Una delle prime domande che Susanna Parigi si pone nel corso dell’intervista che leggerete è diretta e chiara: è mai possibile che in Italia venga uccisa una donna al giorno? Ed è una di quelle a cui si rimane sempre disarmati e senza risposta. Non occorre solo rafforzare le leggi che puniscono il reato di femminicidio, bisognerebbe anche risalire all’origine del problema: la sconfitta dell’uomo di fronte a un modello che viene imposto come vincente.
E di vittoria e sconfitte parla anche Caro m'è 'l sonno (Logo Records/Self Distribuzione – digital: Warner/ADA Music Italy), l’album della cantante, autrice e scrittrice fiorentina Susanna Parigi. Si tratta di otto nuove canzoni che sondano in profondità aspetti umani e comportamentali dei tempi che viviamo, temi di non facile lettura e interpretazione. Non è un caso che con il disco Susanna Parigi voglia rivolgersi a persone “disorientate”, che non si riconoscono in niente, sono dimenticate, non sentono appartenenza e si sentono fuori posto.
Dobbiamo davvero dormire mentre fuori perdurano il danno e la vergogna, come suggerisce la quartina di Michelangelo da cui l’album di Susanna Parigi ha tratto il titolo? Una risposta non c’è e nemmeno Susanna Parigi ce la dà (come averne, d’altronde, oggi?). Forse potrebbe stare nella riscoperta delle relazioni e del significato della parola comunità.
Tutte le canzoni sono prodotte da Taketo Gohara, a cui è spettato il compito di innestare respiro e profondità a un disco raro e unico nell’asettico panorama italiano del momento.
Intervista esclusiva a Susanna Parigi
Caro m’è ‘l sonno, il titolo del tuo ultimo album, è estrapolato da un verso di Michelangelo.
Il titolo è ripreso da una quartina di Michelangelo. Il senso è ben spiegato da come continua: Fatemi dormire mentre fuori perdura il danno e la vergogna. Il non suo voler vedere cosa accade intorno non è una forma di nichilismo ma è una frase ironica per sottolineare come ci sia talmente tanta vergogna che è meglio non vederla. Ho pensato che fosse un buon titolo per un disco che si rivolge a persone spaesate e disorientate, che non si ritrovano in tante cose che stanno avvenendo.
Chi sono le persone spaesate e disorientate?
Il loro è un senso di non appartenenza, come diceva Gaber. È come se fossero costantemente fuori posto, come se non ci fosse niente che parla di loro. Non si riconoscono ad esempio negli slogan della politica senza contenuti: sono tutte quelle persone che hanno seri problemi ad andare a votare perché nessuno dei candidati parla dei problemi seri o tangibili. La sanità, per citarne uno che riguarda tutti. Quello della sanità è un problema enorme. La sanità è uno degli aspetti più importanti della vita delle persone, eppure nessuno se ne interessa. È mai possibile che la sanità in Italia non funzioni e che si spinga la gente a rivolgersi sempre più al privato?
Ma le persone spaesate sono anche quelle che non si trovano nei modelli che propone la visibilità televisiva (e non solo), caratterizzati da poca eleganza e poca cultura. O nei modelli imposti dal consumismo compulsivo, nel conformismo dei tatuaggi, nell’egocentrismo e nella forma, ormai sdoganata, litigiosa e arrogante dell’apparire. O, ancora, nella religione dei catechismi, quelli che sembrano dedicati ai bambini ma che poi vengono propinati agli adulti.
Riassumendo un po’, ci sono tanti aspetti della vita quotidiana in cui queste persone, considerate fantasmi, non si trovano: il mio album è dedicato a tutti loro.
Citi la parola fantasma e non posso non pensare come fantasma, per altri versi, sia anche colui di cui canti nell’ultima traccia del disco, Tu fuori, io dentro. La canzone racconta di un immigrato che in una giornata di pioggia viene fatto scendere nell’indifferenza generale da un tram solo perché non aveva i soldi per il biglietto.
È una storia vera che mi è accaduta all’epoca in cui insegnavo a Monopoli e per spostarmi dovevo prendere aerei, navette e treni. In uno di questi tanti viaggi, tra Brindisi e l’aeroporto, mi è capitato di assistere a ciò di cui canto nella canzone. E, come dico, non me sono quasi resa conto perché stavo su Instagram. Non voglio parlare male dei social, hanno una loro utilità, ma quello che critico è l’abuso che se ne fa e che ne fanno soprattutto i giovani e i giovanissimi. Chi è cresciuto in un determinato periodo storico ha barriere di difesa più alte mentre i più giovani non hanno filtri e ne vengono travolti.
L’immigrato è certo un fantasma ma i fantasmi di cui parlo io e a cui è rivolto il disco sono tutti coloro che non vengono presi in considerazione, non si vedono e non parlano, perché considerati piuttosto scomodi. E perché scomodi? Perché si pongono delle domande e non vanno dietro al gregge. L’immigrato, invece, è uno di quei fantasmi che sono legati all’invisibilità, qualcuno che facciamo finta di non vedere perché ci è stato detto essere un delinquente perdendo ogni barlume di umanità. Se questa gente viene in Italia e rischia la vita per farlo ci sarà pure un motivo, non ci si può girare dall’altra parte.
