The Niro è uno dei cantautori più interessanti della scena italiana e non solo. Lo sa bene, ad esempio, Gary Lucas, che quattro anni fa lo scelse come voce dell’album The Complete Jeff Buckley and Gary Lucas Songbook, in cui il chitarrista ha affidato alla voce di The Niro dodici brani scritti a quattro mani con Jeff Buckley, di cui cinque inediti.
A distanza di nove anni dal precedente album di inediti, The Niro ha ora pubblicato il suo nuovo disco di inediti, Un mondo perfetto (Esordisco), che contiene dieci brani intimi ed emozionanti, quasi tutti (a eccezione di Never Fall in Love) cantanti in italiano. Quelle di The Niro sono canzoni che parlano di amicizia, amore e affetti familiari, gli ingredienti che hanno segnato l’ultimo decennio della sua vita.
Cantautore e polistrumentista romano, The Niro (al secolo Davide Combusti) si racconta a TheWom.it con un’intervista altrettanto intima e introspettiva. A partire dalle sue canzoni, racconta il suo mondo, i suoi dolori, la sua inquietudine e la costante ricerca di felicità, pur nella consapevolezza che non esista. Ma ci svela anche le sue innumerevoli moltitudini artistiche, una caratteristica ereditata dalla madre.
Compositore di diverse colonne sonore ma anche attore (lo abbiamo visto in Il primo giorno della mia vita di Paolo Genovese), The Niro negli ultimi tempi ha scoperto anche la passione per le illustrazioni, usando come moniker quello di “Illustri illustrazioni” e arrivando già alla sua tredicesima mostra personale.
Intervista esclusiva a The Niro
“The Niro era il nome che avevamo scelto per la band di giovani ragazzi in cui suonavo”, mi risponde Davide Combusti quando gli chiedo del perché del suo nome d’arte. “Volevamo un nome che fosse un tributo al mondo del cinema. Avevamo pensato dapprima a Bogart ma ci si chiamava già qualcuno altro, così come Monroe. Nessuno aveva invece mai usato De Niro: era perfetto ma abbiamo sostituito il “De” con “The”… ed è curioso come quel The mi accompagni ancora oggi nella mia attività di illustratore: è la mia firma sotto a ogni disegno”.
Un mondo perfetto, il tuo album appena uscito, arriva a nove anni di distanza dal precedente lavoro di inediti. Nove anni sono tanti, soprattutto per un sistema come quello musicale profondamente cambiato nel frattempo. Perché così tanto tempo?
Avevo iniziato a lavorare all’album nel 2016 ma una serie di vicissitudini personali legate a dei lutti (quello di mia madre prima e quello del mio produttore storico dopo) ne hanno rallentato la produzione. Lo avevo ripreso in mano a metà 2017 quando poi mi è arrivata la chiamata di Gary Lucas che mi proponeva la realizzazione di un songbook con dei brani firmati da lui e Jeff Buckley, compresi cinque inediti. Ho dato, dunque, precedenza a quel progetto, andato anche molto ben. Una volta terminata la promozione di quel lavoro, ho ripreso in mano la produzione del disco per la terza volta, senza sapere che da lì a poco la pandemia avrebbe bloccato nuovamente tutto. Dopodiché abbiamo atteso e ce la siamo presa anche un po’ comoda: non ci sembrava mai il momento giusto per farlo uscire.
In nove anni immagino che tu abbia apportato delle modifiche al lavoro già fatto, ai testi e alle composizioni.
Dei pezzi a cui stavo lavorando all’inizio ne saranno rimasti più o meno la metà. L’altra metà è stata scritta durante la pandemia. Ho aggiornato la scaletta in base a un’urgenza narrativa diversa, per cui qualche brano che non mi sembrava più giusto per questo album è stato sostituito ma non perché avesse meno valore intrinseco: semplicemente il mondo era un po’ cambiato. Faccio dischi in cui dalla prima all’ultima canzone c’è sempre una correlazione, una sorta di filo logico che lega tutto, e non semplici raccolte di brani inediti. Ecco, se avessi aspettato altri due o tre mesi a pubblicare Un mondo perfetto probabilmente avrei cambiato ancora brani o avrei realizzato un triplo album (tanto per tediare il pubblico).
Nove anni di vita corrispondono a nove anni di cambiamenti. Il più importante lo si evince dall’ultima canzone del disco, Certi amori, che trae origine dalla forma più grande di amore che ogni persona possa sperimentare: quello materno.
