti intorno a un grande tavolo: in certi casi, la parola recitazione non dovrebbe esistere.

Quale deve essere secondo te la prima abilità di un attore?

La curiosità antropologica. L’osservazione e la curiosità dovrebbero essere un esercizio da mettere costantemente in atto. Non me l’ha insegnato il mestiere ma l’ho imparato dalla vita. Sono stati i miei genitori, grazie a Dio, ad avermelo trasmesso. Ed è un esercizio che pratico sin dalla tenera età ma anche nella vita di tutti i giorni.

Prendiamo ad esempio le scorse elezioni politiche e il loro risultato. Partiamo da una premessa: sono stanco di dover far fronte comune rispetto a un nemico. Sono vent’anni che stiamo giocando così. Io non vorrei votare con questo spirito ma vorrei continuare a votare per un’ideologia, una parola che sembra brutta ma che in realtà è bellissima. Voglio votare per programmi che siano seri e non per andare contro il nemico. Detto ciò, quando la gente scrive “Com’è potuto succedere?”, rispondo “Ma tu il naso fuori casa lo metti mai?”. Io vivo a Torpignattara e li sento i discorsi al bar la mattina.

Hai citato i genitori. Ritorniamo allora al 1981, anno in cui sei nato da una mamma italiana e da un papà greco. Sin dalla nascita è insito in te un inevitabile mix culturale. Come hanno convissuto in te le tue due identità?

Molto naturalmente. Mio padre è un artista, pittore, scultore e tanto altro ancora, e da lui ho ereditato il gene dell’arte, anche se poi l’ho tradotto in una forma diversa. Mia madre è veneta e da lei ho preso il suo stare con i piedi per terra. Tale dualità mi ha sempre molto aiutato, soprattutto quando si sono alzate le asticelle in campo professionale.

Lo “straniero” in famiglia è mio padre, è lui che era venuto in Italia. Ma non mi ha mai forzato culturalmente, non mi ha imposto di imparare il greco e non ha mai messo in atto altri atteggiamenti un po’ sciovinisti: è sempre stata a mia discrezione scoprire ciò che volevo scoprire. Ricordo che ogni estate andavamo a trovare i nonni in Grecia ed era qualcosa che amavo fare.

Ho sempre avuto un legame molto forte con tutti i miei nonni, sia quelli più vicini (sono cresciuto a casa dei nonni materni) sia con quelli più lontani. Il viaggio in Grecia era per me imprescindibile e lo è ancora. Sono stato lì fino a quest’estate e non riesco a descrivere la sensazione che si prova quando, avvicinandosi al porto, cominci a sentire quegli odori specifici di macchia mediterranea. Le radici sono qualcosa che ognuno di noi sente prima o poi nella vita il bisogno di riscoprire.

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Quindi, torni in Grecia in nave. È molto omerica come scelta, un po’ da Ulisse che torna nella sua Itaca.

Sono stato a Itaca proprio quest’estate. Il viaggio in nave non ti lascia scorciatoia. Noi occidentali siamo abituati a muoverci in aereo mentre gli orientali, con i loro ritmi più lenti, preferiscono le navi. Il viaggio per mare ti fa vivere sensazioni differenti come l’approdo.

Hai imparato il greco crescendo?

Sì ma l’ho imparato ad orecchio, soprattutto quando ero bambino e trascorrevo più tempo in Grecia. Tutte le volte capitava la stessa cosa: quando finalmente mi sentivo più libero di esprimermi in greco, arrivava il momento di andare via. Non posso affermare di conoscere perfettamente la lingua ma qualcosa la so dire.

Pensavo che avessi frequentato il liceo classico, viste le origini.

Ho provato per un anno ma mi hanno bocciato. Ho preso allora una scorciatoia, è il caso di dirlo, perché volevo finire la scuola il più in fretta possibile per dedicarmi al lavoro che volevo fare. Già allora avevo le idee abbastanza chiare.

Quindi, già da adolescente hai capito che volevi diventare un attore?

Anche prima, alle scuole elementare. Nelle recite o negli spettacolini che si organizzavano ai tempi, ero bravo – molto più di adesso – a fare le imitazioni. Era il periodo in cui in televisione c’erano tantissime trasmissioni molto belle in cui c’erano imitatori molto bravi. Ricordo, ad esempio, un programma con Gigi Sabani, che ha lanciato tantissimi imitatori, tra cui Neri Marcoré. Sulla scia di queste trasmissioni, ho cominciato a imitare le persone che mi stavano intorno, prendendole anche in giro. Non mi vergogno a dirlo: dietro all’umorismo dell’imitazione c’è sempre un po’ di cattiveria, è la chiave della comicità e della satira.

