È uscito da poche settimane Bougainvillea, il nuovo album di Tatum Rush (Undamento). Composto da quattro brani, Bougainvillea segna il ritorno di Tatum Rush sulle scene musicali dopo il successo di Villa Tatum, il primo album in italiano pubblicato nello scorso mese di ottobre, ma è anche un punto di rottura verso quel lavoro, rispondente a un’esigenza del giovane artista di mettersi alla ricerca di qualcosa di nuovo.
In eterno movimento, del resto, Tatum Rush lo è sempre stato fin dalla nascita. Venuto al mondo a San Diego in California trentatré anni fa, è cresciuto in Svizzera in un particolare meltin’ pot di cultura italiana, francese e statunitense, tutte influenze che hanno contribuito a forgiare l’uomo e l’artista polivalente che è. Con una laurea in Performance Art, Tatum Rush ha fatto del mondo la sua casa, spostandosi e lavorando tra Losanna, Parigi, Berlino e Milano. Produzione di brani, videoarte e figurazioni d’opera sono per lui pane quotidiano ma, come scopriremo nel corso di quest’intervista, si è avvicinato anche alla regia cinematografica.
E l’esigenza di fondo per Tatum Rush è sempre la stessa: trovare un mezzo per comunicare a modo proprio le proprie idee o se stesso. Da solo o in compagnia di tanti amici come ha fatto per Bougainvillea, a cui hanno partecipato in vesti differenti il pianista brasiliano Jorjao Barreto, Popa, Irbis, Golden Years e Lulu, sua musa ispiratrice e compagna. Senza paura di osare o di restituire atmosfere senza tempo e desiderio di altrove.
Intervista esclusiva a Tatum Rush
“Sono nato a San Diego in California perché mio padre è dell’Ohio mentre sono cresciuto e vivo in Svizzera, a Lugano in questo momento, perché mia madre è ticinese”, mi risponde Tatum Rush quando gli chiedo della sua biografia transcontinentale.
È uscito di recente il tuo nuovo EP, Bouganvillea, composto da quattro brani. Come nasce il progetto?
Nasce dall’urgenza di cominciare subito un nuovo percorso dopo l’uscita di Villa Tatum, il mio ultimo album risalente relativamente a poco tempo fa, a ottobre. Quell’album era un punto di arrivo dopo un lungo processo segnato anche da due anni di Covid mentre Bouganvillea segna per me una ripartenza verso orizzonti un po’ più spensierati e liberi.
I brani che lo compongono sono nati in maniera più spontanea e rapida con un po’ di saudade del Brasile, dove avevo pianificato di tornare dopo il periodo di sbattimento tra la fine del disco precedente e la successiva ripartenza. Non poteva esserci modo migliore per ripartire che tornare a Rio de Janeiro, dove Bounganvillea è stato in parte prodotto, riportando in musica i colori e l’energia delle sue atmosfere.
L’EP si apre con Pelle di luna, in cui duetti con Popa, la regina del pop di lusso. Come si sono incrociati i vostri due percorsi?
Il giorno in cui ho scoperto Popa ho sentito sin da subito una forte affinità artistica non solo per i temi cantati ma anche per l’attitudine e il modo di prendersi poco sul serio con eleganza. Ho immaginato sin dal primo momento che ci saremmo prima o poi incontrati ma non ho voluto mai forzare la cosa. Ho aspettato quindi che il primo incontro avvenisse quasi casualmente. L’ho poi invitata alla festa di lancio di Villa Tatum ed è stata l’occasione perfetta per far conoscenza. Ne è seguito dopo un lento corteggiamento di idee: non le ho proposto immediatamente di fare una canzone insieme, sembrava quasi troppo ovvio. È maturata semmai pian piano un’amicizia, abbiamo voluto rivederci e, scambiandoci referenze, la collaborazione è arrivata in maniera molto naturale.
Nel testo della canzone si fa cenno agli abissi più oscuri dell’altra persona. In un gioco di ribaltamento, quali sono i tuoi abissi più oscuri?
Tutto il brano in verità fa un’allusione un po’ celata alla poesia di Oscar Wilde e, in particolare, a Salomé, personaggio femminile un po’ dannato, misterioso e anche capriccioso. E la capricciosità di Salomé ha anche un lato oscuro. Per quanto riguarda me, il mio abisso più oscuro potrebbe essere quello poetico, quello che nel mio ideale si avvicina, non so, a Rimbaud e alla stagione dei poeti dell’inferno, un lato oscuro che richiama gli ideale del Romanticismo. Sono forse un po’ un dannato che alla fine viene riportato a galla nel mondo del giorno e della leggerezza.
