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Stella Fabiani: “Siamo affascinati dalla psicologia dei serial killer” – Intervista all’autrice di true crime

Stella Fabiani ha appena pubblicato la serie podcast Delitti di lusso – American Files, fornendoci l’occasione di parlare con lei di true crime. Uno dei generi, se non il genere, più apprezzato dagli italiani (e non solo).

Siamo tutti schiavi del true crime. Lo dimostrano i dati relativi alle serie tv, il proliferare di canali televisivi dedicati al genere e, soprattutto, gli innumerevoli prodotti che quotidianamente arrivano in edicola, nelle librerie e in rete. Esistono diversi modi di raccontare il true crime: c’è chi sceglie la via dell’efferatezza e del dettaglio truce e chi, invece, con empatia, sorellanza e curiosità cerca di capire cosa abbia spinto un assassino ad agire.

A questa seconda categoria appartiene di sicuro Stella Fabiani, l’autrice della serie podcast true crime Delitti di lusso. Dopo il successo della prima “stagione”, l’autrice ha pubblicato lo scorso 19 dicembre su Audible Delitti di lusso – American Files, realizzata da The Biplano Team e prodotta da Storie Libere per Audible Original.

Nei nuovi dieci episodi, Stella Fabiani si occupa di dieci true crime che hanno sconvolto l’alta società americana tra la fine dell’Ottocento e del Novecento. Si tratta quasi sempre di vicende oscure e misteriose in cui l’assassino o gli assassini mandano all’aria le loro esistenze per sporcarsi le mani di sangue, spesso in maniera ingegnosa o machiavellica.

Tra i casi ripercorsi da Stella Fabiani in Delitti di lusso – American Files c’è il famoso “mistero von Bulow” (reso immortale al cinema da un film con Glenn Close e John Malkovich) ma anche la strana vicenda di Nathan Leopold e Richard Loeb (a cui Hitchcock si ispirò per Nodo alla gola). Ma anche gli inganni mortali di H.H.Holmes, considerato il primo serial killer statunitense, che nel suo hotel labirinto a Chicago uccise più di 27 persone; la follia del dottor Carl von Cosel, che per otto anni visse con il cadavere trafugato di una sua giovane paziente; e l’oscuro fascino di Candy Mossler, accusata di adulterio, incesto e omicidio.

Ma cosa affascina autori, spettatori, lettori e ascoltatori? Abbiamo chiesto in quest'intervista la risposta all’autrice, Stella Fabiani che, con le sue storie “romanzate” staziona nei gradini più alti delle classifiche di ascolto tra due mostri sacri come Lucarelli e Picozzi. Così come le abbiamo chiesto cosa abbia spinto lei, produttrice musicale affermata ed ex manager di artisti (Marco Mengoni è ad esempio una sua scoperta), a dedicarsi al true crime.

Stella Fabiani.
Stella Fabiani.

Intervista esclusiva a Stella Fabiani

“Una delle cose che mi piace fare è camminare con i miei due cani in un prato vicino casa. Posso stare lì per ore e ore: sono quelli i momenti in cui sono penso di più, sono più lucida e trovo pace. Mio figlio dice che con i miei cani sto bene. Una dei due l’ho presa in canile, dove ha trascorso nove anni della sua vita a fissare una parete. Sta cominciando ad adattarsi alla casa ma ha una tristezza negli occhi che non perderà mai”.

Comincia così l’intervista a Stella Fabiani, l’autrice della serie podcast Delitti di lusso – American Files. Lei che è abituata a muoversi tra documenti che di pacifico non hanno nulla trova un’altra dimensione a contatto con gli animali, le anime più pure che possano esistere sul pianeta. “Ed è in quei momenti che trovo anche soluzioni e riesco a sorpassare problemi legati alla narrazione di determinati casi. È come se mi si accendesse una lampadina. Si vede che sto in un mood del tutto rilassato e non ansioso. Mi fa bene all’anima e mi rigenero”.

Cosa ti ha portata a interessarti di delitti? Avevi alle spalle una formazione e un percorso professionale totalmente lontani dal genere. Se penso a Stella Fabiani penso alla prima manager di Marco Mengoni e non alla donna che oggi lavora a stretto contatto con l’Associazione nazionale di Criminologia e Analisti Forensi.

