L’Orso d’Oro al Miglior Film al Festival di Berlino 2023 è andato a Sull’Adamant di Nicolas Philibert, un documentario che la giuria presieduta da Kristen Stewart ha voluto premiare per la delicatezza con cui ha affrontato il tema della salute mentale e che ora arriva in sala grazie a I Wonder Pictures come evento speciale dall'11 al 13 marzo.
L’Adamant del titolo del film Sull’Adamant è un centro di cura unico nel suo genere. Struttura galleggiante situata sulla Senna, nel cuore di Parigi, accoglie adulti affetti da disturbi mentali, offrendo un tipo di assistenza che li aiuta a collocarsi nello spazio e nel tempo e a mantenere alto il morale. Il team che lo gestisce cerca di combattere il deterioramento e la disumanizzazione della psichiatria nel miglior modo possibile.
L’approccio di Nicholas Philibert, uno dei più grandi documentaristi di oggi, è unico: il suo interesse è sempre il soggetto e tutto ciò che gli ruota intorno. La fiducia è al centro del suo lavoro e nel film Sull’Adamant si rivela la chiave vincente, specialmente perché rimessa nelle sue mani da soggetti che avrebbero più di qualche ragione per diffidare dei loro simili.
Cos’è l’Adamant
L’Adamant, la struttura al centro del film Sull’Adamant, è ormeggiata a Quai de la Rapée, sulla riva destra della Senna, a due passi dalla stazione ferroviaria di Gare de Lyon. È un “centro diurno” e fa parte del Gruppo di Psichiatria Centrale di Parigi, che include altri due centri, un team mobile e due unità all’interno dell’ospedale psichiatrico di Esquirol (tristemente famoso in passato come il manicomio di Charenton), a sua volta annesso al complesso dell’ospedale di Saint-Maurice.
Con grandi vetrate che si aprono sul fiume, l’Adamant è un edificio in legno con una superficie di 650 metri quadri. Gli architetti che lo hanno progettato hanno lavorato a stretto contatto con gli assistenti e i pazienti per capire come organizzare al meglio gli spazi dei vari settori. Aperto nel luglio del 2010, è dedicato ai pazienti dei primi quattro arrondissement della capitale francese.
Alcuni pazienti si recano tutti i giorni all’Adamant, mentre altri solo saltuariamente a intervalli di tempo più o meno regolari. I pazienti sono di tutte le età e provengono da differenti contesti socio-culturali. La settimana per loro inizia con una colazione per tutti quelli che sono presenti e prosegue con l’incontro del lunedì, a cui sono ammessi sia gli assistenti sia gli assistiti. Tutti possono portare argomenti all’ordine del giorno in un continuo brain storming di idee, notizie e progetti.
Il team degli assistenti dell’Adamant è composto da infermieri, psicologi, terapisti occupazionali, uno psichiatra, un ufficio di segreteria, due agenti del servizio ospedaliero e vari collaboratori esterni. Attenzione particolare viene rivolta verso la cosiddetta “vita di tutti i giorni”, da costruire insieme senza che nessuno detti leggi, condizioni o limiti.
La terapia messa in atto, infatti, riguarda non i singoli assistiti ma il gruppo nel suo insieme. Tutti devono essere coinvolti in qualche cosa senza distinzione di titoli di studio, classe di appartenenza, identità di genere e unicità proprie. Chiunque può parlare con chiunque e non ci si stupisca se un paziente confidi le sue preoccupazioni al barista anziché allo psichiatra di turno: l’équipe medica troverà sempre un modo per collegare tutte le informazioni che vengono sparse all’interno dell’Adamant.
Numerosi sono poi i laboratori destinati agli assistiti: cucito, musica, lettura, cineforum, scrittura, disegno e pittura, radio, pelletteria e così via. Ma chi non vuol praticare nulla può frequentare l’Adamant anche solo per prendere un caffè, sentirsi ascoltato e sostenuto e fare amicizia. Perché l’Adamant non è altro che un invito a non chiudersi in casa, a riconnettersi con il mondo e a rimodellare il suo rapporto con esso.
