Vincenzo Incenzo ha da poco pubblicato il suo terzo album da cantautore, Zoo. È stato preceduto da due straordinari singoli, Pornocrazia e Ciao Repubblica, ma adesso il suo lavoro ha scelto come carta di identità il brano La tua rivoluzione, un unno in difesa della libertà di pensiero e del diritto di scegliere la propria identità contro tutti i retaggi e le convenzioni.
La tua rivoluzione è accompagnato da un video che è un mini-film realizzato da Luca Bizzi, in cui si affrontano le tematiche del mondo lgbtqia+ attraverso il racconto e la resilienza di due ragazze che desiderano vivere il loro amore alla luce del sole. Ma, in quest’intervista, Vincenzo Incenzo ci spiega che è una canzone che mostra tutte le declinazioni delle rivoluzioni che un essere umano può portare avanti, da quella identitaria a quella lavorativa.
Zoo, chiamato così per offrire una visione dei tempi difficili che viviamo (quasi distopici), è un album che mira a cogliere e sottolineare alcune delle tematiche che accompagnano le nostre esistenze tutti i giorni. Ideali perduti, usura, disorientamento dei giovani, patto sociale infranto, fake news, realtà instagrammabili, femminicidio e solitudine dell’uomo moderno sono solo alcuni dei temi affrontati da Vincenzo Incenzo e dalla sua voce. Una voce giovane che non ha paura di confrontarsi con il rap o con sonorità acustiche ed elettroniche.
Prodotto da Jurii Ricotti, Zoo ha permesso a Vincenzo Incenzo di fondere generi musicali differenti e di ricorrere a nuove tecnologie ancora non presenti sul mercato dell’autorecording. Chi sia Vincenzo Incenzo non sta a noi spiegarlo o riassumerlo. È l’autore di alcuni pezzi memorabili della canzone italiana, da Cinque giorni (cantata da Michele Zarrillo ma anche da Laura Pausini) a Il passo silenzioso della neve dell’indimenticata Valentina Giovagnini. E ha collaborato con il gotha della musica italiana, da Lucio Dalla a Renato Zero.
Vincenzo Incenzo è ora in giro per l’Italia per la presentazione dell’album. Potete sentirlo a Palermo (27 maggio), Venezia (2 giugno), Milano (3 giugno), Napoli (5 giugno) e Castel Fusano (11 giugno). Lo attenderanno poi i concerti estivi e l’America Latina, dove ha già un importante consenso. Entrate ora con noi, in punta di piedi, nel suo mondo: ci ha spalancato le sue porte.
Intervista esclusiva a Vincenzo Incenzo
Il tuo nuovo album si chiama Zoo. Ci spieghi le ragioni di questo titolo che sin sa subito sembra richiamare alla mente una realtà à la 1984 di George Orwell?
Non siamo molto lontani. Sono abbastanza innamorato della letteratura distopica di Orwell, Huxley e via dicendo. Si tratta proprio dello zoo umano che canto, della varia umanità che si muove in un contesto oramai irretito, pieno di codici “a sbarre” (e non a barre!) dove un tempo saranno gli animali a gettar le noccioline a nuovi uomini. Ci siamo completamente arresi a una sorta di addomesticamento. In nome di una serenità o utilità di qualche tipo, abbiamo rinunciato alla libertà e alla possibilità di esprimerci.
Abbiamo delegato le nostre scelte agli altri. È vero che scegliere è angosciante, comporta delle rinunce e la voglia di prendere posizione, cosa che oggi ha nessuno voglia di fare. Tutti, quindi, si lasciano scivolare in questo grande luna park che stiamo vivendo, dove l’utile ha sostituito il vero. Io ho voluto addentrarmi nel luna park, in maniera forse anche meno lirica del solito, per affrontare temi che di solito musicalmente sono meno trattati, dall’usura alle fake news o alla new age.
Temi che già si evincono da uno dei singoli che ha preceduto l’album, Pornocrazia, una sorta di attacco alla società effimera che stiamo vivendo, dove ogni “grido diventa opinione” o “quant’è bella giovinezza che si lascia brandizzare”. Tra l’altro, è uno dei brani con cui giochi maggiormente con i generi musicali: ti sentiamo rappare.
