Il nome di Valentina Leporati è noto a tutti quelli che per volere di un gene conoscono il significato della celiachia, una malattia fin troppo sottovalutata per mancanza di conoscenza. Lei, Valentina Leporati, ci convive sin dalla nascita ma ha dovuto aspettare 17 mesi prima ai suoi genitori venisse restituita la giusta diagnosi dai medici.
Cosa vuol dire crescere con la celiachia e averci a che fare tutti giorni è dunque qualcosa che Valentina Leporati ha toccato con mano. È stata una bambina molto triste che non capiva a cosa fosse dovuta la sua diversità ed è stata una hikikomori in tempi in cui nessuno di noi conosceva il significato della parola.
Per la paura del cibo e per il senso di vergogna che provava Valentina Leporati durante gli anni dell’adolescenza si è rinchiusa nel mondo della sua casa, privandosi di libertà, identità, emozioni, divertimento e relazioni sociali. Quando i suoi coetanei andavano alle feste o uscivano con le prime cotte, lei si negava tutto ciò per la paura di dire essere celiaca o di chiedere una pizza con una base “speciale”.
Fino al momento in cui ha deciso di riprendere in mano la sua vita e ha capito che anche con la celiachia addosso si può vivere una vita piena e senza condizionamenti. Ha sfidato apertamente il glutine ed è entrata nelle cucine dei ristoranti, ha imparato a cucinare e ha trasformato quell’esperienza in qualcosa di veramente inclusivo: l’apertura di un Valentina Gluten Free, un primo panificio/pasticceria non solo gluten free ma anche attento a varie intolleranze o a scelte alimentari specifiche.
Ma a Valentina Leporati non bastava portare un sorriso a tutti coloro che a Sarzana e dintorni si sentivano diversi. Memori della se bambina, quel sorriso doveva estenderlo anche a chi viveva lontano da lei. Sono venuti così i social e una community web molto attiva e aperta a tutti coloro che, colpiti o meno, della celiachia vogliono saperne di più. E due differenti libri, il cui ultimo – Cucina Gluten Free – offre cento ricette complete e goderecce che nulla hanno da invidiare alla cucina classica.
Incontrandola per un’intervista esclusiva, con Valentina Leporati abbiamo voluto fare il punto sulla sua esperienza personale ma soprattutto con i tanti stigmi, pregiudizi e persino disparità che interessano le persone celiache. Voi sapevate ad esempio che le donne ricevono rispetto agli uomini venti euro in meno al mese dallo Stato per provvedere alle loro necessità alimentari? O che chi è malato di celiachia rischia seriamente di sviluppare un disturbo del comportamento alimentare?
Intervista esclusiva a Valentina Leporati
1989. Cosa rappresenta nella tua storia?
L’anno 1989 è stato quello della prima rivoluzione per la mia famiglia: per la prima volta, hanno sentito la parola “celiachia”, fino a quel momento sconosciuta. I miei genitori si ritrovavano con una bambina di 17 mesi che non mangiava, stava malissimo ed era totalmente denutrita perché non assimilava nulla. In più, quella piccolina era anche bruttina, con i capelli arancioni, la pelle bianchissima e un pancino molto, molto gonfio, e aveva smesso di camminare. Dopo tante diagnosi sbagliate (dalla distrofia muscolare in poi), era arrivata quella giusta dall’ospedale Gaslini di Genova.
All’epoca, il Gaslini uno dei punti di riferimento per la celiachia e dopo una gastroscopia quei due genitori disperati avevano avuto finalmente certezza della malattia che in me si era sviluppata sin dallo svezzamento. Non era come oggi che si fanno tante analisi preventive e sin da subito si può scoprire se un bambino è portatore del gene oppure no.
