“È stato un lavoro al limite dell’ossessione” è la prima annotazione che Valeria Bono ci restituisce nel parlarci della sua interpretazione di Ornella Vanoni nel film di Rai 1 Califano. “Ma sono sempre stata così con tutto ciò che mi piace tant’è. I miei genitori mi racconto che, quando da piccola vedevo un film che mi piaceva, erano costretti a riavvolgere le vhs per rimetterlo da capo, altrimenti piangevo!”.
Attrice torinese, nata nel 1994 e diplomata all’Accademia Paolo Grassi, Valeria Bono non è solo la Ornella Vanoni di Califano, un ruolo in cui ha messo tutta se stessa e in cui per la prima volta lascia emergere il suo talento per il canto, finora rimasto nel chiuso della sua camera per paura, come ci dice nel corso di quest’intervista, di ‘mettersi a nudo’.
Affascinata dai classici della letteratura e del teatro russo sin dall’infanzia così come dal cinema, Valeria Bono ha esordito in televisione nel 2016 quando a 22 anni è stata scelta per Romanzo familiare di Francesca Archibugi, regista che ha la straordinaria capacità di individuare giovani di talento che si faranno strada. Sono venute dopo le serie tv Mentre ero via e La vita bugiarda degli adulti ma anche Che Dio ci aiuti 7, dove è stata protagonista di puntata.
In attesa di rivederla al cinema in Race for Glory, Valeria Bono ci restituisce un suo ritratto a tutto tondo che parte da una parola: autodeterminazione. È questa che ha fatto sì che per restituire la sua Ornella Vanoni in Califano Valeria Bono si sia rimessa alla ricerca di tutto ciò che dalla cantante era stato fatto negli anni. “Credo di aver visto e ascoltato qualsiasi cosa Ornella abbia fatto o pubblicato”.
Ma uno rimane il più grande sogno di Valeria Bono: sperando che possa vederla in Califano, si augura un giorno di poter incontrare Ornella Vanoni. Anche perché con lei è cresciuta e da lei è stata accompagnata come spirito guida non solo in quest’avventura.
Intervista esclusiva a Valeria Bono
Immagino temessi il confronto, dal momento che parliamo di un personaggio ancora in vita.
Sono terrorizzata dal confronto e da ciò che Ornella penserà. Quando ho saputo di aver ottenuto il ruolo, il mio desiderio sarebbe stato di incontrarla sin da subito ma la produzione ha voluto in un certo tutelarmi: quella che avrei dovuto interpretare era un’Ornella diversa da quella che è oggi e il suo pensiero avrebbe potuto in qualche modo influenzarmi. Credo che però nel frattempo qualcuno l’abbia informata: non era mai stata rappresentata prima in un film.
L’ossessione è spesso connotata negativamente quando invece in determinati contesti diventa una costola dell’autodeterminazione.
L’arte è piena di parole che contengono in sé un significato doppio. È un po’ come quando nella vita si fa l’elenco dei propri pregi e difetti: spesso possono essere intercambiabili. Spesso mi dicono ad esempio di essere una persona “buona” o “dolce”: di per sé, sono caratteristiche positive ma nella vita possono anche essere il viatico per situazioni anche dolorose.
L’ossessione nel mio lavoro è quella propensione che ti motiva a studiare tanto e a documentarti ma che ha anche l’altra faccia della medaglia: può portare anche a chiuderti e a vedere solo la tua visione. È un rischio che ho dribblato in questo caso: sono stata molto fortunata ad avere come compagno di scena Leo Gassmann che mi ha forzata a stare nel presente. Provenendo dalla musica, Leo è propenso all’ascolto più totale in scena: si vede da lontano che è abituato a stare sul palco con altri musicisti senza preoccuparsi del curriculum dell’altro. È stato sempre pronto a prendere e dare: recitare al suo fianco è stato veramente fantastico e mi auguro che la gente possa accorgersi della sua bravura…
Insieme, siete protagonisti di una delle scene più intense di Califano: quella in cui, seduti a un pianoforte, Franco e Ornella Vanoni danno vita a La musica è finita. La voce che sentiamo cantare è la tua?
Si, quella che si sente in quella scena ma anche in quella in partecipo al Festival di Sanremo (con una canzone che ho potuto incidere in studio con la vera band di Califano) è la mia voce. Grazie a questo set, io e Leo siamo diventati amici e, quindi, per me è stato come trascorrere un pomeriggio a cantare al pianoforte con un amico… Le riprese di Califano – e lo considero un grandissimo regalo – mi hanno quasi obbligato a tirare fuori un’altra mia grandissima passione, il canto.
