I The Heron Temple hanno finalmente pubblicato il loro primo disco, W.A.U., a distanza di anni dalla loro esperienza a X Factor 11, l’edizione a cui hanno preso parte anche i Maneskin per intenderci. Duo nato nel 2016, i The Heron Temple rispondono al nome di Valerio Panzavecchia e Vincent Hank, due giovani musicisti palermitani che hanno unito i loro talenti per dare vita a uno dei gruppi più originali del panorama musicale italiano.
Perché sia passato tanto tempo dalla loro partecipazione al talent alla pubblicazione del disco ce lo raccontano gli stessi The Heron Temple per mezzo di un’intervista esclusiva a Valerio. E quello che emerge è la maturità con cui i due musicisti hanno voluto aspettare di essere pronti. Sarebbe stato facile, ad esempio, sfruttare la notorietà che aveva dato loro il programma e provare a cavalcare l’onda. Ma i The Heron Temple volevano suonare qualcosa che fosse loro e rispecchiasse la loro idea di musica.
Certo, i The Heron Temple non sono stati fermi. Hanno ad esempio aperto i concerti di grandi realtà italiane come Fabri Fibra, Fabrizio Moro, Willie Peyote, Edoardo Bennato e i La Rappresentante di Lista. E proprio Roberto Cammarata, chitarrista dei LRDL, ha supervisionato la nascita e la realizzazione di W.A.U., un disco che i The Heron Temple, ci tengono a sottolinearlo, si sono prodotti da soli. E il cui risultato è davvero wow.
Intervista esclusiva ai The Heron Temple
A cosa si deve il titolo del vostro primo album, W.A.U., l’acronimo di Where Are You (dove sei?)?
Rappresenta un po’ una provocazione. In questo periodo strico, si fa fatica a scavare attorno ai significati del titolo di un disco. Siamo abituati a volere tutto e subito ma rimaniamo spesso in superficie. Chi ascolta il nostro disco si deve chiedere invece cosa significhi W.A.U. e di conseguenza approfondire di cosa parli.
Ci abbiamo messo del tempo prima di arrivare al titolo ma, fondamentalmente, ci siamo resi conto che ben rappresentava il filo conduttore di tutti i brani, ovvero la distanza, non intesa dal punto di vista non solo fisico ma anche mentale. Quotidianamente tutti quanti chiediamo “dove sei?” ma non pensiamo a cosa si cela dietro a quelle due parole: mancanza, desiderio, bisogno ma non solo… anche ricerca, cura, voglia di prendersi e anche amore. Quindi, il “dove sei?” esprime e rende perfettamente l’idea delle emozioni che ci hanno portato a scrivere le canzoni del disco. Non nasconde un significato unico ma racchiude semmai tantissime sfaccettature.
W.A.U. restituisce anche un’idea di meraviglia, se vogliamo. Ricorda tanto wow.
Si, ci abbiamo pensato. Ci piaceva il suono anche a livello fonetico.
E wow è la prima parola che viene in mente dopo aver ascoltato il vostro lavoro. Si coglie una certa maturità sia a livello testuale sia a livello armonico. Lanciate, però, come singolo Ci facciamo male, il brano più acido dell’album che non si direbbe proprio radiofonico: è il più sperimentale. Come mai questa scelta?
Intanto, grazie per l’analisi e per quello che hai detto sul disco: ci teniamo tantissimo perché il lavoro di scrittura è stato lunghissimo. È stato un cammino che abbiamo fatto insieme a Roberto Cammarata, il chitarrista dei La Rappresentante di Lista che ci fa fatto da produttore. Quando si è solo in due e si hanno anche visioni discordanti, serve sempre un parere esterno che illumini la strada da perseguire. Roberto ci ha fatto da faro.
Ci facciamo male è stato in fase di produzione un brano che è uscito fuori quasi dal nulla. Ci piaceva che fosse meno stratificato di altri a livello sonoro: un po’ più minimal ma d’impatto. E ci piacevano la batteria, i synth bass e la voce distorta. Il risultato raggiunto ci ha portato a pensare che fosse il brano più giusto per rappresentare W.A.U. dopo aver fatto uscire tre brani dal sapore diverso: Sciogliersi un po’ (un po’ più fresco), Coltelli (dalle atmosfere rock) e Falliscono i locali (una ballad che descriveva il periodo storico in cui stavamo vivendo nonostante fosse stato scritto in un altro momento).
