Quello di Torso Virile Colossale è un progetto unico nel suo genere. È uscito da poco Mondo Peplum – Vol. 2 e, per chi non lo conoscesse, sin dal titolo dell’album si evince che c’era stato un volume uno. Si chiamava Che Gli Dei ti proteggano e aveva riscontrato il plauso di critica e pubblico, permettendo al progetto di portare avanti la strada intrapresa: quella della musica, strumentale, che si riallaccia al fantastico mondo dei peplum.
Figlio del cinema storico/mitologico italiano, il peplum è da sempre considerato un genere meno importante da chi non ne ha capito invece la portata. I cosiddetti sandaloni, anche nella loro semplicità, hanno fatto da base culturale negli anni del Secondo dopoguerra e hanno lanciato carriere di registi e attori, oltre che modellare l’immaginario pubblico.
Le storie di Ercole, dei romani e del loro universo classico, fatto di uomini e dei, sono oggi alla base di Torso Virile Colossale, dietro cui si nasconde Alessandro Grazian, compositore che per anni è stato noto per la sua attività di cantautore pop. È lui che, per diverse ragioni che ci spiegherà nel corso di quest’intervista, ha voluto fondare i Torso Virile Colossale per rendere omaggio ai peplum ma anche a suo padre.
Intervista esclusiva ad Alessandro Grazian (Torso Virile Colossale)
Sono passati cinque anni dal precedente album. Come mai così tanto tempo?
Le motivazioni sono extra artistiche. L’album sarebbe dovuto uscire due anni fa ma il CoVid, purtroppo, ne ha ritardato tutta la produzione. I piani erano di entrare in studio a marzo 2020 ma il primo lockdown ci ha fatto posticipare il tutto. La registrazione che doveva avvenire in un mese nella primavera del 2020 è stata invece spalmata nel corso di un anno intero. Il primo singolo è poi uscito nel giugno del 2021 con il proposito di pubblicare l’album in autunno. Ma ancora una volta il numero crescente di contagi da coronavirus ha dettato le tempistiche.
La distanza tra i due album doveva essere di tre anni. L’unica cosa certa che sapevo quando è nato il progetto Torso Virile Colossale è che avrei voluto fare almeno due volumi, tanto che sin da subito il primo album si è chiamato “Volume 1”. E nient’altro: non sapevo come sarebbe stato accolto e tantomeno che lo avrei portato in tour. Ci ho sempre però creduto tantissimo e, fortunatamente, ho raccolto delle bellissime soddisfazioni. Soddisfazioni che hanno però influito sulla realizzazione del secondo volume, tanto che tutte le cose che avevo scritto in precedenza e che erano rimaste fuori dal primo album non sono finite nel nuovo lavoro. Ho voluto che ci fossero solo composizioni nuove.
Ansia da prestazione?
No. La cosa bella di questo progetto per me, che spero rimanga tale, è che si tratta dell’esperienza creativa più libera che ho tra le mani. Ho alle spalle una storia di album come cantautore e diverse collaborazioni con altri artisti. Torso Virile Colossale è nato come un inno alla libertà e alla creatività, con la voglia di osare, sperimentare e di non farmi nessun tipo di problema alcuno. Avevo le idee chiare su come costruire il secondo volume e sugli elementi di continuità o di rottura con il primo.
Ho messo da parte ciò che avevo scritto prima perché lo ritenevo ormai superato, sorpassato, da quello che è successo dopo: è vero che nel realizzarlo c’era un’ambizione di fondo ma era pur sempre un’autoproduzione, era difficile fare previsioni non avendo una produzione grossa alle spalle. Ho consolidato adesso un certo organico. Per esempio ho scelto, a malincuore, di non mettere nelle nuove composizioni l’arpa.
Te l’avranno chiesto milioni di volte ma perché Torso Virile Colossale?
È una storia che racconto sempre molto volentieri. Quando è nato il progetto, volevo che avesse come riferimento il mondo antico rivisto dalla lente deformante del cinema italiano degli anni Cinquanta e Sessanta. L’idea è nata vedendo in televisione nelle mattine d’estate i famosi peplum ma anche dai ricordi: erano i film preferiti da mio padre. Tanto che si era appassionato sia alla storia sia al culturismo in modo molto empirico. Ho delle sue foto da ragazzo che mostrano come avesse cominciato a fare culturismo, una cosa molto romantica e naif: gli amici lo chiamavano Maciste.
Questa cosa mi divertiva e ogni tanto riaffiorava nella mia mente. Nell’estate del 2008, dopo aver pubblicato un album che si chiamava Indossai a cui avevo dedicato tempo e sofferenza, si è poi manifestato il desiderio di inseguire una nuova idea poetica e ho iniziato a pensare a un progetto strumentale dedicato a quel mondo. Ho formalizzato l’idea durante una vacanza in Sicilia: ero a Catania in visita al Castello Ursino. All’interno del museo civico c’era una sala con un enorme statua chiamata Torso Virile Colossale: “ecco il nome del mio progetto”, ho detto all’amico che era con me ancor prima di aver buttato giù anche una sola nota.
Cosa ti colpiva dei peplum? Come genere cinematografico, hanno un aspetto molto ludico e ironico. Alcuni di loro, riscrivono persino la storia.
Man mano che esploravo il genere mi colpiva quanto fosse misconosciuto nonostante il peso che avesse giocato anche nella storia del cinema italiano. I peplum, chiamati dispregiativamente sandaloni, hanno risollevato le sorti e l’economia del cinema italiano in un momento in cui era in crisi. Hanno creato carriere e possibilità, sebbene poi in tanti ne hanno preso le distanze. Forse anche questo è stato uno dei motivi che mi hanno stimolato a esplorare il genere.
