Teresa Saponangelo è stata l’attrice del 2022. Lo ha stabilito l’Accademia del Cinema Italiano assegnandole un David di Donatello come migliore attrice per È stata la mano di Dio, dove interpreta la madre di Paolo Sorrentino. E quello di madre oltre che di moglie è il ruolo che interpreta anche in Il nostro generale, la serie tv d Rai 1 in quattro puntate (9, 10, 16 e 17 gennaio). Dora Fabbo, a cui Teresa Saponangelo, è chiamata a dar volto non era semplice da portare sullo schermo per tutta la carica emotiva che la figura si porta dietro.
Innanzitutto, Dora Fabbo era la prima moglie del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (nella serie impersonato da Sergio Castellitto), quella meno ricordata perché non accanto a lui nel momento in cui è stato assassinato a Palermo il 3 settembre 1982: al suo fianco, Dalla Chiesa quel giorno aveva la seconda moglie, Emanuela Setti Carraro, e di lei raccontarono ieri le cronache e oggi i libri di storia. In secondo luogo, Dora Fabbro era la madre di Rita, Nando e Simona Dalla Chiesa, tre figli di cui era fiera e che sono oggi ancora in vita, tutti impegnati in campi diversi.
Come se non bastasse, Dora Fabbro era una donna consapevole delle scelte fatte in vita: laureata, aveva deciso di supportare il marito nel difficile cammino che lo attendeva. E, last but not least, Dora Fabbo è stata una vittima degli anni bui in cui ha vissuto. Vittima indiretta del terrorismo che il marito ha combattuto: il suo cuore ha ceduto a soli 52 anni nel 1978 a poche settimane dal rapimento di Aldo Moro.
E tutto ciò la serie tv di Rai 1 Il nostro generale, prodotta da StandByMe in collaborazione con Rai Fiction e diretta da Lucio Pellegrini con Andrea Jublin, lo racconta molto bene e in maniera naturale. Laddove non si poteva puntare alla verità fisica, Teresa Saponangelo ha puntato sulla verità emotiva per restituire tutta la complessità di Dora Fabbo. E per riuscirci si è fatta in qualche modo consigliare da chi Dora Fabbo l’aveva avuta come madre: Rita Dalla Chiesa.
Ed è da questo che partiamo per la nostra intervista esclusiva a Teresa Saponangelo. La promozione della serie tv Il nostro generale diventa il tramite per un discorso a tutto tondo sull’essere donna ieri e oggi, sulle difficoltà di un mestiere come il suo non sempre facile sia per le sfide professionali sia per quelle private e sulla determinazione. Quest’ultimo è un termine che ben spiega il percorso di Teresa Saponangelo sia come attrice sia come donna, da sempre decisa sul da farsi anche quando le si sono presentati tentennamenti e dubbi.
Intervista esclusiva a Teresa Saponangelo
In Il nostro generale, interpreti Dora Fabbo, la prima moglie di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Quando pensiamo al generale, per ragioni legate a quel tragico 3 settembre 1982, ci viene sempre in mente Emanuela Setti Carraro. Dimentichiamo che la prima vittima della tragedia che ha interessato la famiglia Dalla Chiesa è stata proprio Dora, morta di infarto a soli 52 anni.
Dora è vittima dei tempi che ha vissuto e dei terroristi. Tutti pensavano che sarebbe rimasta vedova e invece sono rimasti poi sorpresi dalla sua morte.
Com’è stato entrare nei suoi panni? In conferenza stampa, Rita Dalla Chiesa ha detto una cosa molto commovente: “ringrazio tutti quanti per avermi restituito una famiglia”.
È stato molto bello quello che ha detto. Rita era molto impaurita: c’erano state altre operazioni che a lei non erano particolarmente piaciute perché considerate un po’ superficiali rispetto alla madre e alla raffigurazione che ne veniva fatta. Prima di interpretare Dora, ho conservato con Rita per due ore e ciò che ha tentato di restituirmi e trasmettermi è quanto la madre fosse molto attenta alla cura dei figli, nonostante non concedesse loro tante smancerie.