L’album poi prosegue con la canzone che più di ogni altra è legata al Brasile, Malegria, in cui sostieni di vivere la vita e l’amore contromano. Come si vive un amore o una vita contromano?
In modo magari un po’ irresponsabile, impulsivo o, più semplicemente, non convenzionale. Nella vita amorosa ci si ritrova ogni tanto ad andare contromano per seguire l’altra persona, ritrovandosi a fare un cammino opposto a quello che dovresti o vorresti fare: ti ritrovi in un’altra dinamica diversa dalla tua però con accettazione. Alla fine, occorre ritrovarsi indirizzati anche verso una via che non era prevista.
Parli con cognizione di causa o per ipotesi?
Ne parlo in termini forse più universali. Ho una vita amorosa abbastanza felice e stabile, anche se un po’ non così convenzionale. Ma tutta la mia vita in generale è poco convenzionale forse, senza scendere troppo nei dettagli.
L’accettazione è uno di quei processi fondamentali che si richiedono all’essere umano: accettazione degli altri ma anche di se stessi. Quando ti sei accettato come uomo?
Forse mi sono accettato nel modo più completo con questo EP. Mi sembra di aver trovato il modo di disfarmi di un’ulteriore maschera che indossavo, anche perché il mio percorso artistico è cominciato veramente con delle maschere, con dei travestimenti e con anche una distanza ironica. Per la prima volta sento di aver raggiunto una certa familiarità con me stesso e con la mia scrittura: posso essere più sincero e anche meno ironico, più naturale.
Rodolfo, la terza canzone di Bouganvillea, immagina un incontro con un sosia di Rodolfo Valentino. so che fa comunque riferimento al periodo in cui lavoravi come figurante al Teatro dell’Opera di Ginevra.
È stato un periodo magico. Finivo le Belle Arti a Ginevra ed ero senza preoccupazioni per il futuro. Vivevo alla giornata, un po’ ancora oggi, e volevo fare esperienze, anche estetiche. Avevo letto un annuncio in cui si cercavano figuranti e subito mi sono immaginato grazie a quel lavoro di poter sbirciare dentro a quel mondo così anche molto romantico di un passato che sopravvive tuttora. Ho lavorato come figurante per due anni, durante i quali ho incontrato la mia attuale partner, impegnata anche lei con delle figurazioni. Nel ricordo di quel periodo e di quell’atmosfera, ho voluto ricreare nella canzone tutta una storiella di personaggi che assomigliano a vecchie figure, poeti e cantanti d’opera.
Rodolfo Valentino ci è stato tramandato come il casanova per eccellenza. Ti sei mai sentito un Rodolfo Valentino?
Quando ho scoperto la sua figura, sono rimasto affascinato sia dal personaggio sia dall’epoca in cui ha vissuto. Esisteva uno star system completamento diverso da quello di oggi: i personaggi rimanevano avvolti da un alone di mistero e di lui, divo del cinema muto, non si conosceva nemmeno la voce. È diventato subito per me una specie di icona in grado di ispirarmi con la sua eleganza… non so se mi sono mai sentito un Rodolfo Valentino ma sicuramente provo a prendere spunto dalla sua eleganza.
Rodolfo Valentino a vent’anni era già un signore. Vale lo stesso anche per te?
A vent’anni oggi non siamo ancora signori mentre ai suoi tempi era diverso. Oggi viviamo in un mondo in cui fino a quarant’anni non si viene considerati e non ci si considera adulti. All’epoca, invece, a vent’anni dovevi già essere un uomo maturo in tutti i sensi: ricordiamoci che era tutto un po’ più duro, le aspettative di vita erano più basse e occorreva crearsi molto presto la propria strada. E anche questo è qualcosa che mi affascina rispetto a un oggi in cui non si diventa mai veramente adulti.
Quand’è stata la prima volta in cui ti sei sentito adulto?
Ho avuto la fortuna di interessarmi al jazz molto giovane, intorno ai quattordici o quindi anni. E il mondo del jazz è frequentato soprattutto da persone di una certa età: non è che ci fossero tantissimi giovanissimi… mi sono ritrovato quindi immerso in un mondo che era molto adulto e di persone molto più grandi di me. Più stavo con loro e più non avvertivo alcuna differenza. Ma da sempre ho avuto la tendenze ad avere amici più vecchi di me.