Approfondendoli, inoltre, si può rivedere anche l’epoca in cui sono stati realizzati: nelle storie si riportavano i valori e le credenze di quando sono stati girati. È come se ci fosse una sovrapposizione tra la storia che rappresentano e il momento storico in cui sono stati fatti. Un po’ come succede nei film di fantascienza, in cui si ambientano le vicende nel futuro per parlare dell’oggi. Nei peplum non c’era mai violenza o sesso: erano lo specchio della società del Secondo dopoguerra, quella anteriore a certe rivoluzioni di costume e all’ingresso a gamba tesa della violenza.
Sono questi gli aspetti che mi hanno autorizzato in qualche modo a reinventare un racconto dell’antichità attraverso la musica. Una musica che non ha però alcuna pretesa filologica: nessuno di noi sa come si suonava duemila anni fa! Ed ecco spiegato perché mi sono sentito libero di giocare e di evocare con la scrittura determinati mondi, anche un po’ esotici, e di sporcarli con elementi più contemporanei come la chitarra elettrica.
La chitarra elettrica sta al tuo progetto come i muscoli stavano ai peplum.
Esattamente. Anche se nei peplum c’è stata anche un’esagerazione: sono arrivati a mettere i muscoli anche a Giulio Cesare, Muzio Scevola o Ponzio Pilato. A un certo punto erano diventati tutti personaggi storici deformati e manicheistici. L’archetipo serviva ad arrivare a un certo pubblico: era un cinema molto popolare senza alcuna ambizione d’autore che avvicinava la gente alla storia e la portava anche a un rapporto diverso con il proprio corpo.
Come hai scelto gli argomenti da musicare? Ci sono alcune composizioni come Babilonia violenta o Elefante da guerra che sembrano parlare più del presente che del passato.
Ci sono delle strane coincidenze. Sembra una banalità ma i classici contengono già tutto. Le storie parlano di tiranni, guerre, conquiste e personaggi che si fanno carico di raddrizzare i torti. Tutti elementi che hanno attraversato tutta la Storia dell’uomo. L’intento era quello di raccontare una sorta di geografia del mondo antico, dalle civiltà mediorientali a quella romana. Alcuni titoli fanno riferimento a episodi di quelle culture ma alcuni ricordano effettivamente quello che ci circonda: le storie si ripetono sempre.
Altri, invece, sono giochi di parole, come ad esempio Fenici miei, che richiama alla mente Amici miei, il titolo per eccellenza della commedia all’italiana. O come Babilonia violenta stesso, se pensiamo al genere poliziottesco e a titoli come Roma violenta. O, ancora, come E Dio tra gli dei, che gioca con la famosa Ed io tra di voi di Aznavour e con un certo tipo di cinema religioso, con quei kolossal tratti dall’Antico Testamento o dal Nuovo. C’è quasi sempre una doppia lettura.
Negli ultimi tempi c’è stato un tentativo di rinverdire il genere peplum. Ma a parte Il Gladiatore i risultati non sono mai stati memorabili.
Nel neo-peplum manca quella componente di innocenza che rendeva i peplum affascinanti. Il mondo è cambiato così come il modo in cui si trattano gli argomenti. Il peplum invece nonostante i pochissimi mezzi osava tantissimo e anche spudoratamente. Alterava le storie e proponeva combattimenti di eserciti composti da 20 persone da un lato e 15 dall’altro ma il pubblico aveva un senso della sospensione dell’incredulità diverso da oggi: era meno smaliziato.
Non riesco a immaginare oggi un cinema che racconti il mito classico senza prendersi troppo sul serio: si fanno kolossal che spesso sono pieni di incongruenze ed errori storici. Penso a Troy, pieno dell’ideologia post 11 settembre e con una totale rimozione delle divinità.
E quanto sei cambiato tu rispetto a quando hai cominciato a suonare?
Ho iniziato nella seconda metà degli anni Novanta ma in un contesto completamente diverso da quello di oggi. Non c’era internet e la musica rappresentava un mezzo anche di aggregazione reale: si andava ai concerti, si acquistavano i dischi, era un altro mondo. In classifica c’erano i Nirvana e sembrava di stare dentro a una rivoluzione culturale. È stato quello il mio imprinting e ho fatto fatica ad adattarmi ai cambiamenti. Ecco perché Torso Virile Colossale rappresenta per me una forma di evasione: è libero dai diktat delle mode e dall’inseguimento delle tendenze a tutti i costi, tutti fattori che nella mia carriera da cantautore ho invece subito.
Non so dire come sono cambiato ma la musica è sempre stata l’arma che ho usato per vivere, muovermi e difendermi. Questo progetto è arrivato dopo un periodo in cui avevo messo la musica in standby per evitare di compromettere il mio rapporto che ho con l’arte. Torso Virile Colossale è nato come progetto mio da compositore puro: pensavo anche agli strumenti che avrei voluto coinvolgere e ne scrivevo le parti.
Se per il primo album è stata qualcosa che ho vissuto in maniera empirica (avevo scritto già per gli archi ma non per gli strumenti più classici), per il secondo ho studiato per bene tutti gli strumenti per capire come funzionavano. Ho coinvolto dei musicisti che vivono la musica a tutto tondo e appartengo a generazioni diverse e ho avuto come ospite Rachele Bastreghi dei Baustelle con la sua voce: tutte personalità molto belle con cui è stato formativo collaborare. Il lavoro di registrazione è stato un bel banco di prova: tutto l’album è stato suonato veramente, non ci sono strumenti virtuali o aggiunte digitali.