Purtroppo, in Italia, c’è una certa parte politica che spinge a non vederli, che preferisce non risolvere i problemi e ritiene che sia meglio darne a loro la colpa. Ritornando alla sanità, è mai possibile che si debba poter fare un esame dopo un anno o che i risultati arrivino dopo una lunga attesa? Non è colpa degli immigrati ma solo di chi non risolve il problema.
Tuttavia, il mio non è un disco politico, anche se poi tutto è politica. Ho cercato di restituire piccoli quadri sintetici: una canzone non è un racconto o un romanzo e in tre minuti deve concentrare il concetto che vuoi esprimere. Nel mio piccolo, ho cercato di dipingere vari aspetti legati a questa situazione di spaesamento, in cui l’indifferenza delle persone – come diceva Gramsci – è ciò su cui non si può puntare. Perché invece di pubblicare la foto del piatto di pasta su Instagram o l’ultimo scatto al mare non cominciamo a pubblicare post in cui evidenziamo ciò che non va? Perché non cominciamo a scrivere mail ai giornali per denunciare le varie situazioni? Nella sanità, ci stiamo dirigendo verso una realtà medievale: chi non ha denaro non ci cura.
In Forse è possibile tratti lo spaesamento che si produce dalla percezione che abbiamo della vittoria e della sconfitta. Nell’epoca dell’apparire a tutti i costi, si propone un modello che è sempre vincente. Secondo te qual è la chiave per non lasciarsi travolgere dalla religione del successo?
Domanda difficile. Nel mio piccolo, posso dare una risposta se vogliamo anche banale: la ricostruzione dei rapporti è l’unica chiave che abbiamo. È la disgregazione che ci ha portato a questo punto: non riusciamo più a parlare con nessuno, a cominciare dai call center, per qualsiasi bisogno o necessità. È come se ci avessero messo un filtro: non riuscendo a lamentarsi, il problema è come se non ci fosse o fosse risolto. La comunità, in senso sociologico, è forse l’unica salvezza possibile. Dobbiamo tornare a rapportarci con chi, come i nonni o i saggi con tanta esperienza sulle spalle, possono raccontarci qualcosa o dirci come si fa a vivere.
Ci hanno messo un filtro ma anche un continuo meno davanti, parafrasando il tuo singolo Io sono il meno.
Il meno è il segno della sottrazione. E in quella canzone ho cantato di come la sottrazione tolga senso alla vita delle persone. E, togliendo senso, si spiega anche perché, come dicono le statistiche, nei ragazzi a livello mondiale siano aumentati del 370% i disturbi psichici, tra autolesionismo, bulimia, anoressia, abuso di sostanze e consumismo compulsivo. Si tratta di disturbi per cui moltissimi giovani devono ricorrere persino all’ospedalizzazione. Facciamoci delle domande sul perché accade. Chiediamoci perché avviene un femminicidio al giorno, per esempio.
L’uccisione di una donna non deve diventare un’abitudine: è il chiaro segno di un uomo che non accetta una sconfitta. Non serve solo potenziare le leggi ma cercare di individuare il problema a monte. Occorre entrare nella testa di alcuni uomini e capire perché non reggono la sconfitta.
In Io sono il meno parli del “corpo delle martori anoressiche”. Perché martiri?
Vedo, in fondo, l’anoressia come un volersi togliere la vita. Non voglio banalizzare il disturbo, non sono un’esperta o un modico, ma alcune anoressiche è come se volessero annullarsi del tutto e scomparire. Per loro, l’anoressia in un certo senso è una forma di suicidio. Vedo le ragazze che ne soffrono sono le martiri del nostro tempo perché sentono e percepiscono che qualcosa non va bene: la loro è una reazione a qualcosa.
Il brano più personale dell’album è sicuramente 5% di Grazia.
Ho sempre qualche difficoltà a parlarne. A una persona a me molto cara era stata diagnosticata una malattia con una percentuale di sopravvivenza del 5%. Ma quel 5% si è trasformato in grazia ricevuta, dal momento che è ancora qui. Quando si vivono determinate situazioni, non sai più a cosa aggrapparti. Allora, capita che ci si aggrappi alle parole di alcune persone. E le parole spesso aiutano tanto, sono davvero una medicina se sono dette in maniera giusta, pensata e non tanto per dire.
E le parole di alcune persone sono più giuste di quelle di altri. Sicuramente sono giuste le parole dei genitori, gli stessi che hai ricordato anche sui social. Qual è il più importante insegnamento che ti hanno trasmesso i tuoi, Mosè e Domenica?