Celiachia vuol dire prima di tutto malattia. E non significa semplicemente il non voler o dover mangiare pane o pasta…
In molti pensano che la celiachia sia solo vomitare o attaccarsi al gabinetto. In realtà, i danni interni sono molto più gravi di quello che si crede e spesso gli stessi celiaci non sanno quali sono perché non vengono educati alla malattia, non la conoscono fino in fondo e, soprattutto da adolescenti, sottovalutano le conseguenze di uno sgarro. I problemi causati dalla celiachia non si vedono immediatamente ma si scoprono con gli anni fino a diventare in certi casi letali. Non si tratta di un’allergia e non si parla di shock anafilattico: la celiachia è una malattia che a lungo termine causa danni irreparabili al nostro organismo, dal cancro all’intestino a forme gravi di tiroidite.
Basti pensare che la celiachia è una delle malattie croniche riconosciute dallo Stato tra quelle invalidanti proprio perché, se non trattata, porta a condizioni di invalidità. Tant’è che riceviamo dallo Stato un buono per l’acquisto di prodotti gluten free.
Il buono ricevuto dallo Stato mi fa pensare però a un piccolo paradosso: lo Stato non fa nulla per calmierare i prezzi spropositati dei prodotti gluten free che si trovano negli scaffali di farmacie o supermercati.
Hanno un costo imbarazzante. Prima di tutto perché l’IVA, cosa che non sottolinea quasi mai nessuno, è altissima per quelli che sono a tutti gli effetti generi di prima necessità: varia dal 10 al 20% totalmente a caso facendo sì che si raggiungano dei prezzi proibitivi. La spiegazione è da ricercarsi in una questione di domanda e offerta: dato che non è alta la prima, la seconda non è ampia e varia. Essendo poca l’offerta, i costi sono alti.
Ma come si fa a equiparare una necessità a un bene di lusso?
Eppure, lo si fa e i prodotti per celiaci vengono trattati come tali quando per chi è affetto della malattia sono l’unica terapia possibile. Ma c’è anche una problematica enorme su cui da tempo conduco una battaglia allucinante: il buono è spendibile solo nella propria regione di residenza. Di conseguenza, tutti coloro che per lavoro, studio o altro, si trovano distanti da casa devono partire con valigie piene a dismisura o farsi spedire i prodotti.
E, come se non bastasse già, agli uomini vengono riconosciuti 20 euro mensili in più rispetto alle donne. Perché? Perché secondo il fabbisogno calorico giornaliero medio un uomo sciupa più calorie sin dall’infanzia. All’apparenza, 20 euro sembrano roba da niente ma diventano necessari quando un pacco di farina arriva a costare anche 7 o 8 euro. Mio desiderio è che tale gender gap venga colmato equiparando uomini e donne e, per questo, aumentando anche la quota destinata alle seconde. È uno stereotipo quello per cui il dispendio medio calorico dell’uomo è più alto: pensiamo per un attimo a tutte le atlete donne che si ritrovano ad avere 20 euro in meno e a portarsi valigie piene di prodotti per le gare lontano da casa.
Fortunatamente, è cambiato qualcosa rispetto a quando ero più piccola. Ricordo che, non vorrei dire un’assurdità, c’è stato un momento in cui più che un buono in soldi ci si dava la possibilità di acquistare 17 kg di peso di prodotti: ero costretta a scegliere quelli che pesavano meno per poterne prendere di più.
17 è un numero che torna spesso nella tua vita. A 17 mesi la diagnosi. 17 i kg di prodotti da acquistare. E 17 a grandi linee sono stati gli anni che hai vissuto sentendo come un’onta addosso.
17 è un numero che, come la celiachia, tutti definiscono una sfiga. In entrambi i casi, sono riuscita a trasformare la sfiga o un limite nella mia più grande fortuna e opportunità. Ho vissuto l’infanzia e l’adolescenza con un grande senso di vergogna e di diversità: mi vergognavo di non essere come gli altri. Solo dopo ho capito che ho commesso l’errore più grande che potessi fare, ovvero autoescludermi.