Lungi da me l’idea di voler fare il rapper, però il rap ti dà l’opportunità di dire tanto in poco tempo. Per cui, quando voglio approfondire, in maniera un po’ più viscerale, temi di un certo tipo, il rap è una chiave molto, molto utile. Ti permette di decomprimere il linguaggio in qualche modo e di dire molto. Ci vorrebbero altrimenti quattro canzoni per uno sproloquio simile!
Tu lo chiami sproloquio. Io lo trovo un pezzo rap in cui finalmente non sentiamo le solite rime baciate. Il testo colpisce particolarmente perché è duro e ricercato al tempo stesso.
Ho sempre pensato che la frontiera del rap potesse diventare la nuova onda del cantautorato, perché rimette la parola al centro. De André e De Gregori, ad esempio, hanno dimostrato come la musica in una canzone possa farsi anche da parte per lasciare spazio alla parola. Si era un po’ persa questa attitudine, il rap l’ha ripresa. Certo, parliamo di rapper veri e non di quegli artisti che si definiscono tali perché si mostrano con le catene al collo o sbandierano continuamente i soldi sui social: si sentono rivoluzionari ma in realtà sono quelli più ”inquadrati”, che obbediscono a una situazione di estrema convenzionalità, a un sistema. Si “riconoscono” attraverso gli atteggiamenti e non attraverso i contenuti, dimenticando la rivoluzione della parola.
E, spesso, lasciatemelo dire, gli atteggiamenti diventano patetici. Lo vedi soprattutto su Tik Tok, dove c’è una continua emulazione di qualcosa senza idee alle base. Alla fine, è veramente come essere allo zoo, con tante persone da guardare rinchiuse in una gabbia. La colpa di questi tempi deviati è forse della tecnologia: ci ha dato l’illusione di poter essere invincibili, eterni. E invece non è poi andata così.
Hai scelto come singolo di lancio di Zoo, in programmazione radiofonica in questi giorni il brano La tua rivoluzione. È accompagnato da un videoclip che abbraccia non solo le tematiche lgbtqia+ ma anche quelle legate alla discriminazione razziale. Ne hai quasi fatto una canzone universale contro ogni tipo di discriminazione.
La canzone mostra le tante declinazioni dell’espressione “rivoluzione personale”. Ci sono tanti tipi di rivoluzione legati a contesti differenti: c’è quella di chi ha perso il lavoro e lo cerca, quella di chi anela a un riposizionamento nel mondo attraverso atti coraggiose o quella ancora di una coppia di ragazze che decidono di vivere la loro storia, anche rinunciando alla loro famiglia o alla loro città d’origine. Sono solo alcune fotografie, ne potremmo aggiungere altre mille.
Personalmente, ho avuto modo di vedere come in Italia sia ancora forte la discriminazione anche razziale. Sono stato a lungo fidanzato con una ragazza colombiana e mi sono reso conto di quanto la libertà sia ancora qualcosa di non previsto. Siamo tutti bravi ad abbracciar battaglie o a metterci medaglie sul petto schierandoci a favore o contro qualcosa ma lo siamo meno quando dobbiamo trasformare le nostre parole in realtà, concretezza. Quando una ragazza nera si presenta per un colloquio di lavoro o una coppia di ragazzi omosessuali manifestano il proprio sentimento, sorgono ancora dei problemi.
Ho come l’impressione che si vada avanti solo per propaganda e mai per comportamenti veramente consistenti. Andiamo avanti per slogan, favoriti dalla comunicazione così compressa dei tempi che viviamo. Accade anche in politica, ad esempio: chi ricopre ruoli di responsabilità parla esclusivamente per slogan, non è abituato a stratificare, ad argomentare ciò che dice. È un tipo di comunicazione che funziona nell’immediato ma che non regge alla prima difficoltà seria, come abbiamo visto durante la pandemia o come durante la discussione sulla legge Zan.
Sembra che molte volte si impugnino le battaglie non per rispondere a un’esigenza sul territorio quanto per un utile personale. In passato, ho scritto un brano che si chiama Je suis, in cui raccontavo come in realtà noi facciamo le rivoluzioni sul divano. Sarebbe necessario, invece, che ognuno di noi si faccia portatore di una rivoluzione personale concreta, che ognuno di noi alzi il suo dito e dica ciò che pensa realmente.
Lo cantava già Gaber anni fa: “L’unica rivoluzione che abbiamo fatto è quella della Coca Cola”. I cantautori o gli autori delle canzoni hanno spesso una visione quasi futuristica del mondo, almeno più delle persone comuni. È una questione di sensibilità o di coscienza critica?