È partita così l’idea di recitare e l’ho portata avanti coerentemente. Per fortuna, è tra le poche cose per cui sono stato coerente. Ovviamente, è una boutade: mi ritengo abbastanza coerente come persona. Ho delle contraddizioni come tutti quanti. Per il resto, sono della Bilancia per cui è insito in me un grande senso di giustizia e coerenza.

È vero che da Bilancia dovresti stare in equilibrio ma non è detto che l’ago non penda da un lato o dall’altro.

Sta a noi trovare l’equilibrio. Ma durante il percorso della vita puoi permetterti anche di trovare dei dualismi molto interessanti e affascinanti. Si tratta sempre di approfondire se stessi, prima di tutto, al di là del mestiere che si fa. Ed è qualcosa che ho realizzato a trent’anni, in piena crisi esistenziale. In quel momento, ho capito che stavo spingendo verso più la dimensione lavorativa mettendo da parte quella umana. Poiché i due aspetti scorrono parallelamente e specularmente, ho cercato da lì in poi di portarle avanti di pari passo in modo da farle proseguire il più armonicamente insieme.

E come ci sei riuscito?

Non so se ci sono riuscito: sono ancora in corsa. Ma forse nemmeno a novant’anni ci si riesce. Certo, ho una maggiore consapevolezza di quanto avevo trent’anni.

Stefano Skalkotos.
Stefano Skalkotos.

Da un punto di vista professionale quello che stai vivendo è un momento particolarmente felice.

È più ricco di altre stagioni della mia vita, sicuramente. Ma non sono stato travolto: dietro al raccolto, c’è stata una semina abbastanza coerente. Il mio per certi versi è un mestiere strambo che ti porta ad accettare tutto ciò che di inaspettato può accadere. Gli ultimi due anni sono stati abbastanza intensi e, spero, proficui: di molte cose devo ancora vedere i risultati.

Tra queste cose, c’è sicuramente Lift, il progetto internazionale a cui hai preso parte che, solo a guardare il cast, farebbe paura a chiunque.

Non posso dire molto a proposito, vige il massimo riserbo. È un film che uscirà nel 2023 ed è stato qualcosa di inaspettato e molto bello. A parte il cast eccezionale, il regista F. Gary Grey è una persona veramente fantastica: è stata un’emozione trovarmi su quel set. Sono rimasto imbambolato per dieci minuti davanti a Jean Reno, prima di riuscire a pronunciare una parola. Ero circondato da tante superstar ma ciò che mi ha colpito è come fossero persone estremamente umili: recitavo in una lingua che non era la mia e avere accanto qualcuno come Sam Worthington che mi diceva di non preoccuparmi mi ha dato una grossa mano. Il clima sul set era sempre molto friendly e sereno. E la serenità è qualcosa che mi aiuta molto nel mio lavoro.

Non è stata tuttavia la tua prima esperienza su un set internazionale. Ti abbiamo appena visto nel ruolo del capo della polizia in Love in the Villa, una produzione Netflix realizzata a Verona. Una di quelle commedie romantiche che molto spesso si guardano con la puzza sotto il naso.

È una commedia sentimentale leggerissima, gradevole ma leggera. Ci sono diversi luoghi comuni nella sceneggiatura ma posso assicurarti che gli americani, sembra strano a dirsi, ci vedono realmente in quel modo. Per me, anche quella è stata una bellissima esperienza di lavoro, tra l’altro la mia prima internazionale. Ho avuto come colleghi due grandi attori, Tom Hopper e Kat Graham, ma soprattutto ho avuto al mio fianco nei panni dell’attendente poliziotto un mio carissimo amico. Il regista Mark Steven Johnson si è anche ricordato di una cosa che avevo fatto al provino, a differenza di quanto avviene in Italia, in cui tutti siamo un po’ smemorati e tendiamo a scordare un po’ troppo facilmente.

Love in the Villa mi ha permesso di fare commedia, qualcosa che nelle produzioni italiane non facevo da tempo. Non avevo quasi più quella propensione ma a me la commedia è sempre piaciuta, mi diverte e fa parte del mio spirito. A me piacciono anche i film di Natale, non quelli di oggi ma sicuramente quelli realizzati fino a metà anni Novanta.

