Veronique Charlotte è insieme a Ester Pantano, Alessio Lu e Rodrigo Robbiati, protagonista della serie tv Love Club, quattro episodi disponibili dallo scorso 20 giugno su Prime Video. In Love Club, Veronique Charlotte interpreta Luz, la proprietaria del club queer in cui si intrecciano le complicate vite amorose e amicali di quattro ragazzi impegnati a lottare per conquistare il proprio spazio nel mondo.
Siamo in una Milano periferica e inedita, in un locale frequentato dalla comunità queer rischia di chiudere per problemi economici. Le vite di Luz, Tim, Rose e Zhang, che orbitano tutte attorno al Love Club, si sfiorano in un percorso che li vedrà affrontare le loro paure più grandi. Riuscirà Luz a vivere la storia con Roberta senza il timore di perdere la propria indipendenza? Mentre la malattia mentale è per Tim un ostacolo al suo sogno di fare il DJ, e Rose deve ritrovare il coraggio di cantare su un palco, Zhang sogna di esibirsi in drag ma per farlo deve trovare la forza di affrontare un compagno violento. A fare da palcoscenico alle loro vite, il Love Club: un luogo dove sesso, amore e amicizia si esprimono con traiettorie impreviste e senza regole di genere.
E per certi versi Love Club continua il percorso che Veronique Charlotte ha intrapreso oramai anni fa nei confronti della comunità lgbtqia+ prima con il Gender Project e poi con il talk show I Think Fluid. Di quei progetti Veronique Charlotte ci aveva parlato in esclusiva un anno fa ma oggi ritorna tra le nostre pagine per raccontarci non solo di Love Club ma di come la sua vita sia nel frattempo cambiato.
Ha 34 anni, Veronique Charlotte, ma come ammette candidamente è come se ne avesse vissuti cento e passa. E le ragioni della sua affermazione vanno indagate senza fermarsi alla superficie ma scavando a fondo nell’animo di una giovane donna che sembra oggi aver trovato la sua identità e il suo posto nel mondo. Ragione per cui la nostra nuova conversazione con Veronique Charlotte esula dalla mera promozione per Love Club e diventa confronto intimo e personale.
Intervista esclusiva a Veronique Charlotte
Ti abbiamo lasciata un anno fa alla conduzione di un talk, I Think Fluid, e alle prese con il Gender Project. Ti ritroviamo oggi protagonista nei panni di Luz della serie tv Prime Video Love Club.
Love Club è arrivato grazie a Gender Project. Eravamo a Berlino per la mostra che abbiamo tenuto a fine ottobre. Avendo un archivio di tante persone che abbiamo fotografato e conosciuto, siamo stati contattati per aiutare con lo street casting (la ricerca di nuovi volti non necessariamente professionisti, ndr). Ed è avvenuto dopo il passaggio successivo per cui mi hanno chiesto se volessi provare anch’io a recitare: l’ho fatto un po’ per gioco, senza nessun tipo di aspettativa. Mi sono ritrovata così nuovamente dall’altra parte della macchina da presa.
Ma con un linguaggio del tutto diverso, quello della serialità televisiva e della finzione.
Un’esperienza completamente diversa, molto difficile e molto intensa, ma nella quale mi sono trovata anche molto a mio agio. Devo essere sincera, non credevo però è stato molto bello e piacevole. Spero che mi ricapiti ancora: la magia che c’è nel cinema è fantastica, così com’è fantastico vedere anche tutto il lavoro che c’è in corso d’opera a livello di produzione, di scenografia, di scrittura, di regia, ma anche di make-up e di impegno di tutti gli attori con cui reciti, dagli emergenti come posso essere io a quelli più professionali.
Avendo girato in pochissimo tempo (tanto ce n’era), è stata veramente una full immersion che mi ha permesso di imparare tantissime cose ma anche di capire quanto difficile sia il mestiere dell’attore, il doversi calare dentro un personaggio, doverne sentire le emozioni e, soprattutto, riuscire a trasmetterle.