Da autosabotatrice, raramente il canto aveva superato i confini della mia camera. Suono la chitarra e canto: i miei amici mi hanno sempre spronato affinché lasciassi emergere anche questo mio lato ma, a quanto pare, doveva arrivare dall’alto il ruolo perfetto per farlo. E quello di Ornella lo è stato: mi ha fatto crescere, usare l’ironia, commuovermi, cantare, litigare e tirar fuori, seppure in pochi minuti, tutto un ventaglio di emozioni incredibili.
Perché eri restia a lasciar emergere la tua propensione al canto?
Mi è sempre piaciuto sia recitare sia cantare. Ma le circostanze della vita mi hanno portata a preferire la recitazione ma forse la colpa è anche del nostro Paese che tende a chiederti di settorializzarti, per cui o reciti o canti, come se fosse impossibile fare le due cose contemporaneamente. Dal mio punto di vista, il canto non è altro che una freccia in più che puoi scoccare dal tuo arco per esprimere emozioni e sentimenti.
Abbiamo milioni di esempi di attrici, soprattutto d’oltreoceano, che insegnano come si possano fare bene entrambe le attività: Emma Stone, Meryl Streep ma anche Anne Hathaway, a cui è anche legata in qualche modo la performance che mi ha spinta a voler fare questo lavoro. Era il 2012 ed era nel cast del film Les Misérables, un musical in cui in una scena di cinque minuti si esibisce in un ciò che sarebbe un monologo cantando in presa diretta. Frequentavo ancora il liceo, guardavo il film al cinema e mi dicevo che anch’io avrei voluto fare la stessa cosa. Da noi, purtroppo, non c’è la cultura del musical, quasi sempre relegato alla commedia (e mai al dramma) o sottostimato.
Era il 2012, anche se la passione per la recitazione è nata in te molto tempo prima. Hai cominciato a frequentare una scuola teatro già nel 2008 quando eri pressoché una bambina.
Non c’è mai stato nella mia vita un ‘piano B’ rispetto all’arte. Sin da piccola, non solo guardavo i film ma amavo anche tantissimo disegnare e dipingere. Sono cresciuta in una casa con 40 mila dischi in vinile (e non è un numero metaforico) perché mio padre è sempre stato un grandissimo appassionato di musica. Si respirava l’arte ma allo stesso tempo la mia era una famiglia di scienziati (mamma è medico mentre papà insegna all’università materie scientifiche) per cui l’arte era intesa un po’ come hobby.
Sono stata la prima in casa a rompere lo ‘schema’: l’arte era la mia vita. Ho iniziato con il disegno fino a quando in me è nato il desiderio di voler fare la stilista: conservo ancora i quaderni con i cartamodelli che ho realizzato fino a quando non ho scoperto il teatro. In quel momento è come se si fosse fermato il tempo: avevo trovato la mia strada.
Una strada difficilissima…
Come tutte le strade coraggiose. Ma è la passione ti fa andare avanti nonostante le difficoltà. Durante gli anni del liceo, andavo al cinema o al teatro e sognavo: sognavo di essere lì, sullo schermo o sul palco, e soprattutto provavo emozioni che mi muovevano qualcosa dentro. Per Les Misérables, ad esempio, mi sono commossa in sala e per una torinese come me, che per stereotipo abbiamo un rapporto freddo con l’esternazione delle proprie emozioni, significava tanto.
E subito dopo il liceo hai avuto la fortuna di essere ammessa all’Accademia Paolo Grassi.
A prepararmi per il provino è stato un altro attore, mio grandissimo amico fraterno: Simone Coppo. Spesso di dice che gli attori tra loro non si sostengano ma è una frase fatta che non mi stancherò mai di smentire: sono stata fortunatissima nell’avere amici e colleghi con cui ho un rapporto di ammirazione e stima reciproca e senza i quali non sarei andata da nessuna parte. Avendo frequentato un liceo molto snob di Torino, non avevo un gruppo di amici solido e mi sentivo spesso dire che in accademia sarebbe stato anche peggio per via dell’alta competizione: eppure, è lì che ho conosciuto quelli che sono a oggi i miei migliori amici.