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Hai appena citato i film di Natale. E a tale proposito so che fai parte anche del cast di Un Natate in famiglia, il nuovo film con Christian De Sica e Angela Finocchiaro che segna anche la prima volta di una produzione tutta italiana firmata dal colosso Sony Pictures.

Anche in questo caso il silenzio è d’obbligo. Posso però dire che condividere il set con De Sica e Finocchiaro è come un sogno che si realizza. Ho un piccolo ruolo ma è stato molto divertente. Considero Christian un mito, un attore straordinario che sa fare tutto: sono anche un fan sfegatato del primo Vacanze di Natale, da bambino con i miei amici ci divertivamo a citarne le battute e ancora oggi lo conosco a memoria. Idem per Angela: grazie ai miei genitori, che mi hanno fatto vedere le ultime reminiscenze di bellissima televisione, la ammiro dai tempi della Tv delle Ragazze. Angela è l’equivalente di Christian al femminile. Sono entrambi fenomenali: con loro può succedere di tutto!

Conoscendo un po’ la trama del film, ti chiedo che rapporto hai tu con i tuoi genitori.

Mio padre è tornato in Grecia, dove insegna Scultura all’Accademia delle Belle Arti. Dei due, è quello che vedo meno: il mio viaggio di questa estate era finalizzato a passar del tempo con lui. Insieme, stiamo iniziando a condividere un piccolo progetto legato alle micro sculture gioiello che realizza. Mia madre vive a Padova e vado a trovarla tutte le volte che posso.

Con entrambi ho però avuto un rapporto abbastanza conflittuale, come quello di quasi tutti i figli con i genitori: era più armonico il rapporto con i nonni. Chiaramente, con il passare degli anni qualcosa è cambiato: anche i genitori iniziano a smussare alcune caratteristiche dei loro comportamenti che prima erano predominanti e creavano conflitto. Invecchiare non è mai bello ma comporta anche qualcosa di positivo: permette di creare armonie e sintonie che prima non c’erano.

Interpreti la parte del figlio anche in Arnoldo Mondadori – I libri per cambiare il mondo, la docufiction diretta da Francesco Micciché, una produzione Anele in collaborazione con Rai Fiction che vedremo in autunno in prima serata su Rai 1.

Impersono Giorgio Mondadori. Giorgio è il secondo figlio di Arnoldo Mondadori, interpretato da Michele Placido, quello più diplomatico e conciliante di Alberto, un po’ la “pecora nera” della famiglia, quello più turbolento, portato in scena da Flavio Parenti. Placido e Parenti sono stati due colleghi di lavoro meravigliosi. Con Flavio siamo anche diventati amici e tuttora ci sentiamo: è nato un bel rapporto di fratellanza. Lavorare con Michele è come giocare nella Champions League: è uno dei più grandi maestri che abbiamo. Michele sa anche stimare tantissimo i colleghi più giovani: non è qualcosa di scontato.

Arnoldo Mondadori - I libri per cambiare il mondo: Le foto

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Stefano Skalkatos con Michele Placido e Flavio Parenti.
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Stefano Skalkatos con Michele Placido e Flavio Parenti.
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Come immagino che si sia instaurato un bel rapporto anche con il regista Francesco Micciché, dal momento che ti ha scelto anche per Gardini, prodotto Aurora Tv – Rai Fiction.

Francesco è una persona a cui voglio bene. Mi ha richiamato per interpretare Carlo Sama nel docufilm su Gardini, interpretato da Fabrizio Bentivoglio. È un ottimo regista ma anche un uomo che sa portare grande serenità sul set. Ha una bella mano e una bella testa, spero di lavorare ancora insieme a lui.

Quanto è difficile per un attore interpretare un personaggio realmente esistito?

A me piace molto la sfida e la mimesi. Mi era già capitato in passato di vestire i panni di Corrado in Mi permette? Alberto Sordi: il rischio era quello di creare una macchietta. Non si deve cadere nella trappola dell’imitazione, occorre trovare un certo equilibrio con la verità. Ricordavo bene la storia di Sama. Mio padre seguiva in tv il processo Mani Pulite e quindi ho potuto fare affidamento sulla mia memoria storica, un po’ come ho fatto anche per Corrado.