Lavorando dall’altra parte dell’obiettivo, ho vissuto un po’ di quello che faccio vivere io alle persone che fotografo e che sottopongo a video interviste per il Gender Project, tutto il lavoro di vulnerabilità e di emotività. Per me, è stato un momento di crescita e di approfondimento a livello, soprattutto, emozionale.
Cosa ti ha convinto a dire di sì a Love Club, a parte la produzione di Tempesta Film, la stessa società che si cela dietro ai film di Alice Rohrwacher?
Quando mi hanno proposto il progetto, mi sono resa conto che le autrici – Silvia Di Gregorio, Bex Gunther e Denise Santoro - volevano portare in scena qualcosa che, comunque, mancava nel panorama italiano e che si interfacciava tantissimo con il mio lavoro. Luz ha una vita che è molto simile alla mia per tanti aspetti, a cominciare dal dover chiedere aiuto alla propria comunità per dar potere alla stessa comunità e alle minoranze. Mi sono rispecchiata molto in lei e ho percepito immediatamente come Love Club avesse anche una valenza molto politica, considerando cosa sta succedendo adesso in Italia dove ancora c’è tanto bisogno di rappresentanza soprattutto a livello mediatico.
Quindi, a prescindere dall’esperienza meravigliosa data dal lavorare nel cinema, Love Club era qualcosa che andava di pari passo con il mio lavoro. Mi sono calata molto nei panni di Luz e spero che la serie tv possa avere un seguito per poter approfondire maggiormente la realtà raccontata.
La rappresentazione della comunità lgbtqia+ nella serie tv Love Club è per la prima volta totalmente inclusiva. Solitamente si tende a pensare ala comunità come fatta di tante frange che non comunicano tra loro. In questo caso, non solo le frange comunicano ma si impegnano tutte quante per un obiettivo comune. La salvezza del Love Club non è metaforicamente equiparabile alla conquista dei diritti, per cui serve un minimo di collaborazione da parte di tutti?
Assolutamente. Ci sono infatti personaggi come quello di Ester Pantano (presente all’Egadi Pride con tutto il suo sostegno, ndr), che interpreta Rose, una ragazza eterosessuale che frequenta comunque il Love Club, che sono degli alleati che danno valenza, valore e visibilità alle lotte, alleati che tante volte in realtà – mi dispiace dirlo – vengono proprio dalla comunità sottovalutati.
A proposito di sottovalutazione, Love Club è una serie tv che, al di là della rappresentazione della comunità lgbtqia+, pone luce su alcune tematiche che andrebbero approfondite, come ad esempio la salute mentale grazie al personaggio di Tim (il bravissimo Rodrigo Robbiati) e la violenza grazie a quello di Zhang (il commovente Alessio Lu), alle prese con un rapporto tossico e violento, qualcosa che non è inerente solo al rapporti uomo/donna…
È un problema legato all’essere umano in generale. La rappresentazione della storia di Zhang è molto forte e bella: quell’ultimo episodio è quello più “drammatico”, oltre che quello che emotivamente penso abbia avuto un riscontro più che positivo sul porsi molte domande. È il mio episodio preferito.
La violenza in quel caso non era solo quella fisica, uno stupro a tutti gli effetti, esercitata dal compagno ma anche quella familiare, con un genitore che rifiuta il proprio figlio.
E non è solo qualcosa che pone luce sulla società cinese ma anche sulla nostra. Il tema è proprio il rifiuto. Tante delle persone con cui ho lavorato negli ultimi quattro anni per il Gender Project hanno avuto alle spalle storie travagliate molto simili di allontanamento dalle famiglie e di non riconoscimento della propria identità. Ma tutti e quattro gli episodi corrispondono alla volontà delle autrici di portare in scena quello che succede realmente nelle case tutti i giorni, invitando ad avere una sensibilità diversa quando si incontra qualcuno, ad allinearsi emotivamente alle persone non soffermandosi esclusivamente su quale sia la loro identità di genere.