Nella musica mi ci ero ritrovata. Mio padre era manager di diversi artisti, tra cui Massimo Ranieri, Lino Banfi ed Ezio Greggio. Mia madre suonava il basso in un gruppo composto da sole donne: sono nata mentre lei era in tournée in Inghilterra. E mio marito faceva parte di una band musicale che era famosa quando ero ragazzina. Sono nata e cresciuta nella musica ed era inevitabile che diventasse il mio lavoro, mi piaceva. Però, ho sempre scritto. Ho cominciato a scrivere mentre frequentavo l’università e l’ho fatto anche per alcune riviste, ad esempio Cioè.

La carriera musicale ha tuttavia preso il sopravvento dopo aver prodotto gli Zero Assoluto. Avevo smesso di scrivere ma la diffusione capillare degli audiolibri non solo destinati agli studenti o agli ipovedenti mi hanno spinta a riprendere in mano un progetto che era nato una decina di anni prima. L’idea ai tempi era quella di realizzare una collana gotica di audiolibri, era quasi tutto pronto per la pubblicazione quando un giorno d’agosto tutto si è fermato nuovamente: mi era arrivato in studio di registrazione il cd di un giovane ragazzo, che abbiamo subito sotto contratto. Quel ragazzo era Marco Mengoni. La sua formazione musicale e artistica ha richiesto tempo ed energie: è stato un incredibile treno che ci ha travolti tutti quanti.

Ma la scrittura è sempre rimasta dentro me. Così, quando è terminata l’esperienza con Marco, ho ricominciato a pensare al mio progetto. Gli audiolibri gotici hanno però lasciato spazio all’interesse psicologico che nel frattempo avevo maturato nei confronti di chi si macchia di delitti spesso atroci. Non sono una giornalista, non mi interessa il racconto della cronaca: mi concentro più su quello che succede a livello umano nella testa delle persone. I miei podcast sono dei romanzati: tutto quello che si ascolta è vero, fa riferimento a diari e interviste, ma è recitato da attori a cui viene richiesto di ricostruire le personalità e le motivazioni degli assassini. In qualche modo, cerco di dare una logica a qualcosa che logica non ha. Non sono Lucarelli o Picozzi, non scendo nello specifico dei delitti o della scienza.

Alcuni dei delitti che racconti sono entrati nell’immaginario collettivo. Come il cosiddetto “mistero von Bulow”.

Ma anche il caso di Nathan Leopold e Richard Loeb che ricorda tantissimo, se ci pensiamo, a quello di Marta Russo. In tutte e due le vicende, la vittima è uno studente e i due assassini sono due ragazzi di buona famiglia, molto colti, perbene e armati di un certo distacco. Pur non giustificando mai l’omicidio, i più poveri solamente ammazzano per istinto ma i ricchi? Ecco, cerco di capire nei miei podcast cosa portare a superare quel filo rosso che porta a commettere un delitto di fronte a eventi complicati e complessi, non di certo tradimenti o gelosie. È come se incontrassi l’assassino in treno e cominciassi a fargli delle domande.

Immagino che le ricerche ti occupino molto tempo.

Di base, sono un topo di biblioteca. Il momento più bello per me di tutta la realizzazione è legato alla parte preparatoria: è quello in cui sei il soggetto in causa e sei immerso nelle ricerche dei documenti. Avevo la stessa idea anche quando mi occupavo di musica, anche perché quando un prodotto poi esce non è più tuo e devi necessariamente fare un passo indietro.

La tecnologia ha fortunatamente reso le mie ricerche più semplici. Mi ha permesso di avere a disposizione documenti che altrimenti mai avrei potuto consultare come giornali o documentazioni di polizia stranieri. Non avrei mai potuto visitare stato per stato!

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Secondo te, per quale ragione siamo tutti quanti così appassionati al true crime?

Non necessariamente perché vorremmo essere gli assassini! Di un serial killer ci affascina la mentalità, la psicologia perversa e la sua arte machiavellica dell’ingegno. Quasi tutti gli assassini sono ingegnosi… è rassicurante vedere i true crime: dentro tutti quanti siamo potenzialmente degli assassini, non scandalizziamoci. Un piccolo killer vive dentro ognuno di noi, altrimenti non si spiegherebbe la persistenza delle guerre nel mondo. Guardare o ascoltare i true crime è in un certo senso catartico. È un po’ come quando guardiamo i film horror sul divano: ci piace aver paura perché comunque siamo consapevoli di esserne fuori.

