Un petit frere è il titolo del nuovo film della regista Léonor Serraille in concorso al Festival di Cannes 2022. Una delle poche autrici donne a competere per la Palma d’Oro, Léonor Serraille ha studiato Lettere a Lione, Parini e Barcellona, prima di frequentare il corso di Sceneggiatura a Le Fermis.
Appena terminato gli studi, ha girato un mediometraggio in 16 mm, Body, con protagonista l’attrice Nathalie Richard, selezionato in alcuni dei più importanti festival europei. Montparnasse – Femminile singolare, la sceneggiatura scritta per il diploma, si è poi trasformato nel suo primo lungometraggio vincendo la Camera d’Or al Festival di Cannes 2017.
Cosa racconta il film
Un petit frere è il secondo film della trentaduenne regista Léonor Serraille. Racconta la storia di Rose, una giovane che è appena arrivata in Francia. Rose si trasferisce a vivere alla periferia di Parigi con i suoi due figli, Jean ed Ernest. Quello che comincia dopo è il resoconto della costruzione e decostruzione di una famiglia, dalla fine degli anni Ottanta a oggi.
Ha raccontato Léonor Serraille, a proposito del suo film: “Questa sorta di romanzo di famiglia è legata al bisogno che avevo di raccontare ai miei figli una parte della loro storia (il padre ha discendenza africana, ndr) o, meglio, un’interpretazione. Dopo Montparnasse – Femminile singolare, anch’io volevo dedicarmi a un progetto molto diverso e romantico. Ne ho parlato con il padre dei miei figli man mano che il progetto prendeva corpo: mi ha risposto che l’importante era che la raccontassi a modo mio”.
“Ho impiegato alcuni mesi per integrare ciò da cui ho liberamente preso ispirazione e quello che invece sarebbe stato il mio film. Ho cercato di rispondere a domande molto care a me in quel momento: Cosa significa essere una famiglia? Ed essere madre, figlio? Se vieni da altrove, sei lo stesso francese?”.
Una famiglia franco-africana
Un petit frere è un film che racconta la storia di una famiglia franco-africana sebbene sia realizzato da una regista, Léonor Serraille, che franco-africana non è. “Penso comunque di essere immersa, in un modo o nell’altro, in questa realtà. Mi sarei sentita più lontana se avessi raccontato di una famiglia di contadini francesi del XVIII secolo. Questa storia mi ha toccata profondamente, ripercorrendola mi è sembrato di riconoscerne i personaggi. Ho cercato di capirli, di lasciarmi guidare emotivamente. Sono tutti individui singolari e complessi, così come lo sono io. Sono una donna ma non mi piace che lo si evidenzi costantemente: non spiega tutto ciò che sono”.
“Per la famiglia al centro di Un petit frere vale un po’ la stessa cosa. Sono nati altrove ma sono arrivati in Francia, diventandone parte. Ma la società e i media e negli ultimi tempi anche i politici sono responsabili delle molte etichette, parole e definizioni, che mettiamo alle persone. Al cinema, fortunatamente, possiamo raccontare altro ed esplorare le realtà. Nel mio piccolo, ho osservato dall’alto ogni personaggio per vederlo così com’era. L’ho fatto con discrezione, ho fatto loro spazio e ho mostrato la loro complessità ma anche la loro delicatezza”.
“In fase di scrittura, mi sono concentrata sul trio di personaggi che avrebbe costituito l’ossatura del mio ritratto in movimento nel tempo: una madre e i due figli. Ho dato a ciascuno una parte, equamente divisa. La struttura a tre blocchi mi ha sempre interessata: è dialettica e permette risonanze, progressioni e pause nette. Mi sono allontanata molto dal mio primo film: per me era tempo di sperimentare cose nuove, di inventare, sommare e sottrarre”.
Un film non politico
Un petit frere, il nuovo film di Léonor Serraille, ha al centro una famiglia monogenitoriale, con un padre assente. Rose, la protagonista, appartiene anche a una categoria di lavoratori in prima linea. Ma non per questo il lungometraggio può essere definito “politico”, come ha sottolineato la regista: “Quando mostriamo una donna che affronta da sola ogni aspetto della sua vita è sempre qualcosa di “politico”. Tuttavia, mi auguro che lo sia nella maniera più indolore o invisibile: non lancio discorsi o messaggi militanti. Da spettatrice, mi spaventano. Non mi sono mai impegnata politicamente in vita mia, porto avanti la mia politica in maniera diversa”.
“Quando ho raccontato la storia del film a mia suocera, era quasi delusa: A chi credi che interessi?, mi ha detto. La rabbia e la tristezza della risposta mi hanno spinto ancora di più a scrivere di quelli che vengono definiti gli “eroi dell’integrazione invisibili e silenziosa” di cui parla così bene Stéhane Beaud nel libro La France des Belhoumi. Ovvero, quelli a cui non si interessano i media, più attenti a esempi postivi come quelli di Rachida Dati o negativi, come gli spacciatori o i jihadisti”.
“Si deve andare oltre, si deve guardare alla normalità. La maggior parte degli immigrati si lamenta molto poco, lavora o spera di farlo, si ama, fa figli e vive come meglio può, giocano, pagano le tasse… Mancano, però, le loro storie al cinema. Ed è un peccato perché sono di conforto e ispirazione. Jean, il figlio maggiore di Rose, è come tanti di noi ad esempio: sente il peso delle aspettative della madre e del “dover riuscire”, oltre che quello della responsabilità di far da “padre” al fratello minore. Ernest, il minore, invece si ritrova a interrogarsi sulla sua identità: non si sente né bianco né nero, né africano né francese”.