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Vittoria, il desiderio di avere una figlia – Intervista ai registi Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman

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Nel loro film Vittoria, Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman raccontano la storia vera di una donna che, sfidando le aspettative sociali e familiari, intraprende un difficile percorso di adozione per realizzare il desiderio di avere una figlia. Attraverso l'autenticità dei protagonisti reali e un approccio che mescola documentario e finzione, i registi offrono uno sguardo profondo e toccante sulla genitorialità e sulla determinazione umana.
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Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman non sono registi convenzionali, né il loro ultimo film, Vittoria, al cinema grazie alla distribuzione di Teodora il 3 ottobre, è un’opera tradizionale. Quello che hanno costruito insieme non è solo un lungometraggio di finzione, ma un racconto intimo e profondamente autentico, che sfuma i confini tra realtà e narrazione cinematografica. L’approccio che li caratterizza, radicato nel documentario e nel contatto diretto con la vita vissuta, emerge chiaramente in Vittoria, un film dove i protagonisti non sono attori professionisti, ma le stesse persone che hanno sperimentato sulla propria pelle gli eventi narrati.

Il film, che segue la storia di Marilena “Jasmine” Amato, una parrucchiera di Torre Annunziata, si addentra nelle complesse dinamiche di una famiglia che viene sconvolta dal profondo desiderio della donna di avere una figlia femmina, nonostante abbia già tre figli maschi e un marito, Rino, inizialmente contrario a questa scelta. Jasmine decide di intraprendere un percorso di adozione internazionale, mettendo alla prova non solo il suo matrimonio, ma anche l’equilibrio familiare e la percezione sociale che la circonda.

Cassigoli e Kauffman sono giunti alla storia del film Vittoria, prodotto tra gli altri da Nanni Moretti, in modo quasi accidentale, ma una volta conosciuta Jasmine, la sua vicenda li ha colpiti profondamente. La sua determinazione e il coraggio di andare contro tutto e tutti pur di realizzare un desiderio così apparentemente irrazionale hanno fatto scattare qualcosa in loro, convincendoli che questa storia meritava di essere raccontata. Non era solo una questione di desiderio di maternità, ma di una ricerca più profonda di identità e realizzazione personale che attraversa l’intera narrazione.

La scelta di far interpretare a Jasmine e Rino i ruoli di se stessi è uno dei tratti distintivi del lavoro di Cassigoli e Kauffman. Tale approccio non solo conferisce un livello di autenticità difficile da ottenere con attori professionisti, ma permette al film di esplorare una dimensione emotiva e umana che travalica la semplice ricostruzione dei fatti. I registi, infatti, si sono immersi nelle vite dei protagonisti, ascoltando per ore i loro racconti e registrando interviste che hanno poi alimentato il processo di scrittura. Questo percorso ha consentito loro di costruire un film che non è solo una narrazione cinematografica, ma una vera e propria rivisitazione della vita reale, dove emozioni e conflitti irrisolti riaffiorano davanti alla macchina da presa.

Vittoria è un film rappresenta anche una riflessione più ampia sulla genitorialità e sull'adozione, temi complessi che spesso vengono raccontati in modo superficiale o idealizzato. In questo caso, invece, i registi scelgono di concentrarsi non sull'evento conclusivo – l’arrivo del figlio in famiglia – ma sull'intero percorso che porta a quell'istante: le paure, le tensioni, i dubbi, e il coraggio che serve per affrontare un cammino così incerto. Questo rende l’opera una rara eccezione nel panorama cinematografico, capace di andare oltre la rappresentazione convenzionale dell’adozione per esplorare le sue sfumature più intime e difficili.

L’esperienza di Cassigoli e Kauffman con il film Vittoria si inserisce in un più ampio progetto artistico che i due registi portano avanti ormai da anni, lavorando a stretto contatto con Torre Annunziata, una cittadina che li ha accolti e ispirati fin dalle prime collaborazioni. Qui hanno già raccontato storie potenti, come nel caso di Butterfly e Californie, e ancora una volta trovano in questo luogo e nelle persone che lo abitano una fonte inesauribile di umanità e autenticità.