Fortunatamente, esistono artisti che sanno mettere da parte il proprio ego per creare qualcosa insieme, un po’ come Franco Califano e Ornella Vanoni nella scena in cui il primo spiega alla seconda come cantare La musica è finita. Qualcuno mi ha chiesto se quello rappresentato non sia un esempio di mansplaining… per me, non lo è: molto spesso le opere d’arte vengono fuori da un confronto in cui le dinamiche di genere passano in secondo piano per lasciare spazio alla magia.
Il contributo degli altri, ad esempio, è stato essenziale per me per dare vita a Ornella. Ciò che sono io in scena non è solo frutto del mio lavoro ma anche delle tante persone che si muovono su un set. In questo caso, vocal coach, costumisti, parrucchieri, e tutti coloro che con il loro contributo mi hanno resa molto simile, nei movimenti, nell’attitude e nella voce, a quell’Ornella che ho visto fino alla nausea nell’incredibile archivio di RaiPlay.
Hai visto tutto ciò che era possibile vedere su Ornella e hai letto la sua biografia. Cosa hai scoperto di te stessa?
È stata per me un’esperienza personale quasi assurda. Caratterialmente sono molto diversa da Ornella e la sua biografia si è rivelata un manuale preziosissimo. Mi ha permesso di capire com’era come donna, come ragionava, qual era la sua sensibilità e che sicurezza di sé avesse. Rispetto a lei, sono molto più timida: sto lavorando pian piano sull’essere più sicura di me e sulla mia autostima. Interpretarla, quindi, mi ha fatto sentire diversa ma è stato il supporto di trucco, costumi e parrucco, che mi ha permesso ad esempio di camminare in una stanza con un’energia diversa, non mia: era come se sentissi fisicamente lei sul mio corpo.
Che sul set di Califano si respirasse un clima di condivisione e armonia è anche evidente da una delle scene del film, in cui si vede tutto il cast artistico impegnato in una sequenza quasi da filmino amatoriale.
Girare quella sequenza è stato fondamentale. Sono state le prime scene realizzate e sono nate dal desiderio del regista e della produzione di farci fare gruppo. E lo scopo è stato raggiunto: quando abbiamo girato le altre scene, eravamo già tutti affiatatissimi. Preziosissima è stata la sensibilità di Alessandro Angelini.
Da appassionato di musica, come ha reagito papà quando gli hai comunicato che avresti interpretato Ornella Vanoni?
Per mio papà ma anche per i miei amici e tutti coloro che mi conoscono è stato quasi un segno del destino: “Chi altro avrei mai potuto interpretare?”. Questo perché la mia passione per Ornella è da tempo nota a tutti: non è nata da ora. La imitavo spesso in passato e tenevo anche una rubrica, una sorta di posta del cuore, in cui i miei amici mi sottoponevano i loro problemi sentimentali ed io rispondevo loro con la voce di Ornella. Si sarebbero sorpresi se mi avessero scelto per Mina (ride, ndr)!
Aneddoto a parte, papà era molto contento: ho ereditato da lui la passione per la musica. In casa nostra, ci sono sempre stati i vinili della Vanoni, soprattutto quelli legati alla musica brasiliana.
Valeria Bono, tuttavia, esiste anche al di là di Ornella Vanoni. La tua prima esperienza di attrice al cinema e in tv è arrivata grazie a un lavoro mastodontico: Romanzo familiare di Francesca Archibugi. Com’è stato per te ragazzina piombare su un set che concretizzava ciò che per te era un sogno?
È stato come un regalo del destino. Dopo aver sognato tutte le notti di entrare in Accademia, mi sono resa conto che il percorso di formazione era molto diverso da come lo avevo immaginato e idealizzato: il percorso accademico arricchisce ma è anche estremamente duro. Portavo con me tutte le fragilità di una ragazza di 19 anni che due mesi prima era ancora alle prese con le versioni di latino e di greco quando mi sono ritrovata catapultata in un mondo dove sei obbligato a entrare in contatto anche con le parti più nere di te. È stato tosto, tanto che rischiavo sempre di ripetere l’anno, aspetto che aveva minato abbastanza la mia autostima come attrice.
Quando è arrivata la mail per il casting della serie tv di Francesca Archibugi in cui si cercavano giovani attori e attrici per personaggi all’interno di un’accademia navale, ho subito pensato che probabilmente si cercassero persone che avessero in qualche modo vissuto un’esperienza simile. Ed è così che ho deciso di sottopormi ai provini. Sono stati molti prima di arrivare a quello con la regista. Avevo chiaramente paura ma non avevo niente da perdere: in tre anni, avevo incontrato insegnanti anche durissimi che mi avevano già detto tutto quello che di pesante potessi sentirmi dire.
Ricordo ancora l’emozione di incontrare una maestra del cinema e sentirsi dire da lei di essere bravissima: mi sono trattenuta per poco dal piangere… non dimenticherò mai quell’investitura poetica che mi era arrivata addosso. Sul set, Francesca si è rivelata una madre artistica in tutti i senti. Con la sua umanità fuori dal comune, sa guidarti con amore.
Ciò mi ha permesso di capire come il mio sia anche un lavoro fatto di punti di vista. La materia è così fluida e inafferrabile per cui non esiste un giudizio unico. Ed è questa la ragione per cui oggi non vivo con trepidazione il momento in cui uscirà un progetto a cui ho lavorato: cosa dirà il pubblico sarà sempre valido, sia che abbia valenza positiva sia che abbia valenza negativa… entrambe le opzioni sono accettabili proprio perché gli esseri umani e i loro gusti sono tutti diversi.
In più, come esperienza ti ha fatta avvicinare a un mondo per te del tutto sconosciuto: interpretavi una bulla all’interno dell’accademia navale.
Un mondo in cui da donna pacifista non mi sarei mai avvicinata per scelta. Tuttavia, grazie a quel personaggio, ho avuto il privilegio di vedere da vicino un’istituzione, come tutte quelle militari, restie a mostrarsi all’esterno dei loro confini e piene di regole che sembrano frizzate nel tempo. Giravamo all’interno della vera accademia navale di Livorno e, quasi da infiltrato, potevo cogliere da un punto di vista inedito il pensiero e la filosofia militare. Mi divertivo quasi a confondermi tra i cadetti per carpire la reazione degli ufficiali di fronte a un mio comportamento: se non fossi stata ripresa, avrebbe voluto dire che mi ero calata perfettamente nei panni di una cadetta. Ogni giorno sul set, era un test per capire se fossi nella parte: non smettevo di essere il mio personaggio neanche nei momenti off record.
Pur non preoccupandoti del giudizio, cosa ti darebbe fastidio che venisse detto o scritto su di te attrice?
Nel caso di Califano, dato che mi sono misurata con un mito, urterebbe la mia sensibilità il sentirmi dire che non ho affrontato questo percorso non rendendo onore a Ornella Vanoni. Mi spaventava dover cantare con la mia voce, ad esempio: significava uscire dalla mia comfort zone e non l’ho fatto con superficialità. Leggere il contrario so che, seppur sia aperta alle critiche, mi farebbe male. Sia io sia Leo Gassmann (ma anche gli altri attori del cast, penso a Jacopo Dragonetti che interpreta Edoardo Vianello) ci siamo approcciati con molto rispetto nei confronti delle icone che portavamo in scena.
Recitare significa indossare vesti non proprie mentre cantare vuol dire mettersi a nudo. Nasce da ciò la tua paura di far uscire il canto dalla tua camera?
Probabilmente, sì. È una paura che mi sto scrollando di dosso solo di recente. E forse il ruolo di Ornella è arrivato anche in un momento in cui io stessa ero pronta a mostrarmi con più coraggio dopo un periodo personale buio. Ornella Vanoni è stata come la mia personalissima fata madrina: mi sono immaginata spesso l’Ornella di oggi che mi spronava a metter da parte la paura, un’emozione che anche lei stessa in una recente intervista ha ammesso di aver smesso di provare solo una decina d’anni fa… un tempo estremamente piccolo rispetto alla storia che si porta sulle spalle.
La paura è un potere che diamo in mano agli altri ma che dobbiamo invece prendere e trasformare in arte: Take your broken heart and make it into art, come ha detto Meryl Streep durante il suo discorso di ringraziamento per il Golden Globe alla carriera.
Di cosa oggi hai paura?
