Valerio Di Benedetto, attore romano, ci offre uno sguardo profondo e riflessivo non solo sul personaggio di Angelo nel film Taxi Monamour, in uscita al cinema con Adler Entertainment dopo il passaggio al Festival di Venezia alle Giornate degli Autori, ma anche su se stesso, sul suo percorso artistico e umano.
Angelo, il personaggio che interpreta, è definito dalla percezione che la sua famiglia ha di lui, in particolare dalla madre, che lo considera la "pecora nera". Tale etichetta crea in Angelo un complesso di inferiorità, alimentato dal confronto con il fratello, un anchorman di successo. Valerio Di Benedetto ci spiega come, nel costruire il personaggio insieme al regista, abbiano immaginato Angelo come un uomo che, pur desiderando emergere come scrittore o giornalista d'inchiesta, si scontra costantemente con le aspettative e i giudizi familiari. La sua lotta non è solo contro l'immagine che gli altri hanno di lui, ma anche contro una memoria che sembra tradirlo, come nel caso del ricordo dell'operazione di appendicite. Una battaglia per affermare la propria verità che diventa un simbolo della sua ricerca di identità e di riconoscimento.
Quando Valerio Di Benedetto riflette su Angelo, è inevitabile che si interroghi su se stesso, come artista e come individuo. La sua risposta è quasi una meditazione, un processo continuo di autoanalisi che lo porta a esplorare diverse forme di espressione, dalla recitazione alla poesia, dalla street art alle mostre d'arte. Non si definisce con un'etichetta precisa, ma piuttosto come un esploratore di se stesso attraverso l'arte. Questa ricerca continua di equilibrio e autenticità si riflette nel suo approccio alla vita e alla carriera, in un percorso che Valerio Di Benedetto stesso descrive come una "rivoluzione umana" costante, un termine preso in prestito dal buddismo.
L'arte, per Valerio Di Benedetto, non è solo un mezzo di espressione, ma un processo di scoperta e di definizione di sé. La sua esperienza lo ha portato a sperimentare e a vivere ogni no come un'occasione di crescita, sviluppando una resilienza che gli permette di affrontare le sfide del mestiere senza perdere la fiducia in se stesso. La sua è una storia di trasformazione, dove l'attore, il poeta, l'artista di strada si fondono in un'unica identità in continua evoluzione. In Valerio Di Benedetto, come in Angelo, vive una tensione tra ciò che è e ciò che vorrebbe essere, una tensione che alimenta la sua arte e che lo spinge a non fermarsi mai, a non rimanere immobile, proprio come quella marea che distrugge i castelli di sabbia per liberare i sogni.
Intervista esclusiva a Valerio Di Benedetto
“È la pecora nera della famiglia o quantomeno questo è quello che la madre pensa di lui”, mi risponde Valerio Di Benedetto quando gli chiedo di raccontarmi chi è Angelo, il personaggio che interpreta nel film Taxi Monamour di Ciro De Caro. “Angelo vive un complesso di inferiorità con il fratello, molto più affermato di lui e con un lavoro più redditizio. Anche se dalla storia non si evince particolarmente ma è così che con il regista ce lo siamo immaginati studiando il personaggio e lavorandoci sopra, vorrebbe anche lui fare lo scrittore, il giornalista di inchiesta, ma è costretto a confrontarsi e scontrarsi con un fratello che fa l’anchorman, il telegiornalista che tutti riconoscono e fermano. Ma a fargli notare maggiormente le differenze è la madre”.
Madre con cui Angelo cerca di rimettere i punti con il ricordo di un intervento di appendicite.
Angelo è convinto di aver subito lui quell’operazione anni addietro, se lo ricorda e porta avanti quella che reputa una battaglia di principio per aver riconosciuta una sua particolarità: il non essere creduto, nonostante il suo ricordo lucido, mette in dubbio non solo la sua onestà intellettuale ma anche chi è.
E tu, Valerio, sai chi sei?
Me lo chiedo, in realtà, tuttora. È sempre in corso un processo di autoanalisi per cui mi guardo dentro e cerco di capirlo, anche rispetto a quello che poi la vita ti offre e come decidi di affrontarlo. E, anche quando mi pongo in un determinato modo anziché un altro, mi pongo la domanda ricredendomi su chi sia stato fino a quel momento. Provo a trovare sempre il giusto equilibrio in quel percorso costante che nel buddismo si chiama rivoluzione umana.
Non è l’arte un mezzo per cercarsi e trovarsi?
Sì, se vissuta come la vivo io sperimentando in altri campi oltre la recitazione: ho pubblicato un libro di poesie, ho iniziato a praticare street art e dopo ho cominciato a fare delle mostre con le opere che dipingevo, tecnicamente delle poesie dipinte sulle serrande, arrivando alla Biennale di Venezia. Tutto ciò però mi ha poi posto l’interrogativo: sono un attore? Un poeta? Uno scrittore? Un artista, per quanto il termine sia abbastanza abusato, stuprato e spesso utilizzato con molta superficialità? Mi guardo bene ad esempio dal definirmi tale ma sicuramente esploro varie forme di espressione: non mi riconosco in un’etichetta precisa. E, quindi, alla domanda di prima su chi sono, rispondo che sono questo ma anche quest’altro e quell’altro ancora.
Tutte le tue biografie online partono da un punto fermo: il diploma in arte drammatica presso l’accademia Teatro Azione di Roma. La domanda è quasi d’obbligo: come sei arrivato alla recitazione?
Ci sono stati prima due appuntamenti fondamentali per la mia crescita attoriale. Il primo, intorno ai 13 anni, quando ho preso parte al saggio delle scuole medie e ho suscitato l’entusiasmo di mio padre: non ricordo cosa fosse nello specifico ma soltanto che aveva a che fare con i Carmina Burana e un viaggio verso l’Oriente. Il secondo, invece, a vent’anni: dopo aver terminato il liceo e il primo anno di università, sempre mio padre mi ha informato di un corso di recitazione gratuito all’Eur invitandomi a provare. E così ho fatto: si trattava di un corso all’Officina Teatro Xi diretta da Luca Monti, dove ho lavorato con insegnanti che sono prima di tutto bravissimi attori in grado di darmi tantissimo.
Ed è curioso che mi sia ritrovato a fare l’attore se penso a com’ero da piccolo. Frequentavo le scuole elementari dalle suore e per via dell’estrema timidezza, una caratteristica che ancora mi porto un po’ dietro non avendola ancora scardinato del tutto, non volevo mai prendere parte a nessuna recita. Tutti gli anni si metteva in scena il classico Avvento e io ero sempre delegato a fare il coro, in fondo e con le stelline appiccicate in faccia a cantare male.
Solo l’ultimo anno cambiai idea, dicendo a una delle suore che avrei voluto fare di più: mi mise a fare il pastorello e da qualche parte ho ancora una foto che lo testimonia… sono stato per un’ora e mezza in ginocchio e fermo, ragione per cui mi dissi anche che non avrei mai più fatto l’attore in vita mia: un mestiere così sofferente, statico e mortificante non faceva per me secondo la mia logica. Poi, però, le cose sono evidentemente cambiate e per fortuna non c’è più stato il pastorello da interpretare!
Solitamente i padri o, comunque, i genitori sono quelli che vorrebbero per i figli dei lavori meno precari. Cosa aveva notato tuo padre in te per spingerti verso la recitazione?
Non lo so: è una domanda che ancora non gli ho posto ma ho in mente di fargliela a breve in modo da avere una risposta. Nella famiglia di mio padre hanno tutti una spiccata vena artistica: suo zio, ad esempio, scriveva canzoni per il Quartetto Cetra (ma questo non mi ha mai dato alcun tipo di agevolazione o raccomandazione), mio padre stesso suona il piano come una delle mie zie mentre un’altra dipinge. E la vena artistica è qualcosa che ho ereditato anch’io: quand’ero piccolo volevo fare il fumettista o frequentare l’Accademia Disney perché ho sempre disegnato.
Rimango tuttora un appassionato di fumetti e quando posso vado al Lucca Comics o al Napoli Comics… Poi, da quando ho interpretato Dylan Dog nel mediometraggio Vittima degli eventi, mi si è aperto uno scenario parallelo super interessante perché ho conosciuto direttamente le persone che hanno disegnato quegli albi che ho letto.
Taxi Monamour: Le foto del film
1 / 17Di sicuro, tuo padre non ti ha visto come la pecora nera come accade ad Angelo.
Per fortuna, no. Ci siamo comunque sempre molto sbattuti in famiglia: ci siamo dati da fare e abbiamo sempre trovato il modo di far qualcosa. Io per primo, soprattutto nei momento bui del percorso che far recitazione comporta. È vero che le carriere sono tutte diverse ma questo non vuol dire che non ci siano dei sali e scendi, è sempre un roller cross molto insidioso in cui esistono i momenti di bassa: l’esperienza familiare che mi porto dietro mi spinge comunque a rimboccarmi le maniche, a fare, a cercare e a non stare mai fermo.
E come affronti i momenti di bassa?
Cerco di combattere tutto ciò che non dovresti mai provare, quello che comunque sia ti allontana dall’obiettivo finale, il credere in te. Nei primi tempi, la prendevo molto sul personale ma con gli anni, grazie anche alla regista e attrice Michela Andreozzi, ho capito che niente in questo lavoro è personale: se non si viene presi per un ruolo non dipende da te ma da tanti altri fattori che sono fuori dal tuo controllo. Ma prima di arrivare a tale consapevolezza anche di me, dei miei strumenti e delle mie capacità, ce n’è voluto… i no mi bloccavano spingendomi a chiedere perché sempre a me ma oggi vivo tutto in maniera più rilassata: un no non mi destabilizza più, l’importante è sapere di aver fatto tutto ciò che era nelle mie possibilità.
A proposito di consapevolezze, quand’è stata la prima volta che ti sei definito “attore”?
È accaduto molto tardi rispetto a quando ho iniziato. Ho sempre avuto la tendenza a rimanere con i piedi per terra, a non volare troppo alto e a non montarmi la testa: cerco di vivermi il presente e di stare nel qui e ora. La consapevolezza di essere un attore è arrivata quando ho preso parte a spettacoli teatrali molto impegnati e, se vogliamo, difficili.
Il primo che potrei citare è Cuore di tenebra di Joseph Conrad, una prova che per me è stata molto tosta: è lì che mi son detto che potevo farcela ma senza grandi esaltazioni. Ma prima ancora era accaduto dopo aver girato Spaghetti Story con De Caro, quando ho visto che dai tre giorni iniziali previsti per la sala il film è rimasto invece tre mesi in cartellone: io, Ciro e gli altri attori del cast andavamo tutte le sere al cinema Aquila a ringraziare gli spettatori. Se a loro quella storia e la mia interpretazione erano risuonate, forse qualcosa ero in grado di trasmetterla.
Taxi Monamour è il quarto lungometraggio di Ciro De Caro in cui reciti. Cosa vi lega?
Io e Ciro ci siamo conosciuti quando frequentavo Teatro Azione. Al secondo anno, cambia sezione e andai nella stessa classe della sua ex fidanzata, Rossella D’Andrea, co-sceneggiatrice e co-protagonista di Spaghetti Story e Acqua di marzo, due dei film diretti da De Caro. Con Ciro ci ritrovammo fuori dall’accademia, non so perché, a parlare della Roma dandoci poi appuntamento la domenica successiva per vedere insieme una partita in cui la squadra giocava non so contro chi. Era un momento particolare per la Roma, rischiava di vincere il suo quarto scudetto e la partita vista insieme finì con una vittoria: da quel giorno, vedemmo insieme il resto degli incontri di campionato. E da quell’esperienza condivisa nacque il cortometraggio Salame milanese.
Un corto diventato fenomeno di culto.
Nacque tutto per caso. Ciro aveva comprato una nuova macchina fotografica che si diceva fare dei video in alta risoluzione e aveva scritto una sceneggiatura sulla Roma. “Ti va di girarla?”, mi chiese, e l’abbiamo fatto. Il boom fu tale che, al momento dell’uscita, persino le radio passavano il cortometraggio come se fosse un pezzo musicale… ma ciò che per me è stato pazzesco è stato andare anni dopo per uno spettacolo all’Ara Pacis, dove eravamo tutti in giacca e cravatta per un evento semi-istituzionale, ed essere riconosciuto da uno dei guardiani, fan sfegatato della Roma!
E a quel corto ne sono seguiti altri due, sempre sul calcio.
Sono nato e cresciuto alla Garbatella, che è da sempre tendenzialmente un quartiere della Roma. Ho dunque sempre tifato Roma ma non ho mai seguito le partite in maniera assidua come in quel periodo con Ciro. Ma, paradossalmente, non ho mai giocato a calcio: ho sempre praticato basket. Non sono da piccolo andato a calcetto perché avevo già un cugino che giocava a pallone e ai miei genitori padre non piaceva il clima di ostilità che si respirava tra i genitori sugli spalti durante le partite: ai miei genitori non andava di trascorrere tutte le domeniche mattina in quell’atmosfera.
Non è comunque mai stata la loro una decisione che mi ha cambiato la vita, anche perché anche oggi non è che sia un fan sfegatato: ho visto la finale degli Europei tra Spagna e Inghilterra solo per via degli sfottò inglesi. Ho sempre preferito il basket, la pallavolo e ora il tennis, a cui mi sto affacciando. E sono un fan sfegatato delle Olimpiadi, cosa abbastanza normale per chi come me ha anche una laurea in Scienze motorie.
Alla luce del tuo lavoro ma anche della tua laurea, che rapporto hai con la tua fisicità, con il tuo corpo?
Ho un rapporto sano e strano. Sono sempre stato longilineo e fisicamente asciutto. Superati i 35 però qualcosa è cambiato: non posso più mangiare quel che mi pare e rimanere così com’ero. È un rapporto che quindi è strettamente collegato a quello che ho con il cibo: vado in palestra, mi alleno e cammino per diecimila passi al giorno semplicemente perché dopo non ho problema a mangiare ciò che voglio: il pezzo di pizza in più è il mio obiettivo ultimo!
E non il lavoro?
Ho sempre cercato di non variare troppo il mio peso non per l’immaginario che gli altri hanno di me ma per via della tipologia dei personaggi che posso interpretare. Il mio è un lavoro che comunque mi condiziona un po’ l’estetica ma non fino al punto di diventare un nazista dell’alimentazione. Per Nero a metà 3, che si girava d’estate e che prevedeva una divisa che mi esponeva maggiormente fisicamente, non potevo di certo presentarmi con i chili in più che avevo preso dopo il lockdown: curiosamente, durante il Covid, non avevo preso un etto (anche perché credo di essere stato l’unico a non impastare o infornare in quel periodo) ma dopo mi ero gonfiato per via di una alimentazione sregolata. Ma li ho persi, seguendo una dieta sotto controllo e allenandomi, per il mio amor proprio e per l’interesse che avevo a presentarmi in un determinato modo.
Da artista di strada, hai scelto di chiamarti Umanamente in Bilico. Perché?
Per il discorso sull’identità che facevamo a inizio conversazione. È un po’ il senso della vita, una continua ricerca e oscillazione, tra cadute e rialzate, vittorie e sconfitte.
Mai avuto problemi con l’arte di strada?
No, perché i miei non sono dei blitz. Dipingo sulle serrande dei negozi dopo essermi accordato con il proprietario: sono semplicemente delle scritte, non mi interessa arrivare di soppiatto col pennarello, scrivere e scappare. Non l’ho mai fatto e non lo trovo stimolante.
Un esempio di scritta di cui vai fiero?
Ce ne sono parecchie. Ma, visto che rispondo fronte mare e abbiamo parlato di obiettivi, ce n’è una che fa al caso giusto, una poesia scritta per degli amici che avevano uno stabilimento balneare a Terracina: “Nei castelli di sabbia dimorano i sogni prima di diventare realtà”. Perché i sogni devono stare sempre chiusi nel cassetto? Magari stanno in un castello di sabbia che costruiamo noi e che la marea poi sfonda liberando tutte le nostre intenzioni.