Un po’ tutte e due. Vedo però che la soglia della coscienza critica si è abbassata tantissimo negli ultimi anni: i modelli sono diventati personaggi e riferimenti culturali che trent’anni fa sarebbe stato impensabile che lo fossero. Penso, ad esempio, al primo maggio e mi chiedo “Ma che sta succedendo?”, sembra che sia successo qualcosa di disastroso. E, poi, c’è la tendenza a portare tutto in burla: ogni programma televisivo, a un certo punto, vira necessariamente sulla burla, sul grottesco. Le canzoni sembrano richiedere una soglia di attenzione talmente basica da non crederci quasi: quelle che occupano la top ten oggi fino a una quindicina d’anni fa sarebbero state considerate elementari per costruzione musicale, melodica, armonica. Che è successo? Cosa abbiamo fatto per arrivare a questo punto?
Come abbiamo fatto dall’esportare musica in tutto il mondo a essere quasi “derisi”? A parte alcune fortunate eccezioni, la nostra musica non varca più i confini nazionali.
Credo dipenda anche dal ridimensionamento della macchina Italia. Pensiamo allo sport, ad esempio. A parte qualche fenomeno libero, qualche scheggia impazzita, nessuno supera i confini del Brennero, neanche il calcio, lo sport nazionale per eccellenza.
L’altro giorno mi trovavo a Napoli per un reading al Duomo e pensavo: “Siamo immersi nell’arte, nella bellezza. Abbiamo il 70% del patrimonio artistico mondiale e non riusciamo a capitalizzare questa risorsa incredibile”. Tutto in Italia è in decadenza, a partire dalle opere da restaurare: nessuno ha pensato a difendere l’identità, la bellezza, la storia di questo paese. E le conseguenze, secondo me, sono diventate inevitabili.
Tornando a Zoo, chiudi l’album con Altre emozioni, l’ultima canzone scritta per Sergio Endrigo e da lui cantata. Perché hai voluto inserirla?
Intanto, perché è veramente l’ultima che ha cantato Sergio. Ho avuto l’onore di scriverla per lui e già per me era motivo sufficiente per celebrarla. Il testo è di Sergio mentre la musica è mia. Ha un lirismo unico e rivoluzionario: dice, in punta di piedi, delle cose molto importanti e per tale motivo la trovo, in questo momento, tempestiva, puntuale.
In un disco che è pieno di elettronica e di strumenti innovativi, Altre emozioni si distingue perché ha un ritorno al solo piano e voce: è una sorta di messaggio che anticipa quello che vuol essere il mio tour. Ho già tenuto alcuni concerti ma anche gli altri che verranno saranno quasi tutti piano e voce proprio perché mi interessa recuperare l’autenticità dei brani stessi, che devono stare in piedi anche così. È un modo per riprendersi il contatto epidermico con la gente, dopo due anni di martirio: è come stare veramente in una casa, tra amici, a cantare le canzoni al pianoforte. Mi piace tantissimo questa dimensione.
Altre emozioni, scelta proprio per chiudere il disco, annuncia tutto ciò. È un percorso che voglio difendere con le unghie e con i denti. Naturalmente farò anche un disco, sono sicuro molto impopolare, tutto piano e voce: le canzoni devono arrivare alla gente così come sono state scritte, senza orpelli, in un’epoca in cui invece tutti i brani si reggono sui loop e sugli orpelli della post-produzione più che sulla sostanza compositiva.
Una delle canzoni più belle del disco è Solo al mondo. Ha un impianto sì classico, definiamolo così, ma un testo fortemente attuale che racconta della crisi contemporanea dell’essere umano. Siamo tutti convinti di essere padroni della nostra vita da aver dimenticato di aver bisogno dell’altro. Il protagonista della canzone è come se pagasse le colpe del proprio individualismo.
Dovremmo cominciare ognuno a cercare le proprie responsabilità per la mancanza di connessione che viviamo oggi con gli altri, con l’amore, con le amicizie importanti… Vedo muri che si alzano, uno stato di continua difesa, una sensazione di eternità che non c’è per cui si aspetta sempre tempo. Non c’è più tempo da perdere nella ricerca dell’altro. Bisogna prendere le proprie fragilità e farle brillare alla luce del sole, dire “questo sono io” e assumersi le proprie responsabilità per quello che non è accaduto per via del nostro egoismo o del nostro orgoglio.
