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Vergo: “Senza catene, posso essere quello che voglio” – Intervista esclusiva

vergo senza catene
Vergo è una delle voci più interessanti della scena queer italiana: lo conferma il suo nuovo EP Senza catene in cui non solo affronta di petto temi cari a lui cari come la lotta allo stigma sociale e la libertà sessuale ma mostra anche tutta la fluidità musicale che ha maturato. Lo abbiamo intervistato in esclusiva.

È disponibile da oggi, 29 settembre, su tutte le piattaforme digitali Senza catene, il nuovo ep di Vergo. Distribuito da Oyez!, Senza catene rappresenta per Vergo, una delle penne e voci più interessanti oltre che innovative della scena italiana, il raggiungimento di un traguardo, come ci spiega lui stesso nel corso di quest’intervista esclusiva. Un traguardo che lo ha spinto a liberarsi di tutte le catene che nel suo percorso, da un lato, gli sono state messe addosso e che, dall’altro lato, si è messo addosso per cultura, formazione o semplicemente paura.

Cantautore palermitano (di Villabate, per esser precisi) naturalizzato milanese, Vergo propone in Senza catene sette tracce all’insegna della liberazione che raccontano di vita, ora vissuta ora fantasticata, e che danno voce ad alcune tematiche e valori vicini alla comunità queer a cui appartiene. Ed è così che traccia dopo traccia si susseguono la volontà di essere chi si è e di vivere la propria sessualità in maniera aperta, la libertà di espressione anche quando questa può sembrare scomoda e il desiderio di decostruire quello stigma sociale che da sempre accompagna chi agli occhi degli altri appare “diverso”.

Con all’attivo una partecipazione a X-Factor e un singolo da 2,7 milioni di visualizzazioni come Bomba, Vergo in Senza catene non ha paura di cantare ciò che pensa passando da un genere musicale all’altro e proponendo liriche pungenti, ironiche, fantastiche e sincere, sicuramente mai banali. E non ha di certo timore di dire ciò che pensa di chi su un palco usa una parola di troppo e di chi non si dissocia, così come dell’industria musicale che usa il marchio “queer” solo per ragioni di convenienza.

In Senza catene, Vergo trova la complicità di vari amici, come i produttori Giumo (in Videocall) e Kimerica (in OMD) e i colleghi BigMama (in Comunque noi) e Axel (in Posso), qualificandosi come quell’artista di cui le nuove generazioni possono fidarsi senza paura di vedersi un giorno traditi da atteggiamenti o dichiarazioni non inclusive. Anche perché Vergo, alias Giuseppe Piscitello, sa cos’è la sofferenza: l’ha provata sulla sua pelle.

Vergo.
Vergo.

Intervista esclusiva a Vergo

Perché hai deciso di chiamare il tuo EP Senza catene?

Si chiama così prima di tutto perché rappresenta il proseguimento di quello di ciò che si dice nel testo di Bomba, “le catene si sciolgono”. E poi perché le catene hanno a che fare con tutti i pregiudizi che abbiamo sia verso noi stessi sia appoggiati addosso dagli altri o dalla realtà in cui viviamo. Nella copertina, ho voluto giocare quasi per antitesi riprendendo quella tradizione tutta siciliana per cui si dice una cosa per affermare il suo esatto contrario… e, quindi, ho voluto un’immagine in cui sono sostanzialmente avvolto da catene, che nella vita di tutti i giorni non sono solo quelle che si vedono fisicamente.

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Quali sono le catene che ti sono state messe addosso nel corso degli anni?

Tante, troppe… a cominciare dalla realtà omofoba che vivo costantemente in qualsiasi luogo mi trovi. È una catena che con il tempo ho imparato a indossare come se fosse un accessorio rigirandola in maniera positiva. Tutto ciò che è pregiudizio e offesa si è trasformato in punto di forza.

Ma a Milano come a Palermo?

Sì, assolutamente sì. Mentre a Palermo l’appartenere alla comunità queer è segnato da un silenzio assordante, a Milano c’è molta più sicurezza nel fare coming out: è l’unico aspetto che cambia ma non mutano i pregiudizi. Ricordo come, quando appena trasferito da pochi giorni al nord, passeggiando per strada con quello che era il mio fidanzato di allora, nello sfiorarci per un minuto la mano, una persone che ci passava accanto ce ne disse di tutti i colori: “Ma tenetevi la mano a casa!”.

E quali sono invece le catene che ti sei messo addosso da solo?

Sono consapevole di dover lavorare su molti aspetti di me stesso. Crescendo in determinati ambienti, certe catene a volte si radicano e diventano parte integrante di noi. Me ne rendo conto quando ad esempio mi interfaccio con realtà che non conosco: occorre in quel momento avere la forza di rivalutare i propri pensieri. Altre catene me le sono invece cucite addosso da solo.

Per esigenza o per educazione?

Per cultura. Liberarsene non è un passo che tutti riusciamo a far da soli ma per riuscirci è importante il confronto con gli altri. L’ho capito col tempo scontrandomi anche con me stesso e la mia maniera di approcciarmi al mondo.

