"Sono apolide quasi", scherza Vincenzo Zampa quando, dicendomi di essere a Milano, gli faccio notare la strana triangolazione della sua vita, un percorso che dalla natia Monopoli, in Puglia, lo ha portato prima a Genova per studiare al Teatro Stabile e ora nel capoluogo lombardo. "Più che altro, vivo su un treno. Come sono solito dire, ho accumulato talmente tanti punti fedeltà che m’hanno regalato un vagone!"
Talentuoso attore di teatro e cinema, noto per le sue collaborazioni con registi di spicco come Gabriele Salvatores, Terrence Malick, Daniele Vicari e Carlo Vanzina, Vincenzo Zampa è uno dei protagonisti del film Com'è umano lui, diretto da Luca Manfredi, che andrà in onda su Rai 1 il 30 maggio. Ambientato nella seconda metà degli anni '50 a Genova, il film racconta la giovinezza di Paolo Villaggio (interpretato da Enzo Paci), accompagnato da un gruppo di amici tra cui un personaggio ‘speciale’ interpretato proprio da Vincenzo Zampa.
Nel film, Vincenzo Zampa assume un ruolo particolare che egli stesso descrive come "la coscienza di Paolo, il suo confidente, colui con cui si confronta ed è sempre presente nei momenti più importanti della sua vita: quando si innamora di Maura, quando si sposa, quando ottiene i primi successi e così via." Questa metafora del Grillo Parlante, figura ispirata dalle persone più vicine a Paolo Villaggio, ha richiesto un lavoro di costruzione del personaggio profondo e personale, qualcosa che Vincenzo Zampa ha affrontato con la sua abituale dedizione e passione.
La carriera di Zampa è caratterizzata da una continua evoluzione e ricerca di nuovi stimoli artistici. Nato a Monopoli, in Puglia, Vincenzo ha intrapreso un viaggio che lo ha portato a studiare recitazione al Teatro Stabile di Genova e successivamente a trasferirsi a Milano, città che oggi considera la sua base operativa. La sua formazione è stata arricchita da esperienze internazionali, come la partecipazione al film The Way of the Wind di Terrence Malick, che ha descritto come un'esperienza unica e liberatoria, paragonabile a un gioco infantile per la libertà creativa concessa agli attori.
Nonostante il successo raggiunto, Vincenzo Zampa mantiene un rapporto umile e sincero con la sua professione, descrivendosi non come una star ma come un lavoratore dello spettacolo. Questa visione pragmatica del mestiere gli consente di affrontare le sfide quotidiane con autenticità e onestà, cercando sempre di mantenere viva quella scintilla di gioco e passione che ha caratterizzato i suoi esordi.
Uno degli aspetti più affascinanti dell’intervista in esclusiva che Vincenzo Zampa ci ha concesso è il suo rapporto con il corpo e con l'identità artistica. "Non corrispondo ai canoni, anche estetici, che vengono richiesti soprattutto nel cinema italiano e ho dunque dovuto cercare di capire cosa potessi fare e come trasformare quelli che sono considerati difetti fisici in punti di forza", racconta Vincenzo Zampa. Questo percorso di autoaccettazione e trasformazione è stato fondamentale per la sua crescita personale e professionale, permettendogli di utilizzare le sue caratteristiche uniche come strumenti espressivi potenti.
Vincenzo Zampa si definisce un attore cinestetico, un termine che riflette il suo approccio integrale alla recitazione, basato sull'utilizzo di tutti i sensi. "Per la costruzione del personaggio, parto da quello che ho vissuto, dalle sensazioni emotive, fisiche o tattili, e a volte anche dagli odori o dai sapori. Provo a utilizzare tutti i sensi e cerco di portare ciò che vive il mio corpo in ogni personaggio, vero o di fantasia che sia".
Durante la nostra conversazione, emergono anche le influenze poetiche e artistiche che hanno segnato il suo percorso. Vincenzo Zampa è infatti un grande appassionato di poesia e musica, elementi che riesce a intrecciare nel suo lavoro attoriale. Recentemente ha annunciato uno spettacolo a Milano l’8 giugno intitolato Poesie dal Basso, una performance che unisce musica e poesia, riflettendo la sua natura poliedrica e la continua ricerca di nuovi modi per esprimere la sua creatività.
La storia di Vincenzo Zampa è quella di un artista in continua evoluzione, che non ha mai smesso di esplorare e reinventarsi. La sua determinazione, il talento e l'umiltà lo rendono una figura affascinante e ispiratrice nel panorama artistico italiano. In attesa di vederlo in Com'è umano lui, siamo pronti a scoprire di più sul suo percorso, le sue ispirazioni e le sfide che ha affrontato lungo il cammino.