Ho vissuto per anni chiusa in casa, scegliendo di non uscire per non raccontare ogni volta della mia malattia: non mi sentivo pronta a illuminare il faro della diversità sulla mia testa. Ho perso purtroppo tantissime occasioni di crescita, di socialità e anche di divertimento. Non andavo ai compleanni, non andavo alle gite e non andavo alle vacanze: la mia prima vacanza è stata con gli amici per la maturità. Prima di allora, non ho fatto nulla di nulla: ogni volta che si presentavano situazioni in cui era previsto del cibo la mia paura era quella di stare male. E mi sarei vergognata a stare male in mezzo ai miei coetanei o davanti al ragazzino che mi piaceva: tutte le volte mettevo la mia celiachia prima di me stessa e delle esperienze di gioia che avrei fatto stando insieme agli altri.
E so che è una situazione che ancora oggi troppe persone vivono. Vorrei che il mio lavoro servisse a evitare a qualcun altro quello che ho vissuto io.
Qual è stata tra le varie situazioni vissute quella che ti ha segnato maggiormente?
Ero in Corsica. Un cuoco si è rifiutato di scaldare la mia base per pizza, adatta a essere messa nel microonde o nel forno. Avevo 13 o 14 anni e costui ha cominciato a urlare davanti a me e mio padre che lui quella “roba per malati” non l’avrebbe mai cucinata nel suo ristorante. Mio padre mi ha presa per mano e siamo andati via, sbraitando cose irripetibili in questa sede. Quel cuoco non ha solo perso due clienti ma anche l’occasione per far felice una bambina.
Quell’atteggiamento è sintomatico di quanto impreparata sia la gente nei confronti della malattia. Non parlo solo di persone comuni ma anche di addetti al settore alimentare, che spesso offrono piatti a base di farro e kamut. Da qui si capisce l’ansia e la preoccupazione che un celiaco provano quando si ritrovano per un qualsiasi motivo a mangiare fuori casa: non sai mai se dall’altro lato c’è qualcuno di preparato o qualcuno che improvvisa.
L’ansia sociale che vive un malato di celiachia è la stessa che attanaglia chi soffre di disturbo del comportamento alimentare.
Si tratta di un altro degli argomenti che ho scelto di trattare. Il nesso è dato dal pensiero ossessivo sul cibo. Il celiaco lo fa diventare quasi il centro della sua vita: deve stare attento a cosa può mangiare o meno. E tale pensiero, soprattutto in età adolescenziale, può portare a un disturbo del comportamento alimentare vero e proprio: il glutine è un elemento di disturbo o che spaventa.
E il disturbo se non trattato può peggiorare. Motivo per cui consiglio spessissimo ai genitori di far seguire ai ragazzi o di seguire insieme a loro un percorso psicologico per evitare che il disturbo diventi ingombrante: il pensiero di stare a dieta per tutta la vita e di privarsi qualcosa può essere molto pericoloso se non si ha l’aiuto giusto per sostenerlo.
Quando hai capito che era arrivato il momento mettere in atto la tua rivoluzione e non permettere alla malattia di condizionarti per sempre?
Sono andata via di casa molto presto. A un certo punto, mi sono dovuta fare le ossa: lavoravo, frequentavo l’università e mi sono accorta che avevo perso troppo tempo, che avevo evitato tutte le situazioni che invece mi avrebbero arricchito e fatta sentire libera e indipendente. Avevo capito che avevo dato precedenza alla celiachia e ho ragionato su come trasformare ciò in una cosa intelligente. È stato allora che mi sono tatuata la spiga barrata sulla spalla destra: il motivo della mia vergogna era esposto sul mio corpo ed era visibile a tutti. L’ho fatto perché volevo capire come reagissero le persone e come reagissi io.
L’esposizione non mi ha portato la pena e la vergogna che pensavo di trovare negli altri. Tutt’altro. Ho trovato invece curiosità e interesse, aspetto che mi ha spinto a voler imparare a parlare di celiachia nel modo giusto, senza paura o imbarazzo ma con autoironia e leggerezza. Ho cominciato a notare dalle interazioni che prima non avevo le piccole attenzioni degli altri, dall’amico che si propone di cucinare insieme al cameriere che non porta al tavolo il cestino del pane. E da quelle ho capito che c’era terreno fertile per vivere una vita come quella di tutti gli altri.