Quindi, è stato scelto come singolo di lancio perché volevamo un brano capace di fare da spartiacque, diverso, senza i suoni più melodici e dolci. Ci piace non avere e allo stesso tempo non dare punti di riferimento. Ci sono band che hanno un suono definito che a lungo andare può stancare: noi invece cerchiamo sempre nuovi elementi di ispirazione su cui lavorare. Poi è chiaro che, siamo i primi a dirlo, è un disco d’esordio: è la prima volta in cui ci approcciamo alla scrittura di un disco e a tutto quello che vi gira intorno, dalla promozione ai live. Ci stiamo dedicando a tantissimi aspetti che ci stanno facendo crescere: W.A.U. può risultare un po’ acerbo ma con il tempo speriamo di affinare i suoni, puntando a far uscire cose diverse.
Quali sono state le difficoltà maggiori che avete incontrato nel realizzare W.A.U.?
La prima l’abbiamo incontrata in fase di scrittura. Non avevamo dieci brani pronti e, di conseguenza, non ci siamo chiusi in uno studio a registrarli tutti insieme. Sono nati a poco a poco e per questo è stato, come dicevo prima, un lavoro molto lungo che ci ha portato a crescere di pari passo con gli sviluppi del disco.
Le altre difficoltà sono inerenti al processo creativo stesso. Quando dovevamo scrivere delle linee di chitarra, Roberto ci consigliava che chitarristi ascoltare. Sentivamo molti dischi, ad esempio, per assimilarne i suoni. Scrivevamo poi le nostre linee di chitarre, cestinandone alcune e modificandone altre. E così via per la batteria, le linee vocali, le melodie…
E forse la più grande di tutte è stata l’autoproduzione. Non avevamo l’appoggio economico da parte di un’etichetta o di altre figure che si muovono in ambito musicale. Abbiamo dovuto pagare tutto noi, con uno sforzo non indifferente, ma quando credi in qualcosa in qualche maniera riesci sempre a farla. Sappiamo perfettamente che i suoni in alcuni casi risultano più acidi rispetto al panorama mainstream ma fa parte un po’ del processo di crescita, della gavetta.
Eppure, avevate partecipato a X Factor, no? Cosa è successo dopo?
È un’esperienza che ricordiamo tuttora con molto piacere, ovviamente, per quanto possa sembrare scontato e banale. È avvenuta dal nulla. Vincent e io ci conoscevamo da tantissimi anni ma avevamo da poco cominciato a suonare insieme da poco. Portavamo in giro delle cover in inglese e avevamo registrato in casa sua il video di No Diggity, un brano di Chet Faker. L’avevamo fatto a prescindere, magari in molti oggi lo fanno per avere più visibilità.
Quando sono cominciati i casting del programma, abbiamo però deciso di inviare il video senza aspettarci niente. Ci siamo ritrovati a fare le audition da un giorno all’altro, ricordo che Vincent in quel momento stava suonando in Norvegia con un artista palermitano che fa rockabilly, Manuel Bellone. È andata bene… è andata bene fino a un certo punto, uscendo agli home visit. Pensando a quello che è successo poi a Maneskin, abbiamo partecipato a un’edizione che si ricorderà per sempre e che non è proprio passata inosservata.
A livello discografico ci ha penalizzato molto che non avessimo dei brani nostri in quel frangente. Facevamo solo cover ma noi non volevamo sfruttare la visibilità per andare in giro proponendo brani di altri. Volevamo canzoni nostre. Abbiamo allora cominciato a scrivere e sono usciti Vulnerabile e Milano ti divora, i nostri primi due singoli, ma a distanza di mesi da quel contesto televisivo: più passa il tempo da quando sei apparso sullo schermo, meno la gente si ricorda di te. La visibilità era man mano svanita, come succede tutt’ora a tutti i partecipanti dopo la fine di ogni edizione. Per far sì che qualcuno rimanga sulla cresta, serve che ci sia chi ci creda, anche a livello di comunicazione. Come è stato per i Maneskin, su cui la Sony ha puntato.