Mi hanno insegnato tutto con i fatti e non con le parole. Con le parole, si corre il rischio di dire una cosa e poi farne un’altra: i figli notano le discrepanze. I miei, quindi, mi hanno insegnato tanto con i fatti e più di ogni cosa mi hanno trasmesso il significato del lavoro e della fatica: hanno sempre lavorato tanto con dignità. Sento spesso dire “Mi sono divertito a fare il disco”, ad esempio, ma la vita non è tutto divertimento. Se vuoi procedere con solidità, devi metterci tanto impegno e tanta fatica.
E mi hanno insegnato cos’è l’onestà. Loro erano persone oneste: bastava vedere come si comportavano per capire cosa significa essere persone perbene che agiscono secondo una coscienza.
Coscienza che forse manca all’Uomo che trema, al centro dell’omonima canzone. Cosa serve per far superare all’uomo le tante paure che gli vengono instillate?
La comunità e i rapporti di cui si parlava prima farebbero già tanto. Viviamo in un sistema per cui è impossibile non avere paura. Non controlliamo più niente per cui ci si deve affidare. Affidarsi significa fidarsi di qualcuno o qualcosa ma come fai a farlo quando l’unica divinità a cui tutti rispondiamo è il denaro, il profitto? L’unica legge sembra quella del profitto: non interessa più offrire ad esempio un buon prodotto: conta il guadagno a discapito della qualità. Nelle piccole come nelle grandi cose: da ciò che si porta a tavola all’aria che respiri.
Non riuscendo a fidarci, viviamo costantemente nella paura di tutto, dai batteri alla depressione. Siamo un popolo di gente impasticcata. Se facciamo così largo uso di psicofarmaci vuol dire che non stiamo bene, che c’è un problema di base: la paura. La canzone non è altro che un elenco delle paure che ci fanno venire tutti i giorni, da quella del diverso a quella del terrorista.
La logica del profitto sembra imperare anche nel mondo discografico. Oh mio Dio le lezioni di canto è una canzone che mi fa pensare a quanto oggi si faccia musica per guadagnar soldi e non per arte.
Nell’industria discografica, molto è cambiato negli ultimi quindici, vent’anni. Prima c’era il divertimento: si poteva scegliere tra Orietta Berti e Fabrizio De André, due estremi in mezzo ai quali c’era il mondo. Oggi invece sembra che si pensi solo a un target: la maggior parte dei testi su cui si punta sono adolescenziali, senza voler sminuire nessuno (spesso c’è anche tanta roba fatta bene). Sono rivolti a un pubblico che va dai 13 ai 25 anni: se sei un trentenne, già non ne capisci più il linguaggio. E sono costruiti a tavolino proprio per vendere: serve quella ritmica, quell’arrangiamento o quel tipo di voce per aver un buon esito su Spotify o per essere tiktokabile. In tale contesto, quale spazio puoi lasciare alla creatività?
Quanto è stato difficile per te far uscire il tuo disco?
Ho trovato persone che hanno creduto nel progetto, come Warner che lo distribuisce in digitale e Self in formato fisico. Però, indubbiamente, non è facile: sono pochi quelli che vogliono proporre qualcosa di diverso. E, infatti, in tanti scappano dall’Italia e vanno altrove.
Sui social scrivi “Sono Susanna il cane: faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non mi do niente e mordo gli arroganti”. Quali sono le persone che ti danno qualcosa?
Sono le persone in grado di sintonizzarsi con gli altri, che sono compassionevoli e hanno la capacità di ascoltare.
E aggiungi che dentro di te “albergano una bestia, un angelo e una pazza”.
Anche questo è vero. Con diverse canzoni ho dimostrato di essere pazza. Ma a volte i pazzi sono quelli da cui riesci a scoprire delle verità. Parlano senza paura, per cui i pazzi sono quelli un po’ più sinceri.
Perché hai un rapporto di odio e amore con il pianoforte?
Il pianoforte è una brutta bestia. È qualcosa per cui non smetti mai di studiare, non c’è un punto di arrivo. Comporta sacrifici su sacrifici, soprattutto quando lo si studia a livello classico: non puoi mai smettere perché rischi di perdere altrimenti l’agilità delle mani.
Studiare al conservatorio comporta anche il sottomettersi a una certa rigidità da parte degli insegnanti. Cosa ti rimane addosso?
Sicuramente il fatto che la vita non è tutta un divertimento. Se vuoi ottenere dei risultati seri e duraturi, devi studiare. Devi metterci fatica e sforzo. Rimane quindi il senso di disciplina.
È vero che da piccola andavi a suonare a casa di Luigi Dallapiccola?
Si. La moglie di Dellapiccola metteva a disposizione il pianoforte di suo marito per far studiare chi non ne aveva uno in casa. Io ce l’avevo ma era uno di quelli verticali che, per prepararsi al diploma, è limitato. Andavo allora da questa signora per studiare su un pianoforte a coda. Era bellissimo, si entrava in un’atmosfera d’altri tempi.
E che ricordi hai della Susanna che ha mosso i primi passi in televisione?
Non è un bel ricordo, in tv mi sono sempre trovata male. L’ho dovuta fare perché partivo da zero, senza denaro e senza raccomandazioni. Era un modo per entrare nell’ambiente ma non mi sono mai trovata a mio agio.