Tre domande al regista
Per capire il mondo di Sull’Adamant e il perché ha conquistato il Festival di Berlino 2023, vi presentiamo il film attraverso le parole del regista Nicolas Philibert.
Com’è nato Sull’Adamant, il suo film?
"Ho sentito parlare per la prima volta dell’Adamant ben quindici anni fa quando era ancora solo un progetto. Al’epoca, la psicologa e psicoanalista Linda de Zitter, con cui sono rimasto in ottimi rapporti dalle riprese di un mio film alla clinica psichiatrica La Borde, era coinvolta nell’emozionante avventura della creazione del centro: per mesi, pazienti e assistenti si sono incontrati con le squadre di architetti per definirne le componenti fondamentali.
Quello che era iniziato come un sogno utopico è divenuto pian piano realtà. Sette o otto anni fa, sono stato per la prima volta all’Adamant per parlare del mio lavoro di regista al Rhizome, un workshop o, meglio, una conversazione di gruppo che si tiene ogni venerdì nella libreria del centro di cura. Alla conversazione, un paio di volte all’anno, vengono invitati degli ospiti: musicisti, romanzieri, filosofi, curatori di mostre…
E quel giorno è toccato a me: ho passato due ore davanti a un gruppo di persone che, preparate per la mia visita guardando alcuni dei miei film, mi portavano continuamente fuori dalla mia comfort zone. Sono abituato per il lavoro che faccio a parlare davanti a tanta gente ma loro mi spronavano continuamente a farlo con le loro osservazioni: ne sono uscito come rinvigorito.
Da lì, il desiderio girare un altro film sul mondo della psichiatria, un desiderio che già avevo e che da quella circostanza è stato rafforzato".
E perché aveva tale desiderio?
"Sono sempre stato molto attento e interessato alla psichiatria. È un universo tanto inquietante quanto stimolante nella misura in cui ci costringe costantemente a pensare a noi stessi, ai nostri limiti, ai nostri difetti e al modo in cui funziona il mondo. La psichiatria è una lente d’ingrandimento che dice molto sulla nostra umanità. Per un regista, è una fonte inesauribile.
Inoltre, negli ultimi venticinque anni, il settore della psichiatria pubblica è peggiorato in maniera esponenziale: tagli di bilancio, diminuzione dei posti letto, mancanza di personale, demotivazione in chi vi lavora, strutture fatiscenti, assistenti costretti a compiti amministrativi o spesso ridotti al ruolo di semplici guardiani, ritorno all’uso di stanze di isolamento e contenzione… Questo declino mi ha dato una motivazione in più per girare il film Sull’Adamant.
Non che ci sia mai stata un’età dell’oro della psichiatria ma ora è completamente abbandonata dalle istituzioni. È come se non volessimo più vedere il “matto”: non se ne parla più se non in termini di natura pericolosa. La retorica della sicurezza di gran parte della classe politica e di una certa stampa ha contribuito a fare il resto. In un contesto così devastato, un luogo come l’Adamant sembra un piccolo miracolo e dobbiamo chiederci quanto a lungo resisterà".
Perché ha allora scelto di raccontare un posto che non è rappresentativo della situazione che descrive? Non c’è il rischio di offrire un’immagine parziale o illusoria della psichiatria?
"Cos’è la psichiatria? Non c’è una risposta univoca. La psichiatria è qualcosa che ha forme plurali e sempre alla ricerca di revisione. Io volevo mostrare quella psichiatria umana che, nonostante le minacce, ancora resiste. Resiste a tutto ciò che sta distruggendo la società ovunque e prova a rimanere dignitosa. Il film non denuncia esplicitamente lo status quo del settore ma lo fa implicitamente mostrando l’esatto contrario.
L’Adamant è un posto atipico ma non è l’unico. È sperimentale e si prende dei rischi, andando lontano dal cliché secondo cui la malattia mentale è degradante. Alla sua base c’è la relazione umana".