Nei true crime riversiamo la nostra curiosità dell’assassino ma anche quella nei confronti del fenomeno della morte. Ci interessa, ci piace, ci ammalia sapere cosa scatta nella mente di chi, improvvisamente, decide di gettare la propria vita all’aria. Uccidere in molti casi ha qualcosa di autodistruttivo: si mandano all’aria imperi economici, la propria vita e le proprie aspirazioni per mettere in affatto una crudeltà di un’efferatezza mostruosa. Spesso, non vogliamo vedere o sentire il momento dell’assassinio tout court ma capire che cosa è successo prima e i ragionamenti messi in atto. Ed io mi concentro su questo.

In un primo momento, avrei voluto chiamare la serie podcast La solitudine dell’assassino. Si tratta di una delle ricorrenze principali: spesso l’assassino è una persona sola. Motivo per cui una delle mie chiavi di lettura è l’empatia e non la psicologia o la morbosità per i dettagli più truci. Tant’è che scelgo sempre casi che hanno a che fare con “morti eleganti”. Lo faceva anche Agatha Christie: riusciva a raccontarti aspetti atroci sempre con una certa eleganza.

Personalmente, hai paura della morte?

No, mai avuta. Però, ho cominciato a riflettere sul fatto che tutto è immanenza. L’altro giorno ho portato i cani fuori al tramonto e ho osservato il cielo. Era particolare e mi sono commossa: chissà quante altre volte vedrò quell’immagine che si ripeterà anche quando io non ci sarò.

I casi di cui si racconta nella serie podcast sono tutti avvenuti nella società americana tra Ottocento e Novecento. C’è una particolare spiegazione dietro questa scelta?

Prima di tutto, sono tutti casi che hanno sullo sfondo quell’eleganza a cui abbiamo appena accennato. È vero che si tratta di omicidi efferati ma mancavano di quella violenza brutale che oggi sta invece diventando predominante. Poi, mi interessava parlare di un periodo che conosciamo poco e di storie poco note, quasi dimenticate.

Tra i casi ce n’è uno particolarmente spaventoso, quello di Carl Von Cosel, che rapisce il cadavere di una ventunenne per farla diventare la sua “sposa di vetro”. Come ci si approccia a una storia del genere in cui cadono molti tabù?

Con estrema delicatezza. Ci sono degli aspetti del caso che non ho voluto riportare: studi e autopsie hanno per esempio dimostrato come l’uomo avesse avuto anche rapporti sessuali con il cadavere. Vi risparmio i dettagli su come e su quale espediente abbia usato: sarebbe voyeurismo fine a se stesso, particolari scabrosi che non aggiungono molto a una vicenda già oscura di suo. E il desiderio è frutto della mia volontà di proteggere la vittima. Non dimentichiamo che le vittime sono state tutte persone che sono esistite per davvero. Si parla spesso più degli assassini che delle vittime, ragione per cui trovare informazioni e dettagli su quest’ultime è difficilissimo.

Le vittime non sono solo quelle che sono morte: lo sono anche le persone non morte, i parenti o gli amici che si vedono le vite sconvolte dagli omicidi. Ho voluto che uno dei casi fosse ad esempio raccontato dalla figlia di una vittima per presentare una prospettiva diversa dal solito. Forse perché sono anch’io donna, mi avvicino alle donne con spirito di sorellanza.

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Ogni storia della tua serie podcast viene prima scritta e poi interpretata da attori come se fosse un radiodramma vero e proprio.

Consegno ad Audible un prodotto chiavi in mano. Faccio tutto io con il collettivo di persone con cui lavoro: fonici, musicisti, grafici, attori… siamo tutti compenetrati, sappiamo di che cosa parliamo: facciamo riunioni su riunioni, ci confrontiamo e facciamo le nostre ricerche. Quando la scrittura è pronta, mostriamo agli attori filmati o facciamo ascoltare registrazioni: devono entrare nei personaggi ed essere loro, porsi delle domande e cercare le risposte, nel rispetto di chi ascolta.

A livello personale, cosa ti rimane delle storie che approfondisci?

Sta cominciando a rimanermi molto. Noto che è cambiato il mio punto di vista quando conosco le persone. È come se oramai riconoscessi certi meccanismi che si mettono in atto o certe fragilità. Ma non solo. A livello più superficiale, poiché nella prima serie mi sono occupata anche di delitti italiani, ogni volta che passo da uno dei luoghi degli omicidi non posso che ricordare cosa è accaduto esattamente in quel posto. Non è facile scrollarsi di dosso quello che si approfondisce: è un po’ quello che accade anche ai reporter di guerra, l’esperienza ravvicinata con determinate situazioni ti cambia per sempre.

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