Dicevi prima che Love Club offre una rappresentazione della comunità lgbtqia+ che può tornare utile soprattutto in questo momento in Italia. Hai avuto percezione che qualcosa sia cambiato negli ultimi anni?
In termini politici, mi sembra che l’Italia stia tornando indietro. Fortunatamente, abbiamo il potere adesso di farci sentire e di essere ascoltati, potere che è mancato per tanto tempo per via di diverse censure. A livello sociale, tante persone stanno cominciando ad avvicinarsi finalmente alle varie realtà e a inglobarle ma non per normalizzarle, non c’è niente di anormale, ma per equalizzarle. Quindi, mentre a livello politico non abbiamo ancora regolamentazioni e leggi, a livello umanitario c’è supporto.
E il cambiamento si vede, anche perché le persone iniziano (finalmente!) a parlare con la terminologia giusta, a porre le domande giuste, ad aprirsi ulteriormente e a interessarsi di più ai topics. Socialmente, c’è un’espansione di “trascendenza” (passatemi il termine) che porta le persone a scardinare gli stereotipi delle ambivalenze maschili e femminili, ad andare oltre il binarismo di genere per cominciare a sperimentare su loro stessi quali siano le proprie energie maschili e quali quelle femminili e a usarle per affinare il proprio essere a quello degli altri, a prescindere dalla semplice rappresentanza.
Love Club è stata presentata in anteprima al Love Mix, a Milano. Quale feedback immediato avete ricevuto?
Ci sono stati tanti riscontri positivi alla prima. Consideriamo anche qual è l’aspetto del Mix: è un festival queer e, quindi, avevamo anche tanti alleati dalla nostra parte ovviamente. Però, un esempio banale, c’era anche la mia famiglia, estasiata a fine proiezione dal fatto che si fossero viste e avessero capito aspetti che solitamente non vengono mostrati o raccontati. Tutti concordavano su una cosa: il racconto lasciava la voglia di approfondire, ragione per cui penso che possa essere anche uno strumento molto educativo.
Noi rappresentiamo non solo noi stessi ma tanti volti, tanti corpi e tanti giovani che si sentono marginalizzati, che hanno paura di fare coming out e che si sentono sospesi a metà tra il venir fuori oppure no. A livello mediatico, abbiamo provato con una fiction a infondere anche una punta di coraggio.
E di coraggio ce ne vuole tanto anche da parte di voi attori per far sì che il racconto sia realistico. Non mancano infatti in Love Club le scene di sesso o i rapporti che vanno al di là della coppia in senso stretto…
Come accade esattamente nella società odierna eterosessuale di tutti i giorni: non c’è alcuna differenza. A memoria, non si sono mai viste scene importanti di sesso tra due donne in Italia come quelle presenti nella serie tv: servono per mitizzare il fatto che anche le donne hanno rapporti sessuali amorosi e che fanno l’amore come fanno l’amore uomini e donne, uomini e uomini e così via…
Non hanno nulla a che vedere con la promiscuità o con ciò che la gente pensa sia fuori dai canoni della “normalità”: sdoganiamo quello che c’è nella fantasia delle persone, è tutto molto naturale. Il regista, Mario Piredda, è stato bravissimo nel rendere la scena di sesso tra me e Roberta: è naturale e dolce, non c’è niente di assurdo o impensabile. C’è semmai tutta la normale naturalezza di due corpi che si amano e di due anime che si incontrano. Non c’è quella perversione con cui spesso i media generalisti tendono a descrivere il sesso queer: il termine “perversione” viene usato per mascherare quello che in realtà dovrebbe essere il termine “libertà”.
Com’è stato rivedersi nuda attraverso l’occhio di qualcun altro?
Lascio molto spazio a chi lavora con me: fa parte del mio metodo. Non dirigevo io lo shooting e da questo punto di vista non ho vissuto alcun disagio: il regista, come già detto, è stato molto bravo e delicato, ci ha lasciato spazio per esprimerci naturalmente. Ovviamente, c’erano delle richieste tecniche che andavano eseguite in una determinata maniera. Sul set erano presente una figura professionale, un coordinatore dell’intimità, molte meno persone ad assistere alle riprese rispetto a quanto potevano essercene in passato.