Di etichette si parla in Comunque noi, la seconda traccia di Senza catene. Viene in ordine subito dopo al singolo Videocall ed è un duetto con BigMama. Com’è nata la canzone?

È un brano che è venuto fuori in un’unica sessione musicale. Era il marzo del 2022 quando Marianna (vero nome di BigMama, ndr) è venuta a casa mia e ci siamo ritrovati nel piccolo home studio che ho allestito nella mia camera. Tutto è partito da quel suono di tromba che si sente all’inizio e nel giro di pochi minuti è venuta fuori la canzone: è stato tutto un fluire. Tra me e BigMama c’è una certa chimica e rispetto reciproco, ci vogliamo bene e ci piace giocare insieme e prenderci in giro.

A livello artistico, si tratta di un pezzo molto importante per me perché risponde alla mia esigenza di ampliare le mie sfaccettature: non posso essere solo dipendente dall’autotune o solo melodico e, quindi, ho voluto testare la mia parte “clean”. E Marianna è stata la partner perfetta per questo tentativo, dal momento che entrambi siamo persone determinate e competitive.

Forse la vostra alchimia nasce dalla sofferenza che vi portate entrambi dietro…

Chi non cela sofferenza anche dietro all’aspetto da duro? In generale, l’essere umano è portato a soffrire e io e Marianna sappiamo bene cosa sia la sofferenza pur essendo cresciuti in momenti e luoghi differenti. Spero si possa sentire la rabbia verso la società in cui viviamo ma non solo quella: dietro alla canzone c’è la voglia di sdoganare chi si è, di giocare e di non prendersi sul serio nel presentare i nostri rispettivi mondi senza però permettere più a nessuno di prenderci per il culo.

Quando hai capito che era arrivato il momento di tirar fuori la rabbia che ti portavi dentro?

Dal punto di vista artistico, subito dopo la mia partecipazione a X-Factor. È stata un’esperienza super formativa soprattutto per quanto concerne la mia autostima artistica che mi ha regato un pizzico di “notorietà”: mi hanno scritto in tanti per confrontarsi e raccontarmi la loro storia. Ho realizzato che ciò che stavo facendo poteva avere una certa influenza in positivo ma, con il passare dei giorni, mi sono anche reso conto che sono molti gli artisti che non hanno una buona considerazione dei colleghi appartenenti alla scena queer. Tutta una serie di episodi mi hanno portato a incazzarmi e a far nascere in me il desiderio di trasformare il negativo in qualcosa di artistico e positivo.

Dal punto di vista personale, ho sviluppato ormai una certa corazza: determinate cose che prima mi ferivano oggi non mi fanno più un certo effetto. Rimango però un essere umano e ne vengo colpito, come quando dopo la mia partecipazione al Milano Pride un quotidiano ha pubblicato in prima pagina una mia foto scrivendo “Uno così può insegnare ai vostri figli?”: non stava colpendo solo me ma tutta la comunità lgbtqia+. E sì, ricordo che mi arrabbiai molto ma son fatto così: se colpisci me non reagisco ma se ferisci qualcuno a cui tengo divento una iena.  L’incazzatura mi ha però sensibilizzato maggiormente verso ciò che accade in questo Paese.

E su ciò che accade su determinati palchi, come accaduto nell’episodio della f-word pronunciata da Paky, a cui fai anche esplicito riferimento nel testo di Lamento d’amante.

Non ce l’ho contro la f-word in generale ma contro la maniera e il contesto in cui viene usata. Vale anche per altri termini e ogni tipo di parola: le parole esistono ma sono le intenzioni con cui le usi a cambiar tutto. In quell’occasione, mi sono particolarmente incazzato perché l’evento organizzato da Fedez a cui Paky ha partecipato veniva quando era appena finito il Pride Month e perché nessuno degli altri artisti presenti si è dissociato. E pensare che c’erano anche degli artisti queer dietro al palco…

Non hai la sensazione che gli artisti queer facciano comodo a un’industria musicale a cui delle tematiche queer interessa ben poco?

E posso dirti anche di più: a volte gli episodi di reale avvicinamento vengono da realtà da cui non te lo saresti mai aspettato e che scendono in prima linea anche a costo di scontrarsi con il proprio target di riferimento. Giorni fa, ad esempio, alla Fashion Week si è tenuto un evento della Juventus in collaborazione con il mondo della ballroom. Una combinazione che nessuno si sarebbe mai aspettato e per certi versi quasi epica che generato tantissimi scontri sui social fomentando i commenti da parte dei tifosi. Tifosi che dimenticano che siamo tutti esseri umani e, soprattutto, che anche nel mondo del calcio ci saranno tantissime persone che soffrono perché non possono permettersi di essere quello che vogliono.

Lamento d’amante racconta di due ragazzi impegnati in una relazione ma con un grado di consapevolezza diversa su ciò che sono.

È una canzone a cui sono molto legato perché i due protagonisti rappresentano due momenti diversi della mia stessa vita, il me che negava la sua fluidità e il me che l’ha accettata.

Vergo.
Vergo.

In OMD trovi come produttrice del brano Kimerica e racconti di come un incontro casuale possa risvegliare la fragilità interiore e rimettere in discussione il proprio io.

Il brano nasce da quel brivido che si prova poche volte per un incontro del tutto dettato dal caso o dal destino, Racconta della chimica e dell’energia unica che nasce in quell’attimo esatto e delle vulnerabilità che un incontro casuale è in grado di far venire fuori senza che da esso ci si aspetti nulla.

Ti senti fragile?

Sono una persona molto fragile, anche se cerco in tutti i modi di nascondere le mie emozioni, soprattutto quelle positive. Sono da sempre molto contenuto e si è visto anche quando, a X-Factor, non ho mostrato particolare stupore per essere stato scelto, non proprio l’ideale per il racconto televisivo che da sempre va alla ricerca delle emozioni e di quelle si nutre.

Piazza della Vergogna a Palermo (a cui devi il tuo nome d’arte) doveva essere un bel vortice di emozioni quand’eri adolescente. E anche la vergogna stessa è un’emozione. Cos’è per te oggi la vergogna?

Il periodo adolescenziale è per tutti un grandissimo vortice di emozioni. Oggi non provo più vergogna: la provavo prima di fare coming out… gli unici momenti in cui ne avverto un po’ di vergogna è quando ho paura di essere aggredito dai gruppi di bulli che si vedono in giro. Devo alla musica tutta la forza che mi ha portato ad avere una certa consapevolezza e a smussare le paure.

Consapevolezza che ti porta a scrivere un pezzo come Lavatrice, una canzone densa di erotismo, anche spinto se vogliamo.

Vi stupisco: non racconta una storia realmente accaduta ma qualcosa di surreale e fantascientifico. I due ragazzi protagonisti vivono in un’altra dimensione, in una realtà parallela in cui è illegale essere quello che si è. Decidono però di far sesso andando in bagno e accendendo la lavatrice, che udita da qualche curtigghiaro (termine siciliano indicato per usare i vicini pettegoli, ndr) scatena il putiferio e l’intervento della polizia. Più che sulla tensione sessuale del momento, è una canzone dedicata a tutti quelli che vengono ritenuti “fuori da ogni grazia”.

In Posso, in collaborazione con Axel, affermi con determinazione che puoi essere quello che vuoi. Cosa vuoi essere?

È il mio brano manifesto: “posso essere quello che voglio” è quella frase molto semplice che, se ripetuta a se stessi, può avere un forte impatto nella consapevolezza di chi si è. Almeno nel mio caso è andata così: posso essere ciò che voglio a prescindere da quello che sono il mondo stesso e la sua abitudine a etichettare tutto.

L’album si chiude con Cvore. Quanto ha sofferto Giuseppe per il cuore?

Tanto. Mi ripeto sempre che sarà l’ultima volta che do il cuore e che di lui mi fido ma so che non sarà così. È come quando dici di bere l’ultimo drink ma poi ne arriverà di certo un altro o un altro ancora.

Senza catene rappresenta per me un traguardo sotto diversi punti di vista. Componendo Cvore (che in un primo momento si muoveva su un genere diverso), ho compreso di essere una persona che fa musica e che ha una certa fluidità di genere musicale. Stavo rischiando di finire incasellato in un unico genere e di sbagliare: ciò che conta è riuscire a essere se stessi e restituire la propria essenza artistica a prescindere proprio dal genere musicale. Ragione per cui la tracklist è molto variegata ma alla fine il filo conduttore di tutto sono sempre e solo io. E ne vado molto fiero.

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Sul tuo profilo Instagram, c’è una foto che ti vede al Pop Shock, punto fermo della comunità queer di Palermo. Quando torni nella tua città puoi essere quello che sei senza doverti nascondere?

Ritornare al Pop Shock e viverlo in maniera diversa da un lato è stato molto bello. Dall’altro lato, invece, mi ha restituito il fatto che non sono più quello che ero prima. Sono totalmente cambiato dal Giuseppe che ero prima di partire per Milano… comunque sia, ritornare al Pop Shock da artista mi ha dato un’emozione diversa, enorme ma non paragonabile a quella provata quando lo scorso anno mi sono esibito per il Palermo Pride: ero nella mia città a supportare i diritti della comunità queer con tutta la mia famiglia presente.

È stato quasi un mettere un punto: sento di aver chiuso un cerchio che era ancora aperto. So che c’è una certa realtà ancora ostile ma ho avvertito un’atmosfera differente rispetto al passato, forse perché determinati temi per le nuove generazioni sono sempre più importanti e fondamentali.

“Paladino venuto fin qui per amarvi in nome della contro natura” è una delle definizioni che dai di te stesso. Quale superpotere vorresti avere?

Ma io sento già di avere un superpotere: riuscire a padroneggiare la musica, la magia che per me muove il mondo. La musica influenza davvero le persone e, non per ripetermi, è questa la ragione per cui mi incazzo quando qualcuno, soprattutto di molto affermato, usa questo potere per declassificare gli altri esseri umani. Prendiamo metaforicamente le scale melodiche “proibite” dell’Antica Grecia e usiamole per fare la rivoluzione.

Vergo.
Vergo.
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