Il brano parte dalla fotografia del momento in cui uscivo dall’ospedale dove ero andato per dare l’ultimo e il primo saluto a mia madre, appena passata a miglior vita (almeno lo spero), anche se la vita che ha vissuto sulla Terra credo sia stata molto piacevole e le abbia regalato tante belle emozioni. C’era un’atmosfera meteorologica che ricordo ancora perfettamente, con un alito di vento che mi accarezzava quasi per confortarmi. La canzone nasce dall’idea di parlare di lei per mantenerla in vita attraverso una canzone.
In uno dei versi, sostieni di non sbagliare più perché dentro di te c’è lei…
Purtroppo, in questo ho fallito perché continuo a sbagliare. Ogni tanto faccio dei giri anche nel mondo del cinema, componendo colonne sonore e cimentandomi anche nella recitazione nel film Il primo giorno della mia vita di Paolo Genovese. E a proposito di cinema ricordo che lessi L’ABC della regia, un volume che parte sin da subito con un distinguo tra il regista artigiano e quello creativo: il creativo è colui il quale attraverso i propri errori riscrive il linguaggio cinematografico mentre l’artigiano è colui che va più sul sicuro, usando un linguaggio già scritto e non uscendo dalla sua comfort zone.
In questo senso, rientro nella categoria del creativo: sbagli ma attraverso gli errori trovo delle vie nuove. Quindi, penso che continuerò a sbagliare dato che ogni sbaglio mi sarà sempre di insegnamento. Ho sbagliato, dunque, ad avere l’ambizione di non sbagliare più ma da lassù qualcuno mi perdonerà.
Cosa ha significato per te il cambio di status personale che ha comportato la perdita di tua madre? Non che la figura paterna non sia fondamentale ma quando si perde una madre improvvisamente non ci sente più figli.
Molto. Mia madre è stata grande artefice di quello che sono come individuo: senza di lei, non sarei mai nato come persona. Mi ha insegnato molto e mi ha attaccato vari aspetti del suo carattere: la gentilezza, prima di tutto, che aveva nei confronti degli altri (ascolto tutti) e la curiosità (mi documento sempre su mille cose differenti). Ogni giorno si svegliava con un’attività nuova sempre legata all’arte, qualcosa che riscontro anche in me: ultimamente mi sono scoperto ad esempio illustratore. Non mi sarei mai aspettato di intraprendere tale viaggio, eppure oggi mi ritrovo con la tredicesima mostra personale in corso nel giro di pochi mesi. Giro tutta l’Italia con i miei disegni fatti con un Uniposca bianco su cartoncino nero (e ora anche su metallo nero): quando ho iniziato, non sapevo nemmeno come si levasse il tappo al pennarello!
La curiosità di voler fare esattamente ciò che mi viene in mente di fare è di base una grande libertà e credo che sia il regalo più bello che mi abbia lasciato. Ma la morte di mia madre ha cambiato anche mio padre: sia io sia lui abbiamo preso alcuno dei suoi aspetti. Lui, ad esempio, era molto burbero ma adesso si è addolcito parecchio, diventando una persona molto carina e presente (quando c’era mamma il compito di essere presente spettava a lei). Al contrario suo, io invece mi sono leggermente indurito, nonostante abbia trovato una pace interiore: la morte è qualcosa che attende tutti, l’unica cosa che possiamo fare è cercare di lasciare qualcosa di buono che per provare dopo, qualora ci sia un dopo ma credo di sì, il piacere di essere ricordati in qualche modo.
Tuo padre è stato in gioventù un batterista…
Papà era una sorta di “bravo bravissimo”: a 14 anni aveva già suonato al Piper e ha poi suonato nell’orchestra della Rai accompagnando artisti come Edoardo Vianello e Orietta Berti. Era un batterista fenomenale, con uno stile non ho più ritrovato in altri, ma non ha voluto insegnarmi nulla. L’unica cosa che fece fu quella di lasciar montata in camera mia la batteria, con cui da ragazzino ho poi cominciato a sperimentare qualcosa. Smise di suonare a ventitré anni, si sposò e proseguì la sua vita con un lavoro da metalmeccanico per trent’anni: probabilmente non mi ha insegnato nulla per evitare che provassi la stessa delusione che aveva provato lui con la musica.
È stato forse un modo per difenderti e proteggerti?
E aveva ragione: quella del musicista è una vita comunque difficile. Ci vuole vocazione per sopportare anche tutti i viaggi e gli spostamenti che si fanno: spesso, quando mi chiamano per live chitarra e voce, mi capita di andare in tour da solo e di spostarmi guidando la macchina. Faccio dunque dei grandissimi viaggi che comportano grande fatica.