Di tante cose. La più grande è il non avere la possibilità di essere vista e di riuscire a esprimermi attraverso il mio lavoro. Per anni, ho bussato a porte senza che queste si aprissero. Il ruolo di Ornella è arrivato dopo tante volte in cui il mio amore per il mestiere di attrice è stato messo a dura prova. Ci sono stati momenti in cui ho temuto di non riuscire a farlo e di deludere coloro che credono in me. Fortunatamente, i miei genitori, le mie sorelle e i miei amici hanno sempre creduto in me, anche quando con prepotenza la vita sembrava indicare tutt’altro. La sola passione spesso non basta e terrorizzano i periodi in cui la vita ti mette di fronte all’eventualità di non farcela.
A breve ti vedremo anche in Race for Glory, un progetto multilingue che ricostruisce una pagina della nostra storia automobilistica.
Interpreto una piccola parte ma l’approccio al personaggio è stato ugualmente interessante. Dietro al progetto c’è Riccardo Scamarcio, anche produttore del film e compagno di scena fantastico: è un attore estremamente creativo e sempre in ascolto. Lavorare con lui è stato molto piacevole: ti fa sentire tutta la stima e la cura che ha nei confronti degli altri. Nonostante non mi spaventasse l’ipotesi di recitare in inglese (è un po’ la mia seconda lingua, la studio da sempre e il mio sogno è sempre stato quello di trasferirmi a Londra o New York, città in cui mia madre ha vissuto per lavoro), il mio personaggio parla italiano.
Oltre all’inglese, parli fluentemente anche francese e… russo! Da dove viene il russo?
Sempre a proposito di ossessioni, al liceo tra le tante passioni avevo quella per i romanzi e i testi teatrali russi. Nel liceo di Torino che frequentavo, al quarto anno si andava d’estate in viaggio studio negli Stati Uniti. Era qualcosa di molto costoso, che non tutti potevano permettersi: mi sarebbe piaciuto farlo ma non si poteva. Un’associazione metteva però a disposizione delle borse studio per trascorrere dei periodi all’estero in Paesi economicamente più accessibili e meno inflazionati: da appassionata della cultura russa, ho provato ad avervi accesso e sono stata selezionata per trascorrere tutta l’estate in Lettonia.
Sono stata ospite di una famiglia vicino al confine con la Bielorussia, in un posto in cui si era circondati solo da foreste e laghi, fermo nel tempo. La famiglia però parlava solo ed esclusivamente russo, ragione per cui per me lo shock culturale è stato enorme prima di imparare giorno dopo giorno a prendere dimestichezza con la lingua. Ricorderà sempre il pomeriggio in cui la mia mamma ospitante mi ha portato con sé a raccogliere mirtilli dopo settimane che ero lì e non capivo ancora nulla di russo: a un certo punto, ha cominciato a parlarmi senza più fermarsi.
Le rispondevo con l’unica parola che conoscevo “da” e ancora oggi mi chiedo cosa mi abbia mai raccontato. Forse dei segreti inconfessabili o la storia della sua vita, facendosi forza del fatto che non capissi una parola. Non lo saprò mai: forse aveva solo un disperato bisogno di essere ascoltata.
Ornella Vanoni è sempre stata simbolo di indipendenza e di libertà. Che rilevanza assumono per te le due parole?
Fondamentale. Sono nata e cresciuta in un contesto fortunato, i miei mi hanno sempre trasmesso l’importanza dei due valori da sempre. Nei confronti delle donne, molti passi in avanti sono stati fatti ma la strada è ancora lunga.
Ti sei mai sentita oggettificata?
Tutta la vita. Quando un’attrice si fa strada, spesso si dice che è accaduto solo perché è bella: la bellezza abbinata al talento sembra ancora inconcepibile. Ed è un tabù da sfatare. Le donne nel mondo dello spettacolo o dell’arte in generale, se hanno un aspetto conforme ai canoni, devono da sempre fare il doppio della fatica per avere credibilità.
Ti ha aiutata nel tuo processo di emancipazione l’avere come punto di riferimento in casa una figura femminile che non fosse solo una mamma di famiglia?
Mia madre è sempre stata un esempio per me. È una grandissima professionista, un grandissimo medico, una bellissima donna che ha studiato per tutta la vita. Non venendo da una famiglia di medici, si è fatta strada facendo appello al suo grande impegno e alla sua passione. Mi ha spronato verso l’indipendenza e l’autodeterminazione: sia io sia le mie due sorelle (una ingegnere e una fotografa) abbiamo ereditato da lei questi due aspetti. Siamo state cresciute, anche da mia padre, con l’idea di quanto fosse importante per noi trovare la nostra strada e la nostra identità.