I talent sono un’arma a doppio taglio che devi sapere sfruttare a tuo favore in qualche modo. Ma non è semplice, soprattutto quando non hai alle spalle una gavetta: rischi di uscirne proprio male e di non riuscire a rialzarti mai. Fortunatamente, noi eravamo un po’ più maturi in questo senso ma non nego che ci siamo rimasti anche noi male. Abbiamo avuto dopo un periodo di down: è fisiologico quando passi dall’essere sulla bocca di tutti al venir tagliato fuori da certe dinamiche. Tuttavia, oggi siamo felici di essere qui: è stato un processo lento, c’è stata anche una pandemia di mezzo, ma possiamo portare le nostre canzoni in giro.
Come siete usciti dal momento di down?
Scrivendo canzoni. E scrivendo canzoni che non fossero influenzate dal parere degli altri o lontane da quello che ti piace realmente fare. A un certo punto, abbiamo pure pensato che era meglio fermarci. Poi, abbiamo capito che non sarebbe stata la strada giusta e che quella da percorrere era la via della credibilità. E per essere credibili dovevamo restare uniti, scrivere quello che ci piaceva ed esprimerci con la nostra arte, quella che ci ha influenzati e con la quale siamo cresciuti. La musica è arte. Quella di X-Factor lo era anche ma spettacolarizzata, era pur sempre uno show.
Non abbiamo mollato e abbiamo perseverato. Ma ci ha spronato a non demordere l’aver incontrato gente che ci ha fatto capire che qualcosa di buono in quello che facevamo c’era. A volte basta anche una semplice parola… Fino ai 18 anni ho giocato a calcio, ero in un certo senso abituato alle sconfitte e al rialzarsi dopo un campionato perso. Come si dice in Sicilia, i cavalli buoni si vedono a lunga corsa!
In molte delle canzoni di W.A.U. si affronta il tema romantico. E vi vediamo come giovani uomini “vittime” delle donne di oggi. Cos’è la cosiddetta crisi del maschio moderno?
Anche quello riguarda la distanza. Non è casuale come termine: quando abbiamo scritto i primi brani, sia io sia Vincent vivevamo due relazioni a distanza. Io stavo con quella che è ancora adesso la mia ragazza: lei però viveva a Milano e io a Palermo. Quindi, la distanza è diventato un elemento che ci ha fornito molta ispirazione. Ma quella che cantiamo è una forma d’amore senza genere predefinito: l’oggetto può essere una donna come può essere un uomo, non ci piacciono le etichette. Ci piace di più l’idea che chi ascolta le canzoni possa rispecchiarsi in esse senza alcuna distinzione.
In Ombre, c’è un verso che mi ha particolarmente colpito: “Rimango un uomo che ha cambiato prospettiva e si perde tra le incognite di un foglio che non scriviamo mai”. Chi è di voi due?
È un verso che ha scritto Vincent. È una canzone che parla di luci e di ombre, di fogli che non riusciamo a scrivere per paura di fare le scelte sbagliate, di buttarci in qualcosa che poi ci fa stare male sempre in relazione all’amore. Ma anche del timore di cambiare, appunto, prospettiva, di guardarsi indietro e non riconoscersi in quello che si è scelto di fare.
E che ci fate svegli alle 5 del mattino, come cantate in Portami via?
Quello che era sveglio alle 5 del mattino era Vincent. È una canzone che possiamo definire descrittiva perché nasce da una sua esperienza realmente vissuta. Si era messo in macchina alle cinque del mattino per andare a Trapani per una questione di amore. È uno di quei brani che a livello di sonorità mi piace ascoltare più di notte che di giorno per via delle sue atmosfere, forse un po’ ombrose e tenebrose se vogliamo. Forse perché è uno di quelli, la maggior parte, che è nato di notte. Altri invece, come Sciogliersi un po’ che strizza l’occhio al funk e alla musica degli anni Settanta che amo, mi piace invece sentirli maggiormente di giorno.
Com’è stato iniziare a fare musica da adolescenti in una città come Palermo, che non è certo Milano o Roma?
Fino a qualche anno fa, non avevo idea di quali fossero le differenze perché semplicemente non conoscevo la realtà delle altre città. La musica negli ultimi anni, come tante altre cose, è cambiata velocemente. Quando abbiamo cominciato a suonare noi, al liceo, con Vincent condividevamo un box: lui suonava con la band di cui faceva parte allora, io invece ero impegnato progetto più rock.
