Vite da sprecare è il terzo film del regista siciliano Giovanni Calvaruso. Prodotto da Tramp Limited e Social Movie Production in collaborazione con ArteService e con il sostegno di Sicilia Film Commission, Vite da sprecare racconta la strage di Alcamo Marina, avvenuta la notte tra il 26 e il 27 gennaio del 1976. All’interno della casermetta Alkamar due carabinieri trovarono la morte nel sonno a colpi d'arma da fuoco: il diciannovenne Carmine Apuzzo e l’appuntato trentacinquenne Salvatore Falcetta. Di cosa potevano essere mai responsabili? Chi ha maturato il desiderio di eliminarli? Cosa avevano visto?
In una terra come la Sicilia, tante sono furono le ipotesi sin da subito elaborate: la pista mafiosa e la matrice terroristica apparirono le più attendibili. Ma pochi giorni dopo la strage vennero arrestati cinque giovani del comprensorio, di cui due minorenni: Giuseppe Vesco, Giuseppe Gulotta, Gaetano Santangelo, Vincenzo Ferrantelli e Giovanni Mandalà. Il caso sembrava chiuso e archiviato ma pian piano emersero verità allucinanti: i cinque erano stati costretti a confessare “spontaneamente” la loro responsabilità perché sottoposti a torture e sevizie da parte delle forze dell’ordine.
Giovanni Calvaruso con il film Vite da sprecare (che deve il suo titolo a una frase di Tiziano Terzani contenuta nel libro Un indovino mi disse) ricostruisce in maniera asciutta e senza sentimentalismi la vicenda con un mix di finzione, documentario e materiale d’archivio. Ricorrendo ai canoni e ai ritmi del noir, Vite da sprecare racconta un omicidio ancora irrisolto ma, soprattutto, la frode processuale che ne è conseguita a danno di cinque giovani – privi dei mezzi economici e culturali per far valere i propri diritti – usati come capro espiatorio da dare in pasto alla giustizia e all’opinione pubblica.
Intervista esclusiva a Giovanni Calvaruso
Vite da sprecare è quello che si definisce in gergo cinematografico un docufilm. Perché hai scelto questo linguaggio e non quello più tradizionale del lungometraggio narrativo?
Le ragioni sono soprattutto due. La prima, la più preponderante, è ovviamente di carattere economico: se vogliamo parlare in termini commerciali, per progetti o prodotti di questo tipo i budget sono solitamente più bassi. E, quindi, le parti documentaristiche e di repertorio mi hanno consentito di non dover ricostruire i fatti con attori e decine di figurazioni. La seconda, invece, è di carattere narrativo e personale: al di là del budget, ho sempre pensato alla storia come un ibrido, come un’interazione tra finzione, fiction e materiali quantomeno di repertorio se non proprio interviste.
In Vite da sprecare, le interviste sono usate in maniera per certi versi anomala. Ho preferito usarle a mo’ di filo conduttore per evitare, anche a livello tecnico di montaggio, continue interruzioni con i “faccioni” che entravano ed uscivano dal racconto: avrebbero potuto allontanare il pubblico dall’aspetto più emotivo della vicenda.
Vite da sprecare è un film che arriva in sala dopo una gestazione molto lunga…
Come per tante altre cose, le ragioni sono da ricercare nella pandemia e nella chiusura totale che abbiamo vissuto. Il film è pronto più o meno dall’autunno del 2019 e ci si stava organizzando per un’uscita in sala giovedì 4 aprile 2020 ma poi è arrivato il coronavirus. Intorno a febbraio del 2020, avevamo capito un po’ tutti che la situazione era più grave del previsto. I due anni di chiusura che abbiamo vissuto, gli impegni lavorativi che nel frattempo aveva preso sia la produzione sia io e, soprattutto, la lenta ripartenza delle sale (dove gli spettatori hanno faticato a ritornare) hanno contribuito poi ad accumulare questo ritardo.
Hai 45 anni. Cosa porta un “ragazzo” come te a interessarsi a una storia come quella della strage di Alcamo Marina accaduta ancora prima che nascessi e dimenticata spesso anche dai libri di Storia?
Sono nato e cresciuto ad Alcamo e conosco la storia da sempre, da quando ero bambino. Poi, durante l’adolescenza, nella fase in cui tutti cominciamo a pigliare coscienza del mondo che ci circonda, ho cominciato ad approfondire l’argomento, a parlarne con mio padre e con le persone più grandi e a leggere gli articoli di giornale che periodicamente raccontavano le fasi del processo: emergevano continuamente anomalie che rimettevano in discussione come fossero andati realmente i fatti.
Fin dall’omicidio e dagli arresti, l’opinione pubblica non è mai stata del tutto convinta della colpevolezza dei cinque assassini, tutti giovanissimi: al momento dell’arresto, Santangelo aveva 16 anni, Ferrantelli 17, Gulotta 18, Vesco 22 e Mandalà poco più di 30. Nessuno credeva alle versioni ufficiali e ciò mi ha spinto a interessarmi ulteriormente alla vicenda e in seguito a volerla raccontare.