Siamo stati pervasi dall’indifferenza. Ci passiamo il sale a tavola mentre in televisione passa il bilancio dei morti di una guerra. L’indifferenza è il più grande nemico di questi tempi. C’è la tendenza di rimandare tutto a domani: questa cosa mi angoscia tantissimo. Ed è il passare il tempo che più mi preoccupa. Gli ultimi due anni sono stato illuminanti in un certo senso. Abbiamo perso due anni di vita, sono scivolati via. Sono giorni, mesi e ore che non torneranno più. Dobbiamo trarre insegnamento da ciò e cercare di impreziosire il tempo e di non perdere gli altri. Occorre che ognuno di noi faccia una profonda analisi di se stesso per capire dove migliorare e dove ha fallito.
Citando La risposta che tu chiedi, una delle tue canzoni, tu hai scelto di cadere o vivere?
Ho deciso di deciso di vivere. E so che una è una scelta che comporta tante responsabilità. Rimanendo nell'ambito del lavoro, per poter difendere una posizione assolutamente personale e identitaria, ho scelto di autoprodurmi. Sono andato incontro a sforzi non solo economici ma anche creativi. L’ho fatto perché oggi è difficile essere se stessi e non allinearsi. Ho avuto tantissimo in trent’anni e passa di carriera, era anche arrivato il momento di mettersi in gioco e rischiare. È stata una scelta coraggiosa e anche cercare gli spazi per i concerti è una battaglia quotidiana ma la porto avanti con grande passione ed entusiasmo.
In ambito personale, ho messo la vita davanti a tutto. Cerco di non perdere il tempo, di capitalizzare ogni momento, di coltivare i rapporti umani, di stanare anche le persone dalle proprie nicchie. Una volta, ero più attendista. Oggi se una persona non mi chiama, la chiamo io, cercando in qualche modo di condividere questa urgenza di vita. È l'ultimo orizzonte possibile: non abbiamo più certezze, non possiamo più calcolare il nostro orizzonte. Non sappiamo cosa succederà tra uno, due o tre mesi. Va colto e impreziosito ogni attimo.
Mi dici come mantieni la voce così giovane. Ascoltando Zoo, sembra quasi che tu sia senza età.
Non è una banalità: credo che dipenda dal fatto che sono arrivato tardi al cantautorato. E questo mi ha restituito veramente una seconda giovinezza. Quando ad esempio mi occupavo di regia teatrale, mi trovavo a collaborare con attori più giovani di me e sentivo il peso della responsabilità anagrafica. Nel giardino che si è aperto con il canto, sembra che il tempo sia tornato indietro. Dentro di me, ovviamente: non vorrei mai apparire ridicolo! Ho come la sensazione meravigliosa di aver riallacciato il discorso cominciato anni fa quando cominciai a suonare nei primi locali di Roma. L’ho lasciato in sospeso perché poi sono nate cose meravigliose come le collaborazioni con Renato Zero, Michele Zarrillo, Lucio Dalla, durate 25 anni. È passato il tempo ma è come se quel discorso si fosse congelato, fosse rimasto in attesa.
Ho ritrovato dunque l’entusiasmo di allora. E sono convinto che influisca nella scrittura delle canzoni, nel canto e anche nelle performance durante i live. Mi diverte molto tutto ciò e mi regala un’illusione di nuova giovinezza.
Hai citato tu le collaborazioni. Come si fa a scrivere un pezzo immortale come Cinque giorni?
Probabilmente non pensando al successo che potrà incontrare, anche se quando si intercettano canzoni “importanti” te ne rendi conto mentre le stai già scrivendo. Sono quelle che, paradossalmente, scrivi di getto in cinque o dieci minuti. Sono dei momenti di sintesi e sintonia totale per cui intercetti una domanda inconscia della gente che vive la sua stessa realtà.
Cinque giorni nasce da una situazione di autenticità massima: ho raccontato veramente i miei cinque giorni dopo un abbandono. Era la cronaca di quello che stavo vivendo, se vogliamo anche un po’ sgrammaticata che mi ripromettevo di aggiustare dopo: Faccio male anche a un amico che ogni sera è qui. Non l’ho sistemata perché mi sono reso conto che andava bene così, esprimeva quello che volevo dire e arrivava.
Credo che si tratti in quei casi di fortunate convergenze. I Greci la chiamano “la simpatia di tutte le cose”. Anche Michele se ne rese conto sin da subito mentre la provava al pianoforte.