In questi giorni è possibile vederti anche in un altro progetto legato a un fatto realmente accaduto, Circeo, disponibile su Paramount+.

Ho un piccolo ruolo ma ho voluto esserci. Circeo affronta un clamoroso caso di cronaca e riporta l’attenzione su un tema importante: il corpo delle donne. E ci riesce grazie a due attrici molto brave: Greta Scarano e Ambrosia Caldarelli. È un prodotto da vedere per evitare che si ricada negli errori del passato: fa venire i brividi pensare che Angelo Izzo sia stato lasciato libero di tornare ad agire anni dopo indisturbato e con le stesse modalità. In più, la serie tv mostra quanto i movimenti femminili fossero veramente rivoluzionari: più fatti e meno parole, qualcosa che dovremmo imparare tutti.

Più fatti e meno parole, come il tuo impegno con il baskin. Cosa ha rappresentato per te la pallacanestro negli anni passati e cosa rappresenta oggi?

La pallacanestro ha fatto parte della mia giovinezza. Ci giocavo ma poi ho smesso per raggiunti limiti d’altezza: ero troppo basso, un metro e 70. È una passione che mi ha trasmesso mio padre: in Grecia, la pallacanestro ha più importanza del calcio.

Quando ho scoperto il baskin, è stato un tuffo al cuore. Uno dei miei più cari amici, che oggi purtroppo non c’è più, era diversamente abile. Ho condiviso tutta la mia infanzia con lui: dalla scuola elementare in poi, non ci siamo mai lasciati fino al momento della sua dipartita. Si chiamava Jacopo, non parlava ma comunicava con gli occhi o con altri strumenti che noi normodotati non conosciamo. Mi ha cambiato la vita e mi ha insegnato che l’umorismo è un mezzo potentissimo per superare ogni ostacolo.

Quella del baskin è un’esperienza che prima o poi vorrei raccontare in un documentario. I ragazzi hanno messo in atto un sovvertimento delle regole della pallacanestro per rendere lo sport il più inclusivo possibile. È una rivoluzione meravigliosa che vale la pena raccontare e far conoscere a quanta più gente possibile.

Nei confronti di chi è diverso da noi tendiamo ad avere un atteggiamento di paura ma mai di curiosità: l’umorismo potrebbe però essere la chiave di svolta. Le cose che dovrebbero far paura son altre: sono le guerre o gli Angelo Izzo e non gli Jacopo. Ricordo ancora quanto mi incazzavo quando accompagnavo Jacopo per strada e vedevo la gente adulta scansarsi. Credo che sia colpa anche della nostra cultura, il cattolicesimo non ci ha aiutato molto da questo punto di vista.

Tra le tue tante esperienze, c’è anche quella del doppiaggio.

Ho avuto la fortuna di imparare da un grande maestro, di doppiaggio ma anche di recitazione: Massimo Giuliani, colui che mi ha spinto anche a trasferirmi a Roma e verso cui nutro profonda riconoscenza. Ma devo molto anche a Marco Guadagno, che mi ha coinvolto in un provino, poi vinto, con Universal Pictures per il doppiaggio del film Dolittle. Ma anche a Fabrizia Castagnoli o a Ludovica Modugno, che purtroppo non è più con noi. Ho fatto anche di doppiaggio di produzioni italiane, grazie a Nicoletta Negri, che mi ha insegnato tantissime cose che mi sono tornate utili anche come attore.

Ma c’è anche un’altra passione nella tua vita: il cibo.

Mi piace sia cucinare sia mangiare. L’ho ereditata dalla nonna materna, una cuoca molto brava. Mi piace sperimentare in cucina: quella degli chef è una professione che mi affascina. L’alta cucina per me rappresenta un’evoluzione dell’arte contemporanea: ha dietro molto studio non solo della tecnica ma anche delle radici e delle origini dei prodotti, stranieri o legati alla propria terra.

La ricerca delle origini è qualcosa che in qualche modo ti riappacifica con la Terra: ogni prodotto ha un sapore diverso rispetto a quando lo assaggi nella sua terra d’origine. Io, ad esempio, non riesco più a mangiare un dolce greco che si chiama baklava. Quello delle pasticcerie non ha lo stesso sapore di quello che mangiavo quando andavo a casa di mia nonna.

Stefano Skalkotos.
Stefano Skalkotos.
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