Hai spezzato presto il legame con casa?
No, perché non c’era bisogno di farlo. Ho sempre ricevuto tutto il supporto possibile dalla mia famiglia e non ho mai avuto l’esigenza di rompere o staccare con i miei genitori. C’era semmai quasi un rapporto di connivenza con loro, quasi di amicizia.
Dovuto anche alle loro origini e a un’idea differente di famiglia?
Non so, non ho mai pensato a questa differenza culturale. Più che altro credo che ogni famiglia sia diversa dall’altra e che ogni padre e madre abbiano uno stile parentale differente. Si può trovare di tutto ovunque.
Tornando a Rodolfo, il testo è per metà italiano e per metà francese, lingua che lo rende forse ancor più sensuale di quello che è.
Il francese è la lingua di Lulu, con cui duetto nel brano. Lulu è la mia compagna e, comunque, la mia musa ispiratrice da molti anni. Il francese è la lingua che parlo con lei e che mi appartiene, anche perché ho studiato a Ginevra e ho vissuto in città francofone per parecchi anni.
La commistione nasce dal mio desiderio di poter esportare della musica in italiano o con dell’italiano anche al di fuori dei territori italofoni. Mi piacerebbe come obiettivo riuscire a trascendere la lingua e creare qualcosa che venga apprezzato: sarebbe anche il momento che l’Italia si rivolga al mondo.
Bouganvillea si chiude con Cuore violento, un brano che nelle sonorità ricorda ciò che in questo momento funziona in radio in Italia ma che nel linguaggio si discosta per ricercatezza. Quanto tempo hai impiegato a scriverlo?
Non più di un pomeriggio: di base, sono abbastanza veloce quando scrivo, a parte qualche eccezione che mi porta a far delle ricerche. È stato un pezzo molto immediato e spontaneo, nato senza farmi troppe domande sul suo potenziale radiofonico. È vero che a livello sonoro di genere potrebbe distaccarsi dal mio ma l’ho scritto con lo stesso stato d’animo degli altri: molto semplicemente, rappresenta un po’ la mia natura eclettica. Mi piace giocare con più generi e creare una narrativa attorno alle canzoni anche con il linguaggio delle immagini.
Giocando con il testo, cosa urlerebbe Giove?
Urlerebbe di mera presenza, di luce. Giove è la stella che si vede per prima in cielo: la sua luce è così forte che sembra avere un suono, una faccia, un urlo. È una figura di stile per dare un suono a un’immagine, a una luce. Non penso che il suo sia un urlo di violenza.
Sul tuo profilo social, hai lanciato quella che reputi una perfetta ricetta psicoanalitica: artificio, stilizzazione, teatralizzazione, ironia, giocosità ed esagerazione.
Faccio una confessione. È una frase che ho scritto storpiando la definizione del Camp, termine coniato da Susan Sontag per descrivere un certo tipo di umorismo nel cinema e nell’arte degli anni Settanta. Il Camp è sempre stato il mio linguaggio artistico preferito perché in un certo senso rigira la realtà con l’esagerazione e l’ironia.
A proposito di arte, sei anche laureato in Performance Art.
Tutto quello che ho imparato alle Belle Arti mi è utile tutti i giorni per far fronte a tutti i problemi che possono sorgere nel creare musica o, da artista di qualsiasi tipo, nel riuscire ad articolare delle idee con un linguaggio proprio. Che sia performance art, videoarte o musica, bisogna risolvere sempre gli stessi quesiti e occorre trovare il modo di comunicare le idee o le sensazioni con se stessi.
Tutto quello che si sente nella mia musica, tutte le mie referenze, molto spesso sono prese da altri campi oltre alla musica stessa. E la musica che ascolto quotidianamente non è mai vicinissima alla musica che faccio. Non è per forza la musica il mio primo bacino di ricerca ma lo sono tutte le esperienze che possono risultare interessanti e ispiranti in tutti i campi, non solo dell’arte ma anche della vita stessa.
E qual è l’ultima esperienza interessante che hai fatto?
Sto finendo in questi giorni un documentario che ho girato su un guru indiano, il guru dei Beatles che ha vissuto in Svizzera per dodici anni. È stato un lungo lavoro: la storia del guru e del luogo in cui abitava ha occupato molto della mia testa e ha ispirato molte cose che un giorno probabilmente si tradurranno in pezzi di canzoni o frasi.