Ho iniziato allora a lavorare nei ristoranti: era lì che dovevo andare per capire il cibo. Ho cominciato quindi a cucinare prodotti con il glutine: non li potevo assaggiare ma imparavo tutte le tecniche. Anche perché per me da piccola la cucina era un luogo off limits: guardavo mia nonna preparare le ricette tradizionali ma da lontano, non sapevo nemmeno che sapore avessero i piatti… Ho dunque iniziato a cucinare per sfida personale: ero circondata da farina in ogni dove! E non è un problema: un celiaco può cucinare il glutine e stare in un ambiente in cui è presente, non deve semmai dare dei morsi all’aria nel momento in cui la farina vola: il problema non è il contatto ma l’ingerimento.
Una volta imparate le tecniche, hai cominciato a sperimentare senza glutine fino ad arrivare all’apertura del tuo laboratorio di pasticceria e panificazione a Sarzana. Un luogo gluten free ma anche senza lattosio, senza proteine del latte, a basso contenuto di nichel e con attenzione alle proposte vegane e vegetariane.
In realtà, non avrei mai pensato di arrivare a fare quello che faccio oggi e di farlo così presto. Ho aperto Valentina Gluten Free a 29 anni e probabilmente non ero nemmeno pronta. La mia vita aveva perso tutti i pilastri che aveva avuto fino a quel momento: non avevo un appoggio familiare, avevo rotto con i mio fidanzato ed ero stata licenziata a causa di alcuni tagli del personale. Mi ritrovavo con i soli soldi del sussidio di disoccupazione a dover decidere cosa fare. In più, mi era stata diagnosticata anche la depressione (il dolore mi aveva fagocitata ma il supporto terapeutico mi ha aiutato a superare la paura che dopo ogni cosa bella dovesse arrivare necessariamente la mazzata).
Con i 5000 euro in mano e la mia vita totalmente rotta, ho capito che dovevo far qualcosa per reagire: avrei dovuto nutrirmi del benessere che potevo stimolare negli altri, dei sorrisi che vedevo nelle altre persone. L’unica cosa che mi faceva riconquistare il sorriso era cucinare. E da lì il lampo: cucinare qualcosa che somigliasse a me il più possibile e che desse un valore a quello che facevo. Ho così aperto Valentina Gluten Free sognando di farla diventare un’isola felice per chiunque avesse un’esigenza alimentare particolare. Da me chiunque doveva poter mangiare e non sognare di mangiare tutto come la me bambina ogni volta che sognava di entrare in una pasticceria: nessuno doveva sentirsi come lei.
Il tuo è stato un bell’esempio di abbraccio inclusivo…
Quando desideri avere un abbraccio in cambio, devi essere il primo a regalarne uno. È una questione di karma ma anche di crescita umana. Adesso non ho più paura della batosta, di ballare o di essere leggera. Voglio vedermi come quel papavero a bordo della strada che non viene spezzato dalla macchina che passa: sono come lui, fragile ma fortissima. La fragilità non è debolezza ma è una ricchezza.
Hai anche un sito internet costantemente aggiornato. Mi ha colpito favorevolmente una sezione: Celiachia for Dummies.
Nasce dalla community incredibile che mi gira intorno. Sono seguita da persone molto simili a me, celiache e non. Quella sezione nasce dalle loro tante domande spesso basiche a cui non riuscivano a trovare risposta, dal come comportarsi con una persona celiaca a cosa dirle. La sezione raccoglie più informazioni possibili con un linguaggio semplice e fruibile da chiunque.
Oggi cosa diresti alla te bambina chiusa in casa?
Mi vien quasi da piangere nel pensarci: ero una bambina tanto triste e molto piccolina sotto tanti punti di vista. Le direi che quel mondo in cui si è rinchiusa diventerà una vetta da cui guardare tutta la bellezza che questo mondo le riserva. Un giorno, sarà libera come gli altri e non sarà sola come pensa. Le ricorderei come a tutti il valore dell’inclusività e della gentilezza: siate tutti gentile nel chiedere, solo così gli altri non scapperanno e saranno più disposti ad ascoltare.