Ma, probabilmente, la vera molla è scattata in un momento molto particolare, vissuto da quasi tutti quelli che hanno la mia età: le stragi del 1992. Per quelli della mia generazione, sono stati una sorta di guerra mondiale: il 1992 in Sicilia ha sancito veramente una cesura col passato. Abbiamo preso coscienza di come vanno le cose di Cosa Nostra e di tutto ciò che le sta attorno. In me, la sete e il bisogno di verità, ad esempio, hanno cominciato a non lasciare più spazio ad altro e, quindi, è stata in un certo senso la storia stessa della strage di Alcamo Marina a richiamarmi affinché la raccontassi.
Stessa sete di verità che già, a poca distanza dai fatti, aveva mosso anche un altro giovane siciliano, Peppino Impastato, a interessarsi all’accaduto. Aveva anche indagato per conto proprio e venne interrogato per conto proprio. Si racconta che avesse anche redatto una cartella sulla vicenda ma che questa sia poi “misteriosamente” scomparsa…
Esatto. Ne ho parlato anche con Giovanni, il fratello di Peppino, e mi ha confermato tale versione. Ricorda tuttora benissimo tutto, anche se non ha mai visto il contenuto del dossier. Ricorda però che c’era questa cartella con scritto sopra “Alcamo Marina” in cui Peppino raccoglieva documenti: era andato in giro a fare delle domande e a cercare chiarezza. Ma, durante una delle tante perquisizioni che ha subito, la cartella è stata sequestrata e mai più ritrovata.
I fatti di Alcamo Marina coinvolgono, come ricordavi tu, cinque ragazzi. Ma anche le vittime erano giovanissime: il carabiniere Apuzzo aveva solo 19 anni mentre l’appuntato Falcetta 35. È stata la giovane età delle persone coinvolte a far sì che la storia rimanesse così impressa?
Anche. Cosa avrà mai potuto fare o vedere un ragazzo di 19 anni per “meritare” una fine così atroce? La giovane età ha aperto una ferita enorme soprattutto sul territorio, nelle province di Trapani e Palermo. Per l’opinione pubblica, sconvolta, era impossibile pensare che dei giovanissimi fossero stati capaci di una strage di quel tipo tanto che nell’immediato si è parlato molto di terrorismo di matrice rossa, anche se per i cittadini dell’epoca si trattava di un fenomeno lontano che riguardava soltanto una parte d’Italia e che non poteva mai arrivare da noi: bastava già Cosa Nostra.
Quello che ancora oggi ferisce nel ripensare a come sono andati i fatti sono le violenze e le torture che i cinque arrestati hanno subito per rilasciare una dichiarazione di colpevolezza che tanto spontanea e veritiera non era. Indagando per il tuo film Vite da sprecare, che idea ti sei fatto di come siano andati veramente i fatti quella notte del 1976?
Nel corso degli anni sono state fatte varie ipotesi, più o meno verosimili o strampalate. È stato tirato in ballo di tutto, dai servizi segreti e, in particolare, Gladio (che gestiva traffici più o meno illeciti) a Cosa Nostra. Si è parlato veramente di ogni possibile mandante ma Cosa Nostra è forse quello che c’entra meno. Ed è un paradosso in un territorio come quello in cui ha avuto sede la vicenda. Dal mio punto di vista, credo che ci sia stata una tale commistione di più poteri alla base della strage: i depistaggi e il nascondimento di alcune prove non possono essere opera della sola criminalità.
Hai girato Vite da sprecare, il tuo film, tra le province di Palermo e Trapani: Termini Imerese, Bagheria, Aspra, Ficarazzi, Villabate e Alcamo. Ma quella che vediamo sullo schermo è una Sicilia stranamente plumbea.
È una scelta voluta. Anche il mio primo film, 31 gradi Kelvin, girato tra novembre e dicembre, aveva gli stessi colori. In entrambe le occasioni ho preferito avere toni plumbei per restituire un’immagine della Sicilia lontana dagli stereotipi: volevo che non ci fosse nessun tipo di legame con l’aspetto folcloristico o tradizionale.
Le riprese di Vite da sprecare si sono svolte nelle stesse settimane in cui sono accaduti realmente i fatti nel 1976, tra fine gennaio e fine febbraio. Ma, al di là della verosimiglianza, con il direttore della fotografia Duccio Cimatti abbiamo fatto una scelta precisa: nulla doveva distogliere l’attenzione dagli attori e dalla storia, il paesaggio e la sua bellezza non avrebbero mai dovuto allontanare lo sguardo dello spettatore - neanche per un solo momento – dal dramma e dalla tragedia che hanno vissuto quegli uomini.
Un po’ quasi l’opposto di quanto è avvenuto per esempio per Incastrati, la serie tv Netflix a cui hai fatto da regista della seconda unità: lì i colori della Sicilia esplodono spesso…
Salvo Ficarra e Valentino Picone hanno un metodo lavorativo eccezionale. Sono molto precisi e meticolosi, non lasciano nulla al caso. Quindi, anche solo avermi “ceduto” la regia è stato un grande segno di stima nei miei confronti. A me hanno lasciato molte scene di pedinamento dalla polizia, inseguimenti, sparatorie: tutto un po’ action.
Azione che è anche presente in Vite da sprecare, dove c’è anche una certa eco di cinema sociale degli anni Settanta…
Per le parti più dinamiche, ci sono state alcune fonti di ispirazione. Ovviamente, il poliziottesco degli anni Settanta, spesso considerato di serie B anche se poi negli anni Tarantino ha contribuito a rivalutarlo, ma anche il cinema di denuncia di Elio Petri o di Francesco Rosi… sicuramente c’è molto di quel cinema di impegno civile che comunque non era noioso o tedioso: spesso l’impegno veniva all’interno di un genere per arrivare a molti più spettatori possibili, che seguivano con più passione la vicenda.
Come hai scelto gli attori per Vite da sprecare? Molti di loro, da Filippo Luna a Paride Benassai a Vincenzo Ferrera, fanno parte del meglio che la scena recitativa palermitana possa offrire.
Non so se sono stato bravo o fortunato nell’aver scelto gli attori. Innanzitutto, non ho fotto alcun provino o casting: tutti sono attori che conosco da anni. Con quelli più “maturi” abbiamo fatto diversi lavori insieme nel mio percorso di assistente alla regia: per me, sono persone al di là di professionisti che conosco benissimo. Di conseguenza, sapevo quello che avrebbero potuto darmi in scena. Ma lo stesso posso affermare dei più giovani, da Alessandro Agnello a Pietro Tutone: anche se li avevo visti poco, da come si muovevano in scena avevo intuito che avessero grandi potenzialità.
Tra gli interventi che accompagnano Vite da sprecare non possiamo non citare quelli di Giuseppe Gulotta, Gaetano Santangelo e Vincenzo Ferrantelli, tre di quei giovani ingiustamente arrestati, e di Maria Timpa, la vedova di Giovanni Mandalà (morto in carcere per le conseguenze di una grave malattia). Cosa ti hanno lasciato questi incontri?
Le chiacchierate con loro sono state fondamentali. Hanno conferito al mio lavoro un aspetto umano e personale che i giornali d’epoca, le carte processuali e i materiali di repertorio non potevano sondare. Le loro testimonianze erano centrali per capire che conseguenze la vicenda ha avuto nelle loro stesse vite: Santangelo e Ferrandelli sono scappati prima in Francia e poi in Brasile (Paese che non aveva accordi di estradizione con l’Italia): è facile dire che hanno fatto poca galera ma le loro esistenze sono state segnate per sempre. Hanno provato il dolore di una vita passata lontana dagli affetti, dai propri familiari e dalla possibilità di vivere eventi felici, come la nascita di un nipotino o il matrimonio di un fratello, e altri drammatici, come il funerale dei propri genitori. L’incontro con loro ha fatto sì che mettessi ancora più passione durante la scrittura del film prima e le riprese dopo.
Cosa ha portato te, giovane della provincia siciliana, ad appassionarsi così tanto al cinema da farlo divenire una professione?
È colpa del ginocchio destro. Come buona parte degli italiani da adolescenti, anch’io volevo fare il calciatore e dicono che fossi anche abbastanza bravino. Intorno ai 12 o 13 anni però mi sono fatto male seriamente al ginocchio e ho trascorso qualche settimana a casa, a riposo sul divano. Mio fratello mi portava quasi tutti i giorni la vhs di un film da vedere in modo da farmi trascorrere un paio di ore più serenamente e allegramente (all’epoca non c’erano ancora gli smartphone e internet: avevamo solo i libri e le videocassette!). Ed è così che un giorno è arrivato Nuovo Cinema Paradiso: è scattato il colpo di fulmine e ho cominciato a pensare che forse era quello che volevo fare anch’io.
Al momento hai realizzato solo tre film tuoi: il documentario Impazzite schegge nel 2012, 31 gradi Kelvin nel 2013 e Vite da sprecare oggi. incontri difficoltà nel portare a termine dei progetti?
È facile dare la colpa agli altri o dire che viviamo in Sicilia, il sistema è quello che è e che non ci sono possibilità. Ma non è così. Ho girato opere a basso budget che non mi hanno permesso di “svoltare” e dunque sono anche costretto a lavorare per vivere ma in parte è colpa mia: sono io che ho scelto così… magari non ho dedicato il tempo necessario a cercare di fare più opere mie e a me stesso. Non tornerei tuttavia indietro: ciò mi ha reso più volenteroso e più positivamente incazzato per il futuro. Ho quella rabbia positiva dentro che penso mi porterà a fare più cose e che mi fa già vedere il tutto da un altro punto di vista.