Con Vittoria, Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman ci offrono un ritratto profondo e sfaccettato di una donna e della sua famiglia, riuscendo a combinare in modo unico la sensibilità documentaristica con la potenza della finzione cinematografica. Il risultato è un film che non solo emoziona, ma che ci costringe a riflettere su cosa significhi davvero inseguire un sogno, anche quando tutto sembra remare contro.

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Casey Kauffman e Alessandro Cassigoli, registi del film Vittoria.
Casey Kauffman e Alessandro Cassigoli, registi del film Vittoria.

Intervista esclusiva ad Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman

“Da autori ci pacia andare oltre il sensazionalismo, i sentimenti o le emozioni facili, provando a tracciare delle linee che esulano dal già visto”, rispondono quasi in coro Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman, i due registi del film Vittoria quando, ancor prima di dare inizio alla nostra intervista, si spiega loro il perché della nostra attenzione verso un lungometraggio capace di raccontare una storia che prende spunto dalla vita vera e che per finzione utilizza gli stessi protagonisti della vicenda.

Al centro del racconto del film Vittoria c’è infatti la vera storia di Marilena ‘Jasmine’ Amato, parrucchiera di Torre Annunziata mossa dal desiderio di avere una figlia femmina nonostante avesse già tre figli maschi. E per coronare il suo sogno Jasmine lotta anche contro la volontà stessa del marito, andando contro tutto e tutti pur di affermare se stessa e quel desiderio di nuova genitorialità che l’attraversa.

Com’è entrata Marilena nelle vostre vite?

CK: Siamo arrivato a Torre Annunziata per girare il nostro primo film, Butterfly, un documentario su Irma Testa, otto anni fa e non ce ne siamo quasi più andati. Per una scena, infatti, è arrivata una ragazza che all’epoca aveva nove anni, si chiamava Jamila, ci ha spiazzato ed è diventata la protagonista di Californie, il nostro secondo lungometraggio. Ed è stata Jamila che, quando durante le riprese cercavamo una parrucchiera vera, ci ha invitato a conoscere la sua.

Abbiamo così incontrato Marilena proponendole un ruolo da recitare ambiguo: doveva essere il punto di riferimento per Jamila ma anche la sua datrice di lavoro, colei che stava comunque sfruttando una minorenne. Marilena sul set ci ha impressionato sin da subito, azzeccando il perfetto equilibrio che il personaggio richiedeva. Tra una ripresa e l’altra, abbiamo cominciato a conoscerla meglio ed è stato allora che è venuta fuori la sua vera storia, quella dell’adozione della piccola Vittoria. Di fronte alla sua sincerità, alle sue emozioni e alla singolarità della sua vicenda, si è accesa in noi la lampadina: ci siamo guardati e abbiamo realizzato subito di cosa avrebbe raccontato il nostro prossimo progetti.

Del resto, avevamo sia una bella storia sia una persona che ci piaceva molto, con cui stavamo già lavorando molto bene, che rendeva altrettanto davanti alla macchina da presa e che aveva alle spalle un vissuto personale molto forte.

Cosa in particolare vi aveva colpito della sua storia?

AC: Eravamo davanti a una donna che, pur avendo già tre figli, voleva con tutte le sue forze una figlia femmina. Il suo desiderio era talmente forte da spingerla ad affrontare un percorso di adozione che comunque non è mai facile. Ci ha colpiti la sua determinazione nell’andare anche in opposizione al marito Rino, che fondamentalmente era contrario sebbene alla fine del film sia colui che per primo prende la bambina definendola “figlia nostra”.

Nel momento in cui Marilena ci ha raccontato per la prima volta l’intera storia, a noi è venuto un groppo in gola. E da autori il nostro obiettivo altro non era che restituire quell’emozione forte che noi per primi abbiamo provato. Abbiamo cercato di capire cosa la muoveva, porgendole mille domande su cosa la spingesse realmente prima di renderci conto che forse non c’era una risposta univoca ma un insieme di fattori motivanti.