Non esistevano i social e per far ascoltare la propria musica si aveva a disposizione solo MySpace, una piattaforma che era incentrata più sul suonare dal vivo e che creava connessioni tra i vari artisti. Oggi funziona tutto diversamente, soprattutto nel mondo del pop: si punta prima alla produzione e solo dopo ai live. Ci siamo dovuti adattare anche noi al cambiamento ma continuiamo a preferire il suonare dal vivo, a stare sul palco e a sentire il contatto con le persone. È la cosa che più ci è mancata negli ultimi due anni a causa della pandemia.
A proposito di live, avete aperto i concerti di La Rappresentante di Lista, Fabri Fibra, Fabrizio Moro, Willie Peyote, Edoardo Bennato… tutti nomi non da poco.
Sono state tutte esperienze molto belle e formative. Consideriamo i La Rappresentante di Lista nostri amici, ci hanno dato spesso una mano e consigli quando capitava che facessimo ascoltare loro delle cose.
Hai accennato prima all’esperienza da calciatore. Perché hai smesso?
Fino ai 18 anni ma non era quella la mia strada principale: c’era sempre la musica sullo sfondo. Sia il calcio sia la musica sono due passioni che mi hanno trasmesso i miei fratelli maggiori. Alla scuola calcio mi hanno iscritto i miei genitori per evitare che rompessi le vetrine dei mobili di casa con le pallonate! L’esperienza calcistica mi ha fatto crescere parecchio: facevo cinque allenamenti al giorno, andavo a dormire presto il sabato sera e mi ero abituato a fare sacrifici e lavorare sodo per perseguire un obiettivo. Mi ha insegnato quella che considero un’etica che ho poi portato in ogni ambito, da quello musicale a quello lavorativo.
Ma a 18 anni ho capito che il calcio non era più una strada che volevo seguire. Mi sono gettato a capofitto nella musica e sull’università. Mi mancano sette materie alla laurea in Urbanistica. Mio padre è architetto e sin da piccolo ho avuto a che fare con l’arte; quindi, non era una scelta tanto lontana: c’è quasi un filo conduttore. Non ho poi proseguito con gli studi perché nel frattempo è intervenuta l’esperienza a X Factor e ho preferito dedicarmi alla musica al 100%. Ma mai dire mai: può essere che un giorno mi laureerò.
Com’è cambiata la scena palermitana da quando avete cominciato voi?
Noi artisti palermitani abbiamo una marcia in più dettata forse dal partire in svantaggio rispetto ad altre realtà. Viviamo in un’isola a tutti gli effetti. Stare in una città come Palermo, piena di contraddizioni, decadente e affascinante al tempo stesso a livello compositivo ed espressivo, è stimolante. Non è una città di passaggio per artisti internazionali di un certo tipo, non ci sono le grandi radio o etichette discografiche, ma ci offre ben altro: gli stimoli.
E la scena musicale è molto attiva, ci sono tantissimi validi artisti che hanno fame o voglia di farsi notare. Il successo degli ultimi anni di Dimartino, Carnesi o i La Rappresentante di Lista ha spinto molti giovani a prendere in mano uno strumento e a credere nella musica. Le grandi città non sono più così lontane come un tempo: bastano 45 minuti per arrivare a Roma e i voli, rispetto a trent’anni fa, sono più accessibili.
Cosa si aspettano i The Heron Temple da W.A.U.?
Non ci aspettiamo niente, sono sincero. L’unica cosa che vogliamo è suonare. L’album è un biglietto da visita per fare esperienza personale, per crescere e per rodare con i ragazzi che ci accompagneranno durante il tour del disco. Abbiamo imparato a non aspettarci niente: preferiamo rimanere con i piedi per terra e pensare al prossimo disco. Tutto ciò che di bello potrà venire, ovviamente, lo accogliamo a braccia aperte.
E se dovesse arrivare Sanremo?
Andremmo volentieri. Non abbiamo preconcetti, altrimenti non avremmo partecipato nemmeno a X Factor. Qualsiasi esperienza che ci aiuti a crescere è benvenuta: l’importante è sempre come la vivi. Sanremo è il più grande amplificatore di musica che esiste in Italia e si può parteciparvi anche senza snaturarsi. Non scenderemmo mai a compromessi: per fortuna, negli ultimi anni, la direzione artistica di Amadeus ha messo in atto uno svecchiamento interessante che presta un po’ più di attenzione alla musica e alle varie realtà di oggi.