In più, il lavoro da musicista ha anche un altro aspetto che non ti facilita l’esistenza: non ha routine. Di conseguenza, trascorri giorni a dover fare mille cose insieme e settimane a non far niente: occorre avere un certo equilibrio mentale per resistere. E non sempre questo c’è: succede di vivere dei periodi di down. La pandemia, ad esempio, per me ma anche per molti di coloro che conosco e che conducono la mia stessa vita è stata micidiale: la depressione è stata il fattore comune che ha attraversato quasi tutti noi e ritrovare la giusta motivazione per rialzarsi è sempre difficile. A me ha aiutato molto il disegno, dove dentro c’era sempre e comunque la musica. Ecco perché mi fa piacere che una delle mie realizzazioni sia stata scelta come copertina di Un mondo perfetto.
Sulla rinascita hai anche scritto una canzone, Per poi rinascere.
Ho capito che la musica è per me l’elaborazione della vita. È come se avessi smesso di vivere nel momento in cui sono stato costretto non solo a non suonare ma anche a non amare, a non vedere le persone, a non abbracciarle (sono molto fisico) e a non avere con loro contatti per lungo tempo. Riprendere una parvenza di vita sociale quasi normale mi ha permesso di ritrovare anche maggiore spunto per scrivere cose nuove: riprendendo la vita, si è ripresa anche la musica.
Citando il titolo di una canzone di Un mondo perfetto, I just wanna dance, sei tornato a ballare?
Metaforicamente, sì. Quella canzone è ispirata dalla visione del film Jojo Rabbit, la cui protagonista vive un momento bello lungo di costrizione. Ho visto il film poco prima che scoppiassi la pandemia e mi è rimasto così impresso in mente il suo desiderio di tornare a ballare una volta finita la guerra che ci ho pensato per tutto il periodo della nostra reclusione. Pensandoci, avrei realmente voglia di andare a ballare ma non sono ancora andato.
L’intero album ha il titolo della prima traccia, Un mondo perfetto. Ma che tanto perfetto non è se ascoltiamo il testo…
Diciamo che più che perfetto è un mondo perfettibile. È un po’ la sensazione che proviamo quando intraprendiamo una relazione sentimentale: pensiamo che quello sia il momento perfetto. E lo è fino a quando non iniziano i problemi: siamo sempre essere diversi che interagiscono, persone differenti con percorsi differenti che non sempre si trovano allineate in un percorso di vita comune. Non è facile costruire qualcosa insieme però per farlo è importante sapersi ascoltare. Credo che con l’ascolto anche il mondo possa diventare più perfettibile: è più facile non guardarsi allo specchio ma è necessario farlo per sapere chi sei, cosa stai facendo e cercare di essere sensibile nei confronti degli altri.
E tu, guardandoti allo specchio, cosa vedi?
Un uomo che non si sente mai soddisfatto della propria vita e in cerca sempre di qualcosa di più. Mi porterò questo tarlo per sempre: forse è anche il motivo per cui sono sempre pieno di iniziative e di idee nuove da portare avanti.
In tale inquietudine, che ruolo gioca l’amore? Nel disco, lo racconti con diverse sfumature: in nove anni, del resto, si sono susseguite fini e nuovi inizi…
In amore cerco di dare il più possibile alle altre persone. Spetta poi a loro dire quanto abbia dato, se tanto o poco. Vivo il sentimento con pieno coinvolgimento ma non so se quello che do è tutto o poco.
E le altre persone cosa danno a te in cambio?
Stare accanto a un musicista non è facile. Quindi, non posso lamentarmi di quello che ho ricevuto in cambio: sono stato fortunato da questo punto di vista.
A proposito di amore, c’è una canzone (Dormi) che parla del timore o, comunque, della difficoltà che incontra un uomo nel riaprirsi all’amore. Quale difficoltà si incontra da uomo nel mostrarsi così vulnerabile in un’epoca in cui è ancora forte lo stereotipo per cui da maschi non bisogna mai raccontare le proprie fragilità?
Non so quale possa essere la difficoltà. Nelle mie esperienze più che corteggiatore sono stato corteggiato. C’è un mio lato chiamiamolo femminile, una certa sensibilità di scrittura, nel raccontarmi e nel mettermi a nudo che affascina le persone al di là del sesso: spesso sono stato più passivo nel ricevere attenzioni. Ma c’è anche un mio lato maschile, anche bello preponderante, con cui la mia fragilità spesso si va a scontrare: è quello che mi porta a voler sostenere la persone che ho accanto e a proteggerla, se non fosse che spesso non ci si rende conto di non essere pronti a farlo. E il non essere pronti può poi portare alla realizzazione di non essere all’altezza.