Io e Roberta abbiamo passato tanto tempo insieme, ci siamo conosciute e avevamo instaurato un certo legame di amicizia, che ha fatto sì che fosse tutto eseguito in maniera dettagliata e sensibile.
Hai incontrato difficoltà nel cambiare linguaggio e mezzo rispetto alla fotografia?
All’inizio c’era il timore di non saper fare tutto bene. Poi, con la voglia di mettermi in gioco e anche in discussione, sono entrata dentro al personaggio e mi sono dimenticata un po’ di chi ero all’esterno: lo stavo facendo e occorreva lasciarmi andare. Le difficoltà iniziali si superano dimenticando chi si è per ricordarsi di chi si sta interpretando: la magia del cinema sta propria nella dissolvenza tra le due parti.
Ci siamo incontrati per la prima volta un anno fa. Ti trovo oggi molto diversa e anche più serena. Cosa è cambiato nel frattempo?
Dopo dieci anni, sono andata via dall’Inghilterra e ho vissuto un anno personale “sabatico”: ho preso tale decisione per ritrovare me stessa e capire a cosa dire sì, a cosa dire no e cosa volevo. Si sono susseguiti diversi eventi e occasioni, mi sono rimessa in discussione e ho lavorato tantissimo su quello che chiamo il mio inner child. Ho riscoperto l’importanza del seguire le proprie percezioni, dello scavare dentro se stessi e del ritrovare un proprio equilibrio emotivo, una propria sicurezza. Voglio ricominciare dalle cose che mi piacciono fare, dalle più semplici per poi arrivare a quelle più grandi: è un meccanismo che si innesca quando si è veramente onesti con se stessi e che non ha mai fine, dal punto trovato si può solo andare avanti.
È appena uscita la serie tv Love Club, è tutto per me una grande novità ma anche fonte di timore, emotivamente parlando. Se qualcuno mi chiedesse se sono felice di com’è andata e cosa accadrà adesso, la mia risposta sarebbe “non lo so”: lasciamo che tutto segua il proprio corso… so però che è stato molto bello e inaspettato.
Hai quindi decostruito te stessa per ricostruirti. Qual è l’ostacolo interiore maggiore che hai dovuto superare durante quest’anno?
Imparare a dire di no. Era complicato farlo perché mi son resa conto che per tanti anni ho sempre messo me stessa molto indietro per paura di deludere. Sostanzialmente, per qualsiasi cosa mi venisse chiesta era sempre un “sì, ci sono, non ti preoccupare, arrivo, scalo le montagne”. Ed era diventato difficile sostenerne il peso e trovare dei momenti in cui mi sentissi veramente felice.
Non che non accadessero cose bellissime nella mia vita o non avessi soddisfazioni grandissime ma c’era sempre la mia tendenza al sì che non mi faceva più sentire la gioia del godersi il momento: tutto era sempre proiettato verso una prospettiva futura troppo amplificata. Ho dovuto ricominciare a imparare a dire no ed è un consiglio che do a chiunque: vivete il presente per quello che è, senza aspettative per il futuro, senza fretta e senza darsi obiettivi non troppo difficili. Diamo il tempo necessario alle cose per assimilarle, assorbirle ed esserci completamente dentro.
Ho sempre sognato in grande, è un grandissimo punto di forza, ma mi sono resa conto che il farlo a lungo andare stava togliendo importanza al sogno stesso. Prendendosi cura di se stessi e vivendo il presente ci si può invece accorgere di tutto quello che nel quotidiano dimentichiamo di osservare, perdendo anche la bellezza dell’attimo. E da fotografa ho iniziato a viaggiare senza fare foto: avrei catturato il momento ma non l’avrei vissuto… per catturare il momento perfetto devi averlo vissuto prima, motivo per cui ho iniziato a vivere tutti quei momenti che mi ero persa prima sono perché li analizzavo troppo: è stata questa la vera sfida.
A che punto è invece il Gender Project?
È ancora in corso e, come sempre, chiamiamo tutti alle armi con il loro contributo diretto. Lo scorso ottobre abbiamo fatto la nostra terza capitale, Berlino, siamo stati alla Soho House a Roma e siamo in partenza per Barcellona, dove lavorerò per la Pride Week. A settembre, apriremo invece la nuova open call per i nuovi cento volti, sempre a Barcellona, la nostra quarta capitale. Vorremmo concludere l’area europea, i nostri primi cinquecento ritratti, con Istanbul, in Turchia, dove so già che ci saranno grandi difficoltà da superare… ma troveremo un modo per riuscirci. L’obiettivo è poi quello di realizzare il primo libro fotografico legato al Gender Project e di trovare una casa editrice interessata alla pubblicazione. Passeremo poi a esplorare i Paesi extraeuropei.
Affronterai con una consapevolezza diversa il progredire del progetto?
Non posso spoilerare molto ma quest’anno siamo passati da Berlino, dove c’è un’intensità di un certo tipo con influenze geopolitiche molto importanti, a Paesi con situazioni differenti come la Russia, la Polonia o l’Ucraina, con delle storie di migranti molto intense. E ci apprestiamo ad andare per la prima volta in una zona molto calda, con un’espressività e una vitalità diversa. Credo che il coraggio possa essere una delle tematiche di quest’anno.
E di coraggio ne serve molto per andare in Turchia, dove non vi attendono i red carpet…
L’omosessualità è lì considerata illegale. Dovremmo trovare degli escamotage e fare come un festival queer russo che tutti gli anni per non andare incontro a problemi si maschera da comune festival dell’artigianato. Siamo pronti per affrontare una capitale difficile e rispondere alla chiamata del progetto, che rimane sempre quella di portare luce su problematiche sociali che fallo veramente la differenza. Gender Project è un progetto fotogiornalistico: non è un progetto ritrattistico fine a se stesso ma è un progetto politico e sociale che racconta storie vere.
Racconti storie vere. Qual è invece la storia di te che non hai ancora raccontato?
Ci sono tante storie di me che non ho mai raccontato: ho 34 anni ma penso di aver vissuto la vita di un centenario. Il mio non è stato un percorso semplice sin da quando ero bambina: dall’abbandono dopo il parto da parte di un padre che non ho mai quasi visto o conosciuto all’aver avuto altre storie travagliate nel mezzo che riguardavano abusi piuttosto che violenze. Ci sono stati tanti decorsi e tanti traumi che mi hanno portato a lavorare su me stessa per essere una persona empatica. E questo ha fatto sì che le persone venissero da me, si aprissero liberamente e riuscissero a connettersi con me (ed io con loro). Ma anche che io capissi che il dolore diventa potere: occorre utilizzarlo per uscire dal buio e arrivare alla luce.
Spesso si giudicano gli altri per i loro atteggiamenti o modi di fare, senza andare troppo a fondo e senza pensare a cosa le sta portando ad agire in una determinata maniera. Io ho smesso di farlo da tantissimo tempo ponendomi semmai domande su cosa ci fosse oltre la superficie. Oggi purtroppo le nuove società hanno l’attitudine a non scavare mai in fondo e a passare oltre se qualcosa non va loro bene. Basterebbe invece fermarsi e guardare: non vi vuole tantissimo, solo un briciolo di sensibilità in più.
Sei serena per quanto concerne il tuo vissuto?
Si, ho lavorato tanto per esserlo. A oggi posso dire di aver terminato il mio ciclo karmico. Quando non si ha più paura di mostrarsi vulnerabili, ci si sente molto meno soli e di dà anche il coraggio agli altri di venire fuori, di sentirsi più libere nel condividere il proprio vissuto. Portarsi dietro determinati pesi dà fatica, entrando in connessione invece aiuta a sentirsi più liberi e più leggeri.