Hai sempre creduto nel tuo percorso di autore anche nei giovani emergenti. Hai collaborato, per esempio, quando erano appunto degli emergenti con Massimo Di Cataldo, Paolo Meneguzzi e la mai dimenticata Valentina Giovagnini. Cosa ti spingeva a farlo?
Le emozioni. Ho abbracciato sempre tutte le situazioni con grande entusiasmo. Con Massimo, ad esempio, che era già cantautore per metà, si andava di mediazione. Valentina si capiva benissimo che era un fenomeno: era una bellissima lavagna bianca, una ragazza di grande cultura, nonostante l'età, e una polistrumentista innamorata dell'arte. Ciò ti permetteva veramente di spaziare. Non mi sono mai sentito così libero, anche di giocare con le parole e con i suoni, come mi sono sentito con lei. Valentina recepiva tutto, lo inglobava nella sua personalità e lo faceva diventare suo. Probabilmente, quelle canzoni, magari con dei big, non sarebbero neanche potute venir fuori.
Hai lavorato dicevamo con dei nomi inarrivabili. Chi manca ancora? C’è stato qualcuno con cui non sei riuscito a concludere nulla?
A me sarebbe tanto piaciuto - non so in che forma sarebbe stato possibile; quindi, lo dico soltanto a livello di emozione - fare qualcosa con Battiato. Però mi piacciono molto e mi incuriosiscono anche delle realtà. Per esempio, ti faccio un nome: gli Psicologi. Mi piacciono molto questi due ragazzi, scrivono delle cose molto particolari.
Non sono nostalgico, non sono uno che è ancorato a delle cose legate soltanto al passato. Ci sono dei segnali forti, visto che abbiamo parlato molto male dei giovani, dei segnali incoraggianti. Mi piacerebbe una collaborazione con qualche nuova espressione della contemporaneità.
Non possiamo non ricordare il grandissimo successo del musical teatrale da te scritto, Romeo e Giulietta – Ama e cambia il mondo. Hai già qualcos’altro in cantiere o un progetto nel cassetto?
Sono stato chiamato da un'altra produzione francese, così come era successo per Romeo e Giulietta. Mi hanno commissionato la versione italiana di un musical che è stato un successo pazzesco prima della pandemia in Francia: Bernadette de Lourdes, uno spettacolo laico straordinario, assolutamente non religioso. Ha una sceneggiatura e scenografia pazzesca, con canzoni meravigliose. Ho accettato subito e, se tutto va bene, dovrebbe andare in scena nella primavera del prossimo anno. Il casting doveva già partire a ottobre, ma poi la pandemia ha rallentato tutto.
È un periodo abbastanza fervido, quindi, dal punto di vista creativo.
Sì. Sto facendo anche realizzando dei cortometraggi e ho iniziato a scrivere un nuovo romanzo. Nello scenario arido che viviamo mi sforzo sempre di cercare nuovi stimoli. L’arte e la creatività danno tante risposte che tornano utili anche nella vita di tutti i giorni. Proprio per questo, frequento anche canali inediti per me, come il cinema. Sto pensando, con altre persone, anche a una serie televisiva. Esplorare nuovi territori è salvifico per me: mi dà tanta energia. Quindi, continuo a cercare sempre come se fosse il primo giorno!
Che bello quando qualcuno continua ad avere voglia di fare!
Io non capiscono alcuni miei colleghi che, anche alla mia stessa età, hanno smesso di scrivere e abbracciano una sorta di ideale pensione. Per me, invece, è ancora vitale: non so come non sentano l’urgenza di continuare, di insistere. E non è una questione di numeri: ho lavorato a dischi che hanno superato il milione di copie vendute e ad altri che ne hanno venduti forse 500. Per me, è impagabile ogni volta la bellezza di cominciare un nuovo viaggio.
Se ti siedi di fronte al mare, come accade nel video di La tua rivoluzione, a cosa pensi oggi?
Mi vedo già in un altro mondo e in un’altra dimensione, a guardare su o giù, dipende da dove sarò collocato, e a cercar di capire tutto quello che si poteva fare e che per mancanza di tempo non si è fatto. Questo mi proietta ancora con più forza sul presente e mi spinge a darmi maggiormente da fare nella ricerca dei rapporti umani, nella costruzione della bellezza, nel trovarla dovunque sia e in qualsiasi forma si nasconda.