Dora, del resto, era una donna che apparteneva a un’epoca diversa dalla nostra in cui c’era si viveva in maniera diversa l’essere donne. Se penso a mia nonna, per esempio, rivedo una donna che adorava i figli e i nipoti ma che non si concedeva loro mai troppo. Quindi, ho cercato di costruire il personaggio sulla misura, su un equilibrio di presenza. Naturalmente, ho seguito le indicazioni di sceneggiatura e regia ma ho giocato anche con gli sguardi. Nella costruzione dei personaggi di Dora e di Carlo Alberto, dove non ci sono le parole, c’è lo sguardo, uno sguardo d’intesa.
Mi ha aiutata quello che mi ha raccontato Rita, grazie a cui sono venuta a conoscenza anche di aneddoti familiari che non erano in scrittura ma che ho voluto portare in scena d’accordo con Lucio Pellegrini e Andrea Jublin, anche se ho lavorato per ovvie ragioni più con il primo che con il secondo. Rita, ad esempio, mi ha parlato di una mamma a cui piaceva cantare e questa sua caratteristica è entrata anche in Il nostro generale.
Dopo la morte di Dora, il generale Dalla Chiesa ha cominciato a tenere un diario segreto in cui le scriveva. Hai avuto modo di leggerlo?
Non l’ho letto. O, meglio, ho letto solo piccoli estratti che mi sono stati passati. Nell’economia della preparazione del lavoro che si fa, si operano delle scelte. Il personaggio di Dora era quello scritto e ho sentito sufficienti gli elementi che mi erano stati dati e ciò che mi aveva detto Rita. Mi sono bastati per capire quello che avrei voluto mettere in Dora: talvolta, un’immersione troppo eccessiva rischia di appesantire i personaggi.
Ma avevo fatto lo stesso per È stata la mano di Dio: quando ho chiesto a Paolo Sorrentino come avrei dovuto costruire il personaggio di sua madre, mi ha risposto di sorridere, “se sorridi, sei nel personaggio; se ti incupisci sei da un’altra parte”. E per quel film ho lavorato sul sorriso e sulle arance, due appigli fisici che hanno dettato la linea della costruzione del personaggio. Troppe informazioni rischiano di confondere: di Dora mi bastava sapere che era molto innamorata di Carlo Alberto.
Anche perché la responsabilità è grande: il ricordo di Dora è vivo nei figli.
La responsabilità si sente. Speriamo di non tradire il ricordo che hanno. Dora era il simbolo dell’unione familiare.
In qualche modo faceva da trait d’union tra il padre “conservatore” e i figli “progressisti”.
I figli raccontano che, sebbene da militare non avesse una visione così progressista, il padre era molto in ascolto. Ascoltava i figli e li invitava a perseguire i loro sogni e le loro aspirazioni. Non era un uomo molto repressivo o limitante. Carlo Alberto e Dora sono stati due validi genitori che hanno permesso ai figli di esprimersi ognuno nel loro settore, dal giornalismo alla politica e all’insegnamento, facendo poi delle belle carriere.
Com’è stato ritrovare Sergio Castellitto a distanza di anni da Il sindaco pescatore?
Molto bello. Anche perché abbiamo avuto la possibilità di lavorare maggiormente fianco a fianco. Abbiamo avuto molte più scene insieme, c’è stata più intimità e recitavamo a un pari livello rispetto al set di qualche anno fa.
In una delle scene di Il nostro generale, la figlia Rita (Camilla Sevino Favro) dice alla madre di volersi dedicare al giornalismo e di non far come lei che, laureata, ha scelto la famiglia.
Dora aveva fatto una scelta consapevole che non era stata una rinuncia. Si sentiva realizzata come moglie e come madre. Tenere in piedi la famiglia era una delle cose più importanti per lei e a cui attribuiva un grandissimo valore. Vivere in una caserma non è facile per cui avere qualcuno che ti aspetta a casa è un valore aggiunto: Dora ne era consapevole.
Oggi qualcuno potrebbe dire che non era il massimo per il femminismo.
Non era quella la sua aspirazione in quel momento. La sua vera libertà era la famiglia. A me sorprende come a volte ancora oggi alcune donne, anche laureate e ben istruite, scelgano di stare accanto ai mariti in caserma. Ho diverse amiche pugliesi che, sposate con piloti o marescialli, hanno seguito i mariti nelle varie destinazioni. Resto sorpresa ma non trovo che sia una diminutio.
Dora in quella scena con Rita invita la figlia a inseguire la propria inclinazione. Quando è stata invece Teresa Saponangelo a dire alla madre che voleva far l’attrice, qual è stata la reazione?
Ha detto che avrei dovuto prima laurearmi e solo dopo, semmai, avrei potuto percorrere la strada della recitazione. Chiaramente, le ho spiegato sin da subito che, se avessi impiegato del tempo a laurearmi, avrei cominciato tardi a far l’attrice. Non è stato facile convincerla ma avevo dalla mia la determinazione. Ultimamente ho incontrato dei conoscenti che si ricordano ancora di quando mia madre non voleva che facessi l’attrice. Ho risposto loro: “È bello che voi ve ne ricordiate perché lei non lo ricorda!” (ride, ndr).
Bisogna essere sempre molto convinti delle proprie scelte, anche se i tentennamenti e i dubbi ci saranno sempre. Nel corso del mio percorso ne ho avuti diversi, ci sono stati momenti in cui mi sono chiesta che altro avrei potuto fare, quale avrebbe potuto essere l’alternativa. Però, non ho mai creduto seriamente a un’alternativa: recitare era la scelta giusta, quella che mi stava più a cuore.
I dubbi nascevano dal non sentirsi realizzata?
Ci sono stati momenti in cui recitare sempre la parte della sorella non mi soddisfaceva abbastanza. Anche perché avevo già avuto la possibilità sin dagli esordi di cimentarmi in ruoli bellissimi. Ho avuto ad esempio la fortuna di lavorare con Antonio Capuano in Pianese Nunzio e Polvere di Napoli a pochi anni dal mio esordio con Il verificatore. Sapevo già cosa fosse il grande cinema e, quindi, scendere a compromessi è stato molto duro, soprattutto quando questi si dilatano nel tempo e ti portano a investire anche due o tre anni della tua vita (ma anche quattro!) in ruoli che non ti danno soddisfazioni. Inevitabilmente, un po’ ti demoralizzi.
Quel periodo sembra essere alle spalle. Stai vivendo un periodo di grandi affermazioni, come sta accadendo a diverse attrici della tua generazione, Vanessa Scalera su tutte. Per anni siete state sotto valorizzate in ruoli secondari fino a quando poi qualcosa è finalmente cambiato. Quale pensi sia stato nel tuo caso il momento di svolta?
I momenti di svolta possono essere stati diversi. Artisticamente ho avuto vari momenti di svolta: portare a teatro Il Tartufo con Toni Servillo e vincere un premio Ubu, così come girare Polvere di Napoli o essere la protagonista di In principio erano le mutande di Anna Negri. Il problema è semmai un altro. La svolta non ha portato una continuità di ruoli interessanti e, quindi, al consolidamento di una posizione.
Bisogna anche dirlo, quello di attrice è un lavoro strano, dove in un momento tutti davanti a te si entusiasmano e un secondo dopo si disinteressano. Quello che ha mostrato Vanessa Scalera e forse anch’io attraverso È stata la mano di Dio è una fortissima determinazione. Questa è una professione che puoi fare fino a novant’anni: emergere a 40 o a 50 anni è relativo, l’importante è che ci sia continuità, ovvero la possibilità di fare il tuo lavoro senza grandi pause. È la più grande delle ricchezze ma anche il più grande successo.
Pensi che per le donne ci sia meno continuità rispetto agli uomini?