CK: Ma non solo. La vicenda di Marilena ci permetteva di confrontarci con l’idea dell’inseguire un sogno, andando anche oltre il razionale. Cuore e ragione non sempre vanno di pari passo: nonostante tutti l’abbiamo additata come “pazza” o le abbiano chiesto chi glielo facesse fare, lei ha sempre seguito il primo proprio perché inseguiva il suo sogno. Noi abbiamo cercato di scavare e di rendere più evidente quali fossero le motivazioni che si celavano dietro.

Siamo rimasti colpiti dall’emozione ma anche da un mondo particolarmente complesso come quello dell’adozione che non conoscevamo. E da autori è sempre interessante avere il privilegio e l’opportunità di scoprire nuovi mondi tramite una storia. Io e Alessandro non sapevamo niente di come funzionasse: diversamente da come accade per altri progetti, non siamo partiti da un tema per sviluppare poi una storia… per certi versi, è stata la storia che ci ha poi portati al tema. Una storia che ci veniva raccontata mentre ne vedevamo davanti a noi il frutto, con Vittoria che ci girava intorno.

Abbiamo cominciato allora ad approfondirla con una serie di interviste ai protagonisti stessi. Anche se inizialmente non è stato facile: Rino le prime volte non riusciva quasi nemmeno a parlare, il pianto interrompeva sempre il suo racconto.

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Chiariamo subito un aspetto: Vittoria non è un documentario ma un film di finzione, sebbene a recitare nei panni dei suoi personaggi siano i protagonisti stessi della vicenda. È stato semplice scrivere la sceneggiatura?

AC: Alla base ci sono state tanta ricerca e tante interviste con la famiglia. Non abbiamo realizzato un film rappresentativo di tutte le coppie adottive in Italia ma ci siamo interessati più alla loro storia. Tuttavia, abbiamo voluto incontrare anche tante altre coppie che hanno intrapreso il percorso dell’adozione per capire se il racconto di Marilena e Rino quadrava con quello degli altri.

CK: Chiaramente, si scriveva la sceneggiatura in base alla loro storia vera seppur aggiungendo qualche elemento creato da noi. La particolarità della lavorazione di questo film è stata però un’altra: dopo aver terminato una sceneggiatura di oltre cento pagine, prima di girare abbiamo fatto tante prove. Dovevamo lavorare con attori non professionisti a cui non davamo dialoghi da imparare a memoria: si spiegava loro la dinamica della scena e li lasciavamo liberi. In base a ciò che ne veniva fuori, io e Alessandro rimettevamo mano su ciò che eventualmente non funzionava per renderlo più immediato e vicino alla loro sensibilità.

Uno degli aspetti sicuramente più interessanti è stato però dato dalla lingua. Ovviamente nessuno di noi due è di Torre Annunziata ma non parlare napoletano si è rivelato per noi un vantaggio artistico perché ci ha permesso di capire e di sentire meglio le scene.

Quanto era importante che gli attori del film fossero i protagonisti stessi della vicenda? Dopotutto, sarebbe stato più semplice per voi ricorrere a dei professionisti.

AC: È una domanda che ci siamo posti anche per il nostro precedente film. Pensiamo però che lavorare con le persone reali che rimettono in scena la propria storia conferisca qualcosa di autentico, unico e vero, quando si riesce a portarle allo stesso livello di emozione che hanno provato e vissuto in passato. È qualcosa di molto forte ma concerne il nostro modo di lavorare: magari un altro regista nel mettere in scena la vicenda con attori professionisti potrebbe ricavarne un film bellissimo, altrettanto emotivo e coinvolgente.

Per certi versi, avendo già visto lavorare Marilena, eravamo quasi sicuri che sarebbe riuscita a ripescare le emozioni provate otto anni prima per rimetterle in scena. Non sapevamo invece nulla del marito: lo conoscevamo ma era una vera incognita. Nonostante ciò, non ci è mai passato per la mente di scegliere un professionista: fortunatamente, ci siamo resi conto immediatamente da un provino per uno dei momenti più tesi del film che Rino reagiva bene, che era interessato e che gli piaceva ciò che stava facendo.

CK: A livello personale e umano, condividere un film con le stesse persone che hanno vissuto quella storia è un’esperienza fortissima. Per loro, è qualcosa che non solo stanno rivivendo ma che stanno anche raccontando a tutti quanti, a partire dