Tommaso Basili ha una storia molto particolare alle spalle. Potremmo definirlo un attore cosmopolita sin dalla nascita e basta poco per confermarlo. In questo momento, infatti, Tommaso Basili ha ben tre progetti in uscita. Il primo è il film Ferrari, in sala con 01 Distribution dal 14 dicembre: nel biopic diretto da Michael Mann, Tommaso Basili presta il volto a un personaggio iconico per la cultura italiana come Gianni Agnelli, l’Avvocato come lo vuole la tradizione giornalistica e non. Il secondo è la serie tv inglese The Good Ship Murder, produzione targata Channel 5 che presto arriverà anche da noi, su Netflix, in cui interpreta il toy boy di una delle protagoniste. E il terzo è la serie tv tutta italiana Odio il Natale 2, su Netflix dal 7 dicembre: qui, Tommaso Basili interpreta Guido, il marito di una delle protagoniste, tanto accennato nella prima stagione.
Già è chiaro da ciò come Tommaso Basili si muova tra Inghilterra, Stati Uniti e Italia, continuando a portare avanti quel lavoro di attore che nella sua vita, a detta sua, è arrivato tardi. Ma il movimento è qualcosa che da sempre lo accompagna, sin dalle sue origini: suo padre, marchigiano, era emigrato negli Stati Uniti mentre la famiglia di sua madre, piemontese, ha vissuto per decenni nelle colonie franco-portoghesi del Madagascar. Non serve dunque un genio in geografia per capire che le origini e il sentimento legato al concetto di “casa” sono argomenti che Tommaso Basili ha costantemente affrontato nel suo percorso.
In attesa che si disveli presto anche il nuovo film in cui recita in coppia con Connie Britton (Here After), Tommaso Basili si racconta a The Wom in un’intervista tesa a conoscerlo. Lo becchiamo mentre è sbarcato all’aeroporto di Olbia per recarsi nel piccolo podere che da tempo ama coltivare.
Intervista esclusiva a Tommaso Basili
“Non devono esserci definizioni: ho sempre vissuto un po’ così”, mi risponde subito Tommaso Basili quando affrontiamo la questione pronomi con cui rivolgersi nei suoi confronti. “Sarà che ho vissuto per tanti anni in Spagna, un Paese che – dispiace dirlo – è molto più avanti di noi: nessuno si fa più domande sull’identità sessuale. Solo parlarne diventa noioso, superfluo: non gliene importa niente a nessuno mentre qui in Italia non è ancora chiaro come ognuno possa fare o essere ciò che più gli pare”.
Ci incontriamo in un momento particolare del tuo percorso professionale: da noi arriverà prossimamente ma in Gran Bretagna sta già andando in onda una serie tv che ti vede tra i protagonisti, The Good Ship Murder. Il tuo personaggio si chiama Nero De Wolfe.
Nel caso degli inglesi o degli anglosassoni potremmo aprire un’altra parentesi. Volevano un personaggio che fosse tipicamente italiano o, meglio, che rispettasse la loro visione dell’italiano. Passi per il nome Nero ma Wolfe in italiano che vuol dire? Chiaramente, il pensiero vola subito a Nero Wolf ma a quel punto sarebbe stato più interessante come nome un Nero de’ Lupi di Montevalle (ride, ndr).
A proposito di italiani visti all’estero, in Ferrari, il film diretto da Michael Mann in uscita il 14 dicembre al cinema, interpreti uno degli italiani per eccellenza: l’avvocato Gianni Agnelli. Come hai affrontato un ruolo così iconico?
Innanzitutto, ho provato un’immensa gioia e tanta incredulità quando mi hanno affidato il ruolo. Tuttavia, l’euforia dopo una ventina di minuti aveva già lasciato il posto a una paura incredibile: come avrei potuto io portare in scena Gianni Agnelli, una persona più grande della vita stessa? L’Avvocato era iconico non solo per quello che ha rappresentato e che rappresenta ma anche per come si poneva… era facilissimo scadere nella macchietta: non conosco nessuno che potesse eguagliare la sua erra moscia e il suo modo molto affabile, quasi teatrale, di esporsi e di parlare.
Non sono come quegli attori, penso a Pierfrancesco Favino o a Rami Malek, in grado di trasformarsi in una copia identica del personaggio che interpretano. Avendo tale consapevolezza, ho cercato per il provino di trovare dei punti in comune con Gianni Agnelli provando a creare una mia rappresentazione di ciò che potesse essere senza necessariamente cercare di diventarne una copia identica. Ed è andata bene, almeno per la percezione che gli americani avevano di lui.
Tra l’altro Favino è anche colui che ha sollevato polemiche sulla decisione di affidare il ruolo di un italiano come Ferrari a un attore americano.
A me piacerebbe che, una volta uscito il film, il pubblico si rendesse conto di quanti italiani sono stati coinvolti nella produzione, dagli attori al personale tecnico. Ferrari è un film che parla dell’Italia e che non esclude così tanto gli italiano. Tuttavia, parlando al mondo intero, è chiaro che per ragioni produttive dovesse avere un nome che richiamasse spettatori dal Nepal all’Australia. Forse, la domanda che dovremmo farci tutti quanti è un’altra e riguarda la necessità del nostro fantastico e incredibile cinema italiano di trovare un nuovo Mastroianni, un attore che tutti conoscano anche al di fuori dei nostri confini. Ai talenti di casa nostra, conosciuti e meno conosciuti, dico sempre di andare all’estero e di affermarsi lì per poi tornare indietro e raccontare l’Italia al mondo.
Dove hai trovato in te i punti in contatto con Gianni Agnelli?
In realtà, ho trovato in comune degli aspetti che appartenevano non a me ma a mio padre. Sebbene fosse un uomo molto diverso dall’Avvocato, alcune connotazioni erano in comune: sono ad esempio entrambi nati nel Novecento e lo hanno vissuto a pieno. Per molti versi, Agnelli mi ricordava molto mio padre nella gestualità: utilizzava lo spazio nello stesso modo. L’Avvocato aveva poi una peculiarità unica: non aveva mai fretta nel parlare, neanche quando aveva solo un minuto per concedere un’intervista. È una caratteristica che ritrovo molto in chi appartiene alla sua stessa generazione: scandivano il tempo, lo controllavano e non ne erano succubi come noi.
Ferrari: Le foto del film
1 / 26Hai appena citato tuo padre: sei un meltin’ pot sin dalla nascita. Le note biografiche riportano di un padre marchigiano statunitense e di una madre cresciuta nelle colonie franco-portoghesi del Madagascar. Di tuo, poi, hai studiato tra Svizzera, Stati Uniti e Spagna. E oggi vivi tra Roma e Londra. Sei un pratica un cittadino del mondo.
Oggi, alla mia età, la vivo bene ma non sempre è stato così. Questo mio essere un “nomade”, un viaggiatore in continuo movimento, ha fatto sì che mi mancassero però le radici: a vent’anni, ne soffrivo molto… ed è stata la ragione per cui sono tornato in Italia. A spingermi è stata la necessità di ritrovare il punto da cui era iniziato tutto.
Paradossalmente, l’andare via per poi tornare ha sempre segnato la storia della mia famiglia. Mia madre appartiene ad esempio a una famiglia di origine piemontese che a metà dell’Ottocento è partita per l’Africa per far ritorno a casa solo 150 anni dopo. Mio padre, invece, era marchigiano da non so quante generazione ma negli anni Cinquanta è emigrato negli USA per poi rientrare in Italia prima che nascessi io.
Ringrazio Iddio, tuttavia, per aver potuto viaggiare così tanto e di essere stato fuori dal mio Paese: non si conosce mai bene casa propria fino a quando non si va via per poi ritornarci. Il mio fulcro è adesso Roma ma sono molto legato anche a Londra: la mia compagna, anche lei attrice, è londinese, viviamo insieme in Italia ma abbiamo sempre un piede in Inghilterra, in balia di dove ci porterà il lavoro.
Vivi a Roma ma dove hai cercato le tue radici?
Quando qualcuno mi chiede di dove sono, molto onestamente ho una grandissima difficoltà nel rispondere. A vent’anni, quando volevo fare il figo, rispondevo che ero italiano ma che non praticavo. Anche se non sono sardo, sono nato in Sardegna e sento con l’isola un legame fortissimo (ho avuto una seconda madre che era sarda). Ci torno da quarant’anni, non la vivo come il classico turista ma non sono sardo… sono poi cresciuto sul lago di Como ma né mi reputo comasco né tantomeno vengo considerato tale dalla gente del posto. Se potessi scegliere, direi che le mie radici sono nelle Marche, che considero un po’ l’anticamera di Roma, una città che ho vissuto in tre capitoli differenti: da studente, da lavoratore e da attore.
Da lavoratore?
Ho fatto di tutto. Ho lavorato anche come venditore di materiale informatico all’interno dei ministeri… è stata una scuola allucinante ma, nel vedere delle cose assurde che ho veramente odiato, ho capito che la carriera all’interno delle aziende non faceva per me: ero anche bravino ma mi angosciava l’idea di lavorare per qualcuno.
La recitazione è dunque per questa ragione arrivata tardi?
Avevo 32 anni e stavo attraversando uno dei periodi più difficili della mia vita. Si era ammalata mia madre e stavo perdendo mio padre: andava tutto per il verso sbagliato e per me era arrivato il momento di darsi una mossa di trovare il coraggio di intraprendere quella via che non avevo fino a quel punto avuto il coraggio di affrontare. Dai 32 ai 36 anni, ho studiato (non mi è mai piaciuta l’idea di arrivare impreparato) ma non ho detto niente a nessuno proprio perché ero troppo fragile: non avrei sopportato i commenti di chi avrebbe potuto scoraggiarmi, mi avrebbero distrutto. Sapevano quindi in pochi quello che stavo facendo…
I tuoi hanno poi avuto il tempo di vederti recitare?
Mamma, sì: per fortuna, è uscita dalla malattia e con lei condivido quasi tutto del mio percorso da attore. Papà, invece, non ha fatto in tempo. Stranamente, però, lui che era un uomo estremamente razionale (era tutto meno che artista) non mi ha mai imposto il suo volere. Ricordo che, quando passavo dall’ospedale in cui era ricoverato dopo i corsi serali che frequentavo, non parlava mai della sua malattia ma preferiva chiedermi com’era andata in teatro o cosa avessi fatto. Era entusiasta di ciò che facevo: il suo interesse era già sinonimo di consenso.
Ed esperienza dopo esperienza sei arrivato anche sul set di Odio il Natale 2, la serie tv Netflix che prosegue le avventure della single Gianna.
Il set è stato molto allegro: Pilar Fogliati è una forza della natura, magnetica… sarei voluto rimanere un altro po’… Interpreto il marito di una delle protagoniste, un personaggio di cui nella prima stagione si chiacchierava ma che non aveva un volto. Nella seconda, invece, appare, ha una faccia e soprattutto un comportamento. È un’esperienza che a me è piaciuta tantissimo: la serie tv ha un tono completamente diverso dai progetti a cui ho preso parte.
Curiosamente, ho avuto più paura di prender parte a Odio il Natale 2 che a Ferrari per via delle sue atmosfere apparentemente superficiali che ho difficoltà quasi sempre ad affrontare: è stata per me un modo per capire con che linguaggio muovermi e qual è il mio. Di mio, mi trovo più a mio agio in atmosfere cupe e drammatiche ma, rotto il ghiaccio, non si sa mai cosa verrà dopo questa mia prima impresa con la commedia. Avevo già partecipato a un altro titolo Netflix, Quattro metà, ma la leggerezza che richiedeva era diversa, il ruolo piccolo e la fatica minore.
Odio il Natale 2: Le foto (credits: Erika Kuenka/Netflix)
1 / 10Tra le tue tante passioni, c’è anche il canto.
È il mio amore non corrisposto. Adoro la musica e adoro il canto: lo considero una forma di espressione che va anche al di sopra della recitazione. Potrei cantare anche otto ore al giorno e mi sarebbe anche piaciuto fare il cantante: credo di avere quelle doti sufficienti per farlo diventare un lavoro di medio successo. Se per un film dovessero chiedermi di cantare, non sfigurerei…
Canti in italiano o in inglese?
Più in inglese. Di recente, mio fratello mi ha fatto notare come nella mia collezione di vinili non ci fossero artisti bianchi ma solo neri. Ed è vero: sono fissato con la musica black: ne amo il ritmo, il genere, la forza e il messaggio, del tutto diversi dalla musica italiana di oggi. Non mi ci riconosco così come non mi riconosco in tutte quelle canzoni idiote che fomentano bullismo, violenza o maleducazione.
Il corpo per un attore è un mezzo di lavoro. Che rapporto hai con il tuo corpo?
Molto conflittuale. Sembra un paradosso ma solitamente quando esce un lavoro già fatto, finito e confezionato, a cui ho preso parte, considero solo se ho reso giustizia al mio personaggio e alla resa del mio lavoro. Non mi soffermo mai sulla mia fisicità, così come non lo faccio quando sul set un regista mi propone di rivedermi al monitor per vedere cosa ho appena fatto. Non riesco a guardarmi perché vedrei solo difetti. Li conosco e conosco le mie fragilità: se posso rendermi la vita più facile sul lavoro, preferisco evitare di guardarmi. Non ho la capacità di osservarmi con distacco e preferisco sui set affidarmi al giudizio di chi mi dirige.
Sei ipercritico nei tuoi confronti?
Sfido a trovare un attore che non lo sia… quando mi capita di entrare in sala di doppiaggio, ad esempio, è sempre un mezzo trauma: vedi il prodotto semi finito e non puoi più far nulla per correggerti o modificarti!
La tua fisicità ti ha comunque aiutato?
Credo di sì. Ma per me è molto più importante risultare interessante. Spesso, essere belli è uno svantaggio perché devi dimostrare concretamente di saper fare il tuo lavoro… e, comunque, il concetto di bellezza è molto ampio: esistono mille sfaccettature: una delle mie più grandi passioni è quella di osservare la faccia delle persone. Passerei tutto il tempo a mia disposizione a farlo: seconde me, ognuno di noi ha qualcosa di mistico che lo rende interessante.