È chiaro. Ma anche per via delle storie che si raccontano. Non si scrivono storie così interessanti per le donne come per gli uomini. Si scrivono ancora storie maschili: anche se i protagonisti sono femminili, il ritratto è ancora maschile. Non ci raccontano vicende tipicamente femminili: sì, abbiamo il commissario o il medico donna ma hanno sempre un profilo maschile. Non ci sono storie tipicamente femminili, come può essere il racconto di una donna che sceglie di ricorrere alla fecondazione assistita. Siamo sempre di fronte a personaggi maschili declinati al femminile.
Teresa Saponangelo in Il nostro generale
1 / 15A proposito di differenze di genere, in Il nostro generale hai lavorato con una produttrice, Simona Ercolani.
Simona è una donna determinata, mi piace molto. Non ho grande conoscenza della storia delle produzioni e dei produttori ma mi sembra che non ci siano molte donne in giro, si contano sulle dita di una mano. Simona è molto caparbia, si pone degli obiettivi e li raggiunge. Con Il nostro generale è riuscita a fare un lavoro di valore, senza risparmiarsi in nulla. Mi colpiscono le donne che hanno il suo piglio e che riescono a farsi ascoltare.
Quanto essere un’attrice inficia la sfera privata? Sei mamma di un sedicenne, Luciano, nipote di un regista che spesso non viene adeguatamente ricordato, il maestro Luciano Emmer.
Ho avuto la fortuna di sposare, anche se poi ci siamo separati, Davide Emmer, un regista e una persona che fa il mio stesso mestiere e mi ha capita. Non è stato quindi così difficile organizzarsi. Sicuramente, è stato ed è difficile voler fare bene contemporaneamente la madre e l’attrice: ho una certa mania di controllo per cui vorrei che tutto andasse o procedesse sempre bene. Mio figlio non ha avvertito la mia mancanza nella sua vita, sono molto presente. Forse l’unica mancanza che potrebbe aver sentito è quella fisica…
Anche per questioni di logistica, suppongo.
Quando ho potuto, ho portato Luciano sempre con me. Ha trascorso i primi tre anni della sua vita a Napoli quando giravo La squadra. Ho lavorato poi spesso d’estate e l’ho portato sui set. È stato con me all’Asinara per le riprese di La stoffa dei sogni. In un certo modo, ha goduto di questo mestiere e oggi è orgogliosissimo della mamma. Racconta in giro di aver una mamma che ha vinto il David di Donatello così come il Nastro d’Argento e che ha lavorato con Paolo Sorrentino! Penso che il mio lavoro non gli abbia tolto nulla, anzi: gli ha forse dato qualcosa.
Quando lo portavi sui set, c’erano strutture o persone addette alla sua cura?
No. Quando si gira un film si è per strada: sarebbe strano trovare un luogo deputato ai bambini. Ma l’accoglienza e il calore che si creano su un set fanno sì che si formino delle famiglie meravigliose. Ho sempre avuto la fortuna di lavorare con produzioni bellissime, uno un po’ si sceglie il percorso che fa, no?
Ultimamente, sul set di I limoni d’inverno, il nuovo film di Caterina Carone che mi vede al fianco di Christian De Sica, è venuta a farci visita la classe di mio figlio con la professoressa di italiano e quella di educazione fisica. Le docenti sono rimaste soprese dall’atmosfera che si respirava: non hanno visto chissà quali grandi cose (si giravano piccoli dettagli e movimenti) ma erano rimaste colpite dal clima di familiarità e accoglienza.
Mio figlio ha avuto la possibilità (e ancora ce l’avrà) di vivere questa dimensione un po’ fantastica ma anche di gioco serio grazie a cui si può capire il peso che tutti hanno nella produzione di un film. Durante la visita, ci ho tenuto particolarmente a presentare il fonico, la segretaria di edizione, la sarta… sono loro la ricchezza enorme che andrebbe più volta raccontata.
Il 2023 è per te un anno particolare. Ti avvicini anagraficamente a una soglia importante. Hai già fatto un primo bilancio dei tuoi primi cinquant’anni?
No. Non voglio fare bilanci perché è tutto aperto, è tutto in divenire. Un po’ come in amore. Non si possono fare bilanci, esisterà sempre un prossimo amore: bisogna non fermarsi a riflettere!