Hai più ferito o sei stato ferito?
Inconsapevolmente, ho più ferito. Sono stato ferito anche in maniera pesante ma credo di avere avuto dei momenti di anaffettività derivanti dal mio essere totalmente immerso nei miei problemi da non accorgermi del dolore fuori da me. Ogni tanto ci ripenso ma so che comunque la maggior parte delle persone con cui ho condiviso un pezzetto di vita mi vuole bene: segno che tanto male non sarò stato. Per il resto, sì, potevo agire in modo migliore: è l’unico insegnamento che posso cercare di mettere in atto nella prossima relazione che verrà o che, magari, sto già vivendo.
Cara, invece, è una canzone che parla di giudizio. Quanto peso ha nella tua vita il giudizio?
Quello che racconto è il giudizio che è accompagnato da una vanità di fondo, dal sentirsi superiore. È il giudizio di chi ti dice “io non farei mai quello che hai fatto tu”, salvo poi scoprire che hanno fatto anche di peggio: il giudizio che viene strumentalizzato per ottenere una posizione di vantaggio o per suscitare sensi di colpa.
In generale, il giudizio non mi tocca. Sono circondato da amici che mi dicono la loro senza filtro alcuno: non vorrei mai essere circondato dagli Yes Man. Non accetto e non mi piace il giudizio quando ci vedo dietro una sfumatura manipolatoria: dovremmo tutti saper riconoscere la manipolazione dal primo istante, anche se nelle relazioni sentimentali non è sempre facile far prevalere la ragione, lasciando campo al dolore.
Sembri parlare con cognizione di causa: vittima di una manipolatrice?
Anche, non mi sono fatto mancare nulla. Si prova dolore in quei casi ma gran parte di chi manipola in amore non si rende nemmeno conto di farlo. Accade la stessa cosa anche in ambito lavorativo, dove per via del lavoro che faccio capitano anche situazioni di collaborazione che poi sottendono praticamente uno sfruttamento.
In merito alle collaborazioni, hai aperto diversi concerti di nomi importanti, tra cui Amy Winehouse. Hai avuto modo di conoscerla o eravate tenuti in compartimenti stagni?
Ho aperto un suo concerto ma, quando sono arrivato, c’era la sua band che stava provando e non lei. Era in una fase molto caotica della sua vita e credo di aver capito quello che stesse passando: più aumentava il suo successo, più stava male perché capiva che il crescente interesse nei suoi confronti era più legato al suo status che alla sua persona. Probabilmente, ha vissuto il dolore di non essere amata veramente. In certi contesti di fragilità, il successo stesso ti fa sentire ancora più a disagio: vorresti sparire per vedere chi dopo ti viene a cercare. Non so se qualcuno sia andata mai a cercarla o ci abbia provato ma di sicuro ciò che ho avvertito è che fosse una persona molto sola.
Hai paura della solitudine?
Molto. E mi sono sentito solo anche in coppia. Ma sono anche una persona che in certi momenti è stata da sola perché non aveva voglia di mostrarsi fragile. Quella è però una situazione pesante per cui occorre farsi aiutare. E nel mio caso è stata ed è d’aiuto la figura di una psicologa: lo Stato dovrebbe garantire a tutti l’accessibilità alla terapia per prendersi cura della propria salute mentale, soprattutto dopo tutto quello che abbiamo vissuto negli ultimi anni. Mai come in quel periodo mi sono interrogato su chi io fossi e a trovare una risposta mi ha sicuramente aiutato il confronto con una professionista che aveva gli strumenti per elaborare le sensazioni che provavo e per avviarvi nuovamente verso la via della felicità.
So che è un percorso lungo quello della felicità. Di base, non sono mai stato felice: sì, ho vissuto momenti felici ma non posso definirmi una persona felice. Anche quando le cose sono andate bene, ho sempre pensato a qualcosa di forte da inventarmi per sentirmi vivo. Probabilmente questa mia indole ha radici lontane e che la realizzazione di quali siano non mi porti poi a prendermi una vacanza per il resto della vita anziché stare a scrivere e a elaborare. Per quanto mi riguarda, scrivere è una forma di elaborazione del dolore: mi è capitato di scrivere testi anche cupi a volte in momenti di apparente felicità che mi hanno di riflesso portato a interrogarmi su quello che stavo effettivamente vivendo.
Sulla ricerca di felicità hai incentrato Replay…
L’ho scritta durante la pandemia, prima di rendermi conto che non ero felice. Però, in fondo, penso che possa esserci la felicità: la cerco e spero di trovarla.