Intervista esclusiva a Vincenzo Zampa
Ti stiamo per vedere in Com’è umano lui, il film di Rai 1 che riscostruisce gli anni di vita di Paolo Villaggio fino alla consacrazione con il personaggio di Fantozzi.
Interpreto un ruolo abbastanza particolare. Direi che sono un amico della famiglia Villaggio ma lascio al pubblico la possibilità di capire chi sono. Per dirla in altre parole, sono la coscienza di Paolo, il suo confidente, colui con cui si confronta ed è sempre presente nei momenti più importanti della sua vita: quando si innamora di Maura, quando si sposa, quando ottiene i primi successi e così via. Mi sono ispirato alle figure più vicine a Paolo per divenire quasi, con una metafora collodiana, un Grillo Parlante, la parte più razionale.
Come Villaggio, anche tu sei un attore. C’è stato qualcuno che ti abbia fatto da grillo parlante?
Il cuore. Mi sono fatto guidare dal cuore e dalle sensazioni che suscita.
Il cuore è spesso un amico ma sa essere anche un grande antagonista.
Per citare De André, è dal letame che nascono i diamanti.
E tu quando lo hai realizzato?
Da poco, per via di alcune vicissitudini private. Molto spesso la mia umanità influisce sul mio lavoro. Non sono un attore tecnico e neanche un attore emotivo: mi definisco semmai un attore cinestetico e, quando il corpo mi parla, si innesca una reazione. Per i miei personaggi, ad esempio, passo sempre dal fisico per avere un’attitudine: parto da quello e dai vestiti. Come diceva una mia insegnante di teatro, è l’abito che fa il monaco nel nostro lavoro.
Per la costruzione del personaggio, parto dunque da quello che ho vissuto, dalle sensazioni emotive, fisiche o tattili, e a volte anche dagli odori o dai sapori. Provo a utilizzare tutti i sensi e cerco di portare ciò vive il mio corpo in ogni personaggio, vero o di fantasia che sia.
Che rapporto hai con il tuo corpo?
Ci ho messo un po’ ad accettarlo e ad accettarmi. Non corrispondo ai canoni, anche estetici, che vengono richiesti soprattutto nel cinema italiano e ho dunque dovuto cercare di capire cosa potessi fare e come trasformare quelli che sono considerati difetti fisici in punti di forza. È qualcosa che è molto difficile da fare perché, anche quando banalmente ti guardi allo specchio, ti giudichi. E il giudizio in sé non è fruttuoso per una creatività artistica. Di conseguenza, ho cercato la mia identità e accetto oggi quello che vedo, spengo il cervello e accendo il cuore.
Che identità hai trovato?
Vincenzo è alla continua ricerca di identità: si costruisce rispetto agli anni. Di sicuro non sono più il Vincenzo che correva quando aveva vent’anni: ho da poco compiuto i quaranta e sono consapevole di come si sta costruendo in base alle esperienze della vita. Uso a proposito un’immagine che chiarifica il mio pensiero: sono come uno scultore che con lo scalpello va a cesellare gli angoli, le spigolature e il viso di una sua creazione.
L’identità di una persona si costruisce in base alle emozioni che ha provato. C’è un bellissimo studio di Paul Hackman, usato per la serie tv (meravigliosa) Lie to me, che racconta proprio come studiando le scimmie il volto ne restituisca le emozioni vissute. Vale anche per le persone: chi ha una palpebra più stanca o le labbra che tendono verso il basso è chiaramente qualcuno che ha sofferto. Una persona gioviale, invece, traspare già dai suoi occhi. Non a caso si dice che gli occhi sono lo specchio dell’anima.
E, quindi, sono ancora oggi una persona in costruzione, con un’identità che va cumulandosi anno dopo anno anche in relazione a quello che ho vissuto. Non so dire oggi quale sia la mia identità o chi sono io: cerco semmai di essere sempre in ascolto, qualcosa che faccio anche nel mio lavoro.
Chi era allora quel ragazzo che giovanissimo esordiva in un film tedesco, Scoop in Love?
Era più burlone e più giocherellone. Ora sento rispetto a lui di essere maturato.
È una duplicità che possiamo attribuire al tuo segno zodiacale, Pesci?
Non avevo mai creduto nell’astrologia ma ultimamente ho dovuto ricredermi. Al di là del segno doppio, mi rivedevo in ciò che leggevo qualche giorno fa: i Pesci tra i segni zodiacali in percentuale sono coloro che hanno più esperienze paranormali, sensitive ed empatiche. Ed io sono molto empatico: sento l’umore delle persone o del collega che ho di fronte, ad esempio. Mio fratello, invece, è del segno del Leone e anche in lui noto alcune delle caratteristiche previste: siamo molto differenti, nello stile, nel corpo e nel fisico. Lui è un giornalista in giacca e camicia e io un attore punk.
L’empatia non porta ad avere anche una spiccata sensibilità?
Non è un caso che io scriva poesie.
Essere punk, invece, comporta tra le altre cose avere un messaggio da tramandare.
Ed io cerco di farlo. Anche l’attore deve ricordarsi di essere, con un gioco di parole, un essere civile.
Ciò non inficia la corsa al successo?
Credo che alla fine a pagare sia l’onestà. Ho sempre cercato di portare il massimo rispetto, così come lo pretendo ma senza puntare mai i piedi. Provo a dire le cose così come stanno e a essere trasparente. Anche quando recito: se non lo sei, traspare in scena dando l’impressione di essere finti. Ovviamente, bisogna avere tutte le condizioni intorno che ti permettono di essere te stesso e di usare la sincerità. Perché dovrei ad esempio fingere di essere qualcun altro che non sono nella vita reale solo per ottenere un ruolo?
La vita è una cosa, il mestiere un altro. Come amo ripetere spesso, vivo il mestiere come un gioco, come quando da bambini – e tutti lo abbiamo fatto – ci mettevamo addosso qualcosa per essere qualcun altro da ciò che eravamo. Da piccolo, mi mettevo un lenzuolo sulle spalle e diventavo un supereroe: bastava solo quello per essere altro da me. E ancora oggi vivo il lavoro con lo stesso spirito: bisogna essere anche un po’ bambini, la forma più sincera che possa esistere.
È vero che per essere attore occorre tenere le ferite sempre aperte?
Parlavo prima di cuore, non a caso. Ma occorre anche saper curare nella vita le proprie ferite e non giocarci, si rischia di cadere nel morboso e di far danni anche alla propria persona. Più che altro, occorre saperle accettare, nel senso di tagliarle con l’accetta.
Non c’è così facendo il dubbio di stare rinunciando a una parte di se stessi?
No, perché è in quel momento che posso sublimarle e trasformare un dolore in qualcosa che mi torna utile.
Com'è umano lui: Le foto del film
1 / 27Come capita a molti hai scoperto la recitazione grazie a una recita da bambino. Cosa ti ha spinto poi a continuare su quella strada?
Il fatto di non accontentarmi e di trasformare il gioco in un lavoro (mi sono anche occupato per tanto tempo di attività sindacale per gli attori, pagandone anche le conseguenze). Ho sempre puntato a salire nella mia vita: adesso sono a Milano, non escludo magari di andare oltre (ride, ndr).
Beh, anche perché il confine lo hai superato: ti vedremo, conoscendo il regista non si sa quando, nell’attesissimo nuovo film di Terrence Malick, The Way of the Wind. Che esperienza è stata?
Molto bella: basta un giorno di set con Malick per capire quale sia la sua concezione di cinema: è come se ci avesse messo a disposizione dei giochi con cui divertirci. Era un po’ come quando andavo all’asilo dalle suore: tra una preghiera e l’altra, arrivava quella mezz’ora di giochi in cui potevi fare quello che volevi.
Si avvertiva mai sul set la percezione di star contribuito con la propria parte a qualcosa che entrerà nella storia del cinema?
No, Malick è bravo nel non caricare di responsabilità e aspettative i suoi attori, la dimensione e la percezione sono quelle del gioco, senza pressione alcuna: Malick osservava e ascoltava attraverso la camera.
C’è stata molta differenza tra il suo set e uno italiano?
L’unica differenza stava nei mezzi a disposizione. Quando si hanno economie diverse da quelle a cui si è abituati in Italia, ci si può permettere anche di essere molto più liberi. Detto ciò, io ho un ricordo bellissimo anche delle esperienze con Gabriele Salvatores, che considero il mio padre cinematografico, e con Daniele Vicari, un regista strepitoso con cui si lavora in profondità. Ho avuto la fortuna di lavorare con personalità artistiche molto forti e in grado di guidare gli attori.
Libertà: cos’è per te?
Come diceva Giorgio Gaber, libertà è stare sopra un albero: è da sopra l’albero che riesci ad avere una visione chiara. Sei libero quando hai tutti gli elementi per poter scegliere chi essere. E spesso siamo proprio noi a non voler scegliere.
Come hanno reagito i tuoi genitori alla tua scelta di trasferirti in Liguria per studiare recitazione?
I miei genitori, un po’ come tutti quelli della loro generazione, puntavano al posto fisso. Da assistente sociale mia padre e da capo ufficio al Comune di Monopoli mio padre, mi volevano avvocato, medico o notaio. Era palese la loro preoccupazione quando ho comunicato che avrei fatto l’attore: sono tutt’ora preoccupati, tant’è che mi chiedono spesso se ci sono delle novità. Ma io non potevo fare diversamente: non riuscivo a vedermi dietro a una scrivania in un ufficio ma non perché non mi piace alzarmi presto.
Lo faccio semmai per scrivere poesie, come quelle che porterò in scena a Milano l’8 giugno nell’ambito del FringeMI Festival all’Artemadia. Lo spettacolo si chiama Poesie dal Basso, proprio perché suono anche il basso e le poesie sono diventate canzoni. Sarò in scena con Ansiah, un cantante che scrive anch’egli degli ottimi testi, con la supervisione artistica di Ksenija Martinovic. È prodotto da Il menù della poesia, un’associazione culturale che abbiamo fondato che si propone di portare la poesia in luoghi non convenzionali.
In questa occasione, mi rimetterò in gioco in prima persona, come mi sono messo in gioco quando ho deciso di fare questo lavoro andando contro a quello che era il volere dei miei genitori, che mi hanno comunque sostenuto. Per la prima volta, porto sul palco testi scritti da me e propongo qualcosa di veramente mio.
Di cosa parlano le poesie?
Racchiudono una sorta di viaggio dantesco molto personale. Parlo di un Dante, si può ben immaginare chi è, che affronta il suo percorso, di lavoro, dello stato dell’artista, di amore, di cuore e di relazioni. Cerco di farlo sempre in chiave ironica.
Ma perché è l’ironia che salverà il mondo?
Per dirla con le parole di Shakespeare, ‘Così dolceèil miele, che diventa amaro in eccesso’. Che senso avrebbe andare a drammatizzare qualcosa di per sé già drammatica? Proprio facendo riferimento a Com’è umano lui e a Paolo Villaggio, di recente ho rivisto un frammento di un film di Fantozzi che ben spiega cosa intendo: quando Pina gli comunica di essersi innamorata del panettiere interpretato da Abatantuono, Ugo risponde semplicemente con un ‘Grazie di avermelo detto ma sto guardando la partita’… lo stacco finale sul volto di Pina in lacrime e del marito che non la vede mentre dice ‘ma io ho scelto te’ è di una drammaticità assurda, che da ragazzino non vedevo solo perché mi fermavo all’aspetto comico. Così come il ‘Ti stimo’ al posto del ‘Ti amo’ ormai storico di Pina: è al contempo abnegazione e negazione.
E per te cos’è l’amore? Abnegazione o negazione?
Abnegazione. Altrimenti non scriverei poesie: sono nate tutte nella gioia e nel dolore ma anche nella rabbia. Rabbia che cerco di contenere e che nasce dai sogni infranti da altri o da te stesso, con qualcuno che contribuisce a farlo. È tutto spinto dall’amore… amore per qualcun altro, amore per il mestiere, amore per la vita.
Innamorato o single?
Innamorato ma single per scelta della vita.
Cosa significa per te essere un artista?
Io non mi definisco tale ma lavoratore dello spettacolo per restituire dignità a quello che faccio. Il termine lavoratore comporta con sé l’avere dei diritti e il vedersi riconoscere il lavoro svolto sia sul piano economico sia sul piano del rispetto. Il nostro spesso non è considerato un lavoro, a meno che tu non sia il cosiddetto ‘nome’ ma alla riuscita di un film o di un prodotto non contribuiscono solo i ‘nomi’: al di là dei più noti, ce ne sono tanti altri che non si conoscono ma che non è detto che siano meno bravi.
Ho anche scritto un pezzo a tal proposito che si chiama Volevo essere Maradona. Il riferimento è al famoso goal del 1986, realizzato con la testa e con la ‘mano de Dios’. Ma, come dico nel testo, aggiungerei anche tanto culo che si muove a ritmo di reggaeton perché a volte non basta solo la passione per segnare il goal decisivo.
A proposito di tiri in porta, come reagisci a un provino andato diversamente da come ti prospettavi?
I primi tempi ci rimanevo male perché mi addossavo la responsabilità, pensando di non essermi preparato abbastanza. Oggi mi dico che magari non ero giusto per quel ruolo o non ero nella giusta predisposizione d’animo: sono tante le variabili in gioco e un ‘no’ non è mai personale.