Entertainment

Vince Vivenzio: “Il mio campo di battaglia” – Intervista esclusiva

Vince Vivenzio
Nel film Campo di battaglia, presentato in concorso al Festival di Venezia uno dei personaggi più impressionanti è il soldato napoletano interpretato da Vince Vivenzio. In attesa di tornare sul set di una nuova serie tv, lo abbiamo incontrato per un’intervista esclusiva.
Nell'articolo:

Nel silenzio suggestivo di un pomeriggio d’estate, quando le luci e le ombre danzano al ritmo delle emozioni, incontriamo Vince Vivenzio, giovane attore originario di Nola alla vigilia di una delle esperienze più intense e significative della sua carriera. Campo di battaglia, l’ultima opera diretta dal maestro Gianni Amelio in concorso al Festival di Venezia, non è solo un film: è un viaggio profondo nell'animo umano, un'esplorazione delle cicatrici lasciate da una guerra devastante.

LEGGI ANCHE - Low Tide: Le scelte dell’adolescenza e le loro conseguenze

Vince Vivenzio interpreta Vincenzo Fiorillo, un soldato napoletano segnato dallo shell shock, una condizione che trascina l'individuo in un abisso di paranoie, tremori e allucinazioni. Il confine tra realtà e incubo si dissolve, portando il reduce della Prima guerra mondiale a confrontarsi con i fantasmi del conflitto.

Non è stato semplice, per Vince Vivenzio, calarsi in un ruolo così complesso, intriso di sofferenza e fragilità. Eppure, è proprio attraverso questo personaggio che l'attore ha scoperto una parte di sé che, forse, era rimasta nascosta nelle pieghe della propria sensibilità.. Come ci dice nel corso di un’intervista esclusiva in cui l'attore napoletano si lascia andare a una riflessione profonda, che va oltre la semplice recitazione. L’interpretazione diventa un atto di vita, un’occasione per esplorare le proprie radici emotive, per confrontarsi con i propri limiti e, allo stesso tempo, superarli.

L’esperienza sul set di Campo di battaglia ha rappresentato, per Vince Vivenzio, non solo una sfida artistica, ma anche un percorso di crescita personale. Ha avuto modo di confrontarsi con il trauma, di immergersi nella mente di chi ha vissuto l'orrore della guerra, cercando di restituire sullo schermo una verità che non fosse solo finzione cinematografica. Per farlo, ha intrapreso un viaggio dentro e fuori di sé, studiando, documentandosi, ma soprattutto ascoltando. Le parole dei medici, le immagini crude dei documentari, le testimonianze silenziose degli sguardi nei filmati: tutto si è trasformato in un mosaico emotivo che Vince Vivenzio ha portato con sé in ogni scena.

LEGGI ANCHE - L’incredibile storia dell’Isola delle Rose: il film con Elio Germano

C’è qualcosa di profondamente intimo nel modo in cui Vince Vivenzio parla del suo lavoro. Le sue parole sono intrise di una sensibilità che lo distingue, che rende il suo approccio alla recitazione unico. Non è solo un attore che interpreta un ruolo, è un uomo che si mette a nudo, che permette alle sue fragilità di emergere, trasformandole in forza creativa. Questa fusione tra Vince e Vincenzo, tra l’attore e il personaggio, è forse il cuore pulsante della sua esperienza in Campo di battaglia. Un’esperienza che lo ha cambiato, che lo ha portato a riflettere su cosa significhi davvero essere un attore e, ancor di più, un essere umano.

Nell’incontro che segue, Vince Vivenzio ci accompagna in un viaggio nel suo mondo interiore, raccontandoci con autenticità e passione la sua esperienza sul set, il legame speciale con Gianni Amelio e la complessità del personaggio che ha interpretato. Ma non solo: si apre anche su temi più personali, come la sua lotta per affermarsi in un ambiente complesso e le sfide affrontate per conciliare la sua vita privata con la carriera artistica. È un racconto che va oltre la superficie, un’occasione per scoprire non solo l’attore, ma anche l’uomo dietro il personaggio.

LEGGI ANCHE - Venezia 81: Wolfs, i due lupi solitari Brad Pitt e George Clooney

Vince Vivenzio.
Vince Vivenzio.

Intervista esclusiva a Vince Vivenzio

“Interpreto il soldato napoletano Vincenzo Fiorillo e sentirmi chiamare in scena con il mio nome da Alessandro Borghi mi ha fatto anche un certo effetto: da persona molto emotiva, è come se tutto fosse stato reso più potente”, è una delle prime cose che Vince Vivenzio ci racconta della sua esperienza sul set di Campo di battaglia, il film di Gianni Amelio presentato in concorso al Festival di Venezia.

LEGGI ANCHE - Giulia Galassi: “In trasformazione, senza etichette” – Intervista esclusiva

“Ambientato sul finire della Prima guerra mondiale, il film racconta dei soldati che tornano dal conflitto portandosi appresso le conseguenze di un evento fortemente traumatico a livello sia fisico sia psicologico. Vincenzo è affetto dallo shell shock, che si manifesta in lui attraverso paranoie, allucinazioni, tremori o impossibilità a muoversi”, prosegue Vince Vivenzio nell’addentrarsi nel suo personaggio.

“Non avendo io chiaramente vissuto l’esperienza della guerra in prima persona, insieme a Gianni Amelio siamo andati da uno psichiatra specializzato nella riabilitazione da PTSD. Abbiamo visto dei filmati su pazienti che mi hanno spaventato e fatto capire ancora di più quanta responsabilità avessi sulle spalle nel rappresentare qualcosa che non è frutto di fantasia ma che riporta a una realtà difficile e complessa. Per rendere giustizia ancora di più a chi determinate cose le ha sofferte o le soffre, ho poi continuato la mia ricerca, mi sono documentato ulteriormente e ho fatto una scorpacciata di film di guerra per capire di quale portata sia la violenza che genera traumi così forti”.

LEGGI ANCHE - Festival del Cinema di Venezia 2024: tutti i beauty look più belli

“Èstata un’esperienza incredibile: non capita tutti i giorni di essere diretto da un maestro del cinema come Amelio, che mi ha permesso di fare mio il personaggio. Tutti quanti abbiamo recitato nel nostro dialetto e a me è toccato ovviamente il napoletano, quello del periodo non comprensibile ai giorni nostri. Mi sono divertito a scoprire termine che non conoscevo e un modo di parlare del tutto diverso: ho dovuto fare un lavoro di traduzione e adattamento con un professore di Napoli per far mia, comunque, una lingua che risiedeva mie radici”.

Cosa ti ha chiesto Amelio al provino?

Il nostro è stato in realtà un incontro molto particolare. Amelio aveva conosciuto il mio lavoro attraverso un assistente di regia che avevo conosciuto su un altro set (per il film breve Sissi, prodotto da Rai Cinema, ndr) e che aveva stimato la mia versatilità. Incuriosendosi, ha voluto incontrarmi: mi sono ovviamente presentato così come sono e le sue prime parole sono state: “Sappi che ti trasformerò completamente”… qualcosa che non mi dispiace dal momento che per me il grande cinema è quello che ti permette di uscire dai tuoi panni sotto ogni punto di vista e di entrare in un corpo che non è tuo, cambiando persino immagine.

LEGGI ANCHE - The Perfect Couple: Tutti invitati al matrimonio con omicidio della serie tv Netflix

Nonostante non mi abbia detto nulla del personaggio, si è accertato che sapessi parlare napoletano ponendomi domande sulla musica classica napoletana, su vecchie canzoni e sui film di Totò e Peppino. E ha sfondato una porta aperta: sono cresciuto in una famiglia che mi ha dato una cultura veramente vasta sulla cinematografia e sulla musica partenopea, in casa mia ci si svegliava al mattino con la voce di Renato Carosone, Angela Luce o Pietra Montecorvino.

Insieme abbiamo poi chiacchierato su La gatta Cenerentola, un’opera meravigliosa con un artista molto stimato da entrambi come Peppe Barra. E ciò ha contribuito a far sì che si creasse subito una bella sintonia: mi ha rimandato al provino ma in realtà mi aveva già scelto. Anche perché mi aveva già visto una decina di anni prima al CSC, dove ho fatto il propedeutico: per me, era il regista con cui da sempre avrei voluto lavorare.

Vince Vivenzio nel film Campo di battaglia.
Vince Vivenzio nel film Campo di battaglia.

Ansia da prestazione il primo giorno sul set?

Non tanto per dover lavorare con Amelio: avevamo fatto delle prove e mi sentivo tranquillo, anche per il suo modo di mettere a proprio agio gli attori dirigendoli in maniera magistrale. Avevo semmai timore di Alessandro Borghi! Come mia prima scena, era prevista una sequenza molto importante insieme a lui: avevo paura che l’ansia potesse giocarmi brutti scherzi portandomi a sbagliare… pensavo che sarebbe bastata una parola di Borghi negativa nei miei confronti per condizionare il resto del lavoro. Non conoscendolo a livello umano, temevo di non essere all’altezza, un pregiudizio che spesso mi porto su me stesso e che va via solo quando il regista dà il ciak: in quell’attimo, è come se uscissi veramente dal mio corpo per diventare altro.

Fortunatamente, finita la scena, Alessandro mi ha guardato chiedendomi chi fosse il mio agente e facendomi i complimenti: mi sono sciolto talmente tanto che tra noi è nata una bella chimica e complicità. È uno dei set che porterò per sempre nel cuore, la migliore esperienza attoriale avuta finora: per me, è una grande soddisfazione aver avuto un ruolo così intenso con un regista come Amelio in un film in concorso a Venezia… è un piccolo traguardo raggiunto per la mia professione di attore ma anche un piccolo punto di partenza.

Finora hai sempre mantenuto il tuo nome di battesimo, Vincenzo. Per Campo di battaglia, scegli solo Vince…

Ciò sta generando anche un po’ di confusione sul web e nei database per cui Vincenzo e Vince Vivenzio sono due persone differenti. Partiamo dal presupposto che già a scuola mi chiamavano solo per cognome e che durante i casting quasi sempre si sbagliava il mio nome per via delle assonanze: dovevo dunque cercare qualcosa che fosse più breve e incisivo, anche a livello internazionale (ho già avuto esperienze per una commedia su Prime Video UK). E Gianni Amelio era d’accordo: per lui ero solo Vince.

LEGGI ANCHE - Unstoppable: l’incredibile film con JLo da una storia vera

Pensando alle ripercussioni psicologiche legate al nome, non è anche un modo per scindere il giovane uomo Vincenzo dall’attore Vince?

Faccio molta fatica a scindere i due lati. Ho un canale emotivo molto aperto che per il lavoro che ho scelto è anche un bene perché mi permette di mettermi comodo con facilità nei panni di un personaggio, di sentirlo mio e di restituire la sua verità. A livello privato, tale mia caratteristica mi espone però molto: mi porta ad avere pochi filtri e spinge gli altri a farsi un’idea diversa da ciò che sono realmente. Sto cercando comunque di lavorare su entrambi i fronti perché a volte c’è bisogno di tutelare Vince l’attore e altre volte Vincenzo l’uomo, quello a cui tengo maggiormente. Non è semplice.

Vince Vivenzio nel film Campo di battaglia.
Vince Vivenzio nel film Campo di battaglia.

Così come non sarà stato semplice affermarsi come attore provenendo da una realtà come quella del sud: Nola non è di certo il polo della produzione cinematografica. Le cronache ci raccontano che già a otto anni manifestavi il desiderio di far l’attore.

Le difficoltà sono state enormi. Ho conosciuto mio padre solo a tredici anni e sono dunque cresciuto fondamentalmente con mia madre. Quando andavo a scuola, anche alle elementari, si sentiva spesso dire di avere un figlio molto creativo: ero sempre in prima fila per le recite, ad esempio. Ma per una donna che cresceva da sola tre figli senza un compagno accanto non era facile pensare a un figlio attore…

Tuttavia, crescendo, la mia passione si faceva sempre più forte: ho cominciato da solo a documentarmi su internet su dove studiare o su come iniziare. In famiglia mi prendevano anche bonariamente in giro, il mio era per loro o per la gente del posto in cui vivevo un sogno poco credibile. Il riavvicinamento di mio padre ha però fatto sì che qualcosa cambiasse: l’assetto familiare si è come stabilizzato e le mie aspirazioni guadagnavano attenzione. Tanto che a 17 anni ho inviato le mie foto al centro di produzione Rai di Napoli, dove sono stato chiamato per un provino e scelto per Un posto al sole

Ho poi preso la patente per seguire un corso di recitazione a Napoli ma non vedevo l’ora di terminarlo per trasferirmi a Roma e frequentare il propedeutico al CSC. E non è stato per nulla semplice, no. Così come non lo è tuttora: parliamo di una professione sempre precaria per cui non mi faccio nessuna aspettativa sul futuro… tutto ciò che ho finora raggiunto è frutto di tanta fatica e di tanto sudore, di un trasferimento in una città che non conoscevo, di lavori da fare per pagare l’affitto o le bollette (i miei non potevano mantenermi) e per sostenere i costi delle scuole.

Che bambino era quel Vincenzo che cresceva comunque senza un padre?

Un bambino molto sensibile che per via dei suoi lineamenti delicati e i capelli a caschetto fatti crescere per volontà della mamma veniva preso per “femminuccia” anche a scuola, subendo del vile bullismo. Tuttavia, c’era in me anche una parte maschile molto forte evidentemente che mi portava a non subire passivamente gli insulti e a reagire.

C’era, dunque, un bambino che aveva bisogno di approvazione e accettazione che non aveva altri riferimenti in cui specchiarsi se non quello della madre: non nego che mi è mancata moltissimo la figura paterna in quegli anni, finendo con l’idealizzarla così tanto da avere poi difficoltà a relazionarmi con essa quando c’è stata.

Conoscevo mio padre solo attraverso i racconti di mamma ed entrate in contatto, al di là dell’euforia iniziale, è stato complesso: nessuno dei due era consapevole della personalità dell’altro e l’amore non è un sentimento automatico… i figli si possono amare solo se si conoscono. Nel frattempo, avevo anche sviluppato un rapporto così morboso con mia madre da non accettare una figura maschile al suo fianco. Il tempo ha poi appianato tutto, abbiamo trovato un nuovo equilibrio: oggi vedo e amo mio padre per quello che è, apprezzandolo anche per la grande evoluzione in meglio che ha fatto.

E che fine ha fatto la sensibilità di quel bambino oggi?

È ancora molto presente ma si manifesta solo alle persone che entrano nella mia dimensione. Ho imparato con gli anni a schermarla: mi apro solo con chi ha reale interesse a conoscermi, ragione per cui seppur socievole sono una persona molto schiva, che mette dei paletti da non superare. Non ho ancora imparato a dosare la sensibilità e a fissarne bene i limiti: corro ancora il rischio di essere ferito. Da animali sociali, vogliamo qualcuno che ci guardi, accarezzi o parli in un determinato modo: è un desiderio comprensibile che mi auguro non si tramuti in bisogno, perché sarebbe un danno. Dopo tanta terapia, in amore mi pongo oggi una domanda che considero fondamentale: mi lascio andare per desiderio o per bisogno?

E hai trovato la risposta?

La sto ancora cercando. Sto al momento lavorando sul desiderio.

Cosa ti ha permesso di scoprire la terapia su te stesso?

Ha portato in evidenza come tutto nella vita sia collegato: l’infanzia, l’adolescenza, il ruolo dei genitori…

La mia acting coach, Patrizia De Santis, era solita ricordarmi che un personaggio, quando lo studio, è sempre una persona e che, come tale, ha una dipendenza da qualcosa. Tutti ne abbiamo una: dal cibo, dall’alcol, dalla droga, dal sesso, dal web o da qualsiasi altra cosa. Non ho dipendenza dal cibo, non bevo, non mi drogo e riesco a stare mesi senza avere contatti fisici, ma ho scoperto di avere una dipendenza affettiva da coloro che entrano nella mia vita e a cui mi lego: se la persona è sbagliata, è pericoloso.

In più, la terapia mi sta permettendo di essere meno giudicante nei confronti degli altri. Giudicare è un istinto umano ma negli ultimi tempi ho imparato a chiedermi la ragione che mi spinge a farlo, realizzando spesso come ci siano cose che non so.

Ribaltando la situazione, nei casi in cui sei stato tu a essere giudicato, cosa ti ha fatto più male?

Ora come ora, mi ferirebbe se ci dicesse che non sono un bravo attore. Per il resto, non mi interessa niente di tutto ciò che potrebbero dire di me: tutto quello che sono me lo sto guadagnando, anche in termini umani e di personalità a mie spese. Ho lavorato molto su me stesso, ho sofferto tanto e non può esserci giudizio esterno in grado di sminuire ciò che sono.

Avrebbe ferito quel bambino di anni fa ma non il Vincenzo di oggi: quel bambino a cui in bagno a scuola è capitato una volta che abbassassero i pantaloni portandolo a reagire impulsivamente con calci e pugni non c’è più, ha imparato a gestire quella rabbia che lo ha accompagnato per anni anche per il suo desiderio di riscatto sociale.

Oggi sono giunto alla conclusione che non devo riscattare niente e nessuno: devo puntare la mia attenzione verso ciò a cui non ho mai prestato lo sguardo, alla semplicità delle piccole cose, dei rapporti o di una conversazione.

Vince Vivenzio.
Vince Vivenzio.

È stato facile crescere in una realtà come quella campana dove, comunque, ci si trova sempre a un bivio di fronte alla strada giusta da scegliere?

È una questione sociale a cui tengo e per cui mi batterò sempre, oltre che la ragione per cui ho intenzione di aprire a Nola un’accademia solo per bambini. La mia fortuna è stata mia madre: i genitori hanno un ruolo fondamentale nell’adolescenza e nell’infanzia soprattutto per chi vive in determinati contesti sociali ed economici.

Mia madre mi ha ben ‘diretto’: è stata la regista della parte iniziale della mia vita e anche dopo, quando ho cominciato a scegliere da me sbattendo anche la testa, mi è stata di grande aiuto. Ha voluto che studiassi tanto e mi ha tenuto stretto a sé nei momenti in cui è capitato che frequentassi figli di qualcuno poco raccomandabile. Chiaramente, il daimon della recitazione ha fatto poi per me da spirito guida spingendomi verso certe scelte e a evolvermi. E io sono oggi orgoglioso di me e di mia madre, che comunque m’ha dato la possibilità di essere chi sono.

LEGGI ANCHE - Chiara Francini: “Non esiste la regola perfetta per essere felici in amore” – intervista esclusiva

Che rapporto hai con lo specchio e di riflesso col tuo corpo?

Il rapporto con il proprio corpo rappresenta un problema enorme anche per me. Ho sempre avuto un rapporto complicato con me stesso perché sono una persona abbastanza insicura: chi mi vede dall’esterno è portato a pensare che sia un po’ snob o che mi atteggi quando in realtà è l’esatto contrario. Il mio atteggiamento di chiusura o di interazione spavalda è dettato da quei periodi della mia vita in cui non mi sono piaciuto per niente, anche a causa di persone intorno a me che hanno minato la mia autostima.

Ho una considerazione di me media: spesso pubblico delle foto sui social perché spinto da una piccola parte di me che cerca ancora approvazione. Non dovrei farlo ma un like a una foto in cui sono in costume o leggo un libro mi diverte e mi aiuta. Sono consapevole di avere una bella immagine ma non da adone: sono pur sempre un attore e non un modello ma oggettivamente l’estetica mi ha aiutato anche in alcuni contesti lavorativi.

Campo di battaglia: Le foto del film

1 / 28
1/28
2/28
3/28
4/28
5/28
6/28
7/28
8/28
9/28
10/28
11/28
12/28
13/28
14/28
15/28
16/28
17/28
18/28
19/28
20/28
21/28
22/28
23/28
24/28
25/28
26/28
27/28
28/28
PREV
NEXT

A te piace molto la lettura…

Devo gran parte della formazione della mia cultura ai libri che ho letto: la scuola è sì importante ma non ti trasmette la curiosità di documentarti tanto quanto un bel libro o un bel film al cinema. Leggo molto ma scrivo anche tanto, soprattutto poesie. Avevo iniziato con le poesie in italiano ma poi ho sentito il richiamo del Vesuvio cominciando a scrivere in dialetto napoletano. Ho anche partecipato ad alcuni importanti concorsi, qualcuno l’ho anche vinto e sto valutando l’ipotesi di pubblicarle… sto anche scrivendo un libro che si intitola Tutto su mio padre.

E torniamo ancora una volta a tuo padre…

Un verso di una mia poesia a lui dedicata dice: “Forse è presto o forse è tardi per poterci incontrare. Non lo so ma ci siamo incontrati”. Non so se è tardi o se è troppo presto ma l’abbiamo fatto: non è tipo da seguire più di tanto il mio lavoro e non mi ha mai scritto “bravo” ma so che c’è.

Vince Vivenzio.
Vince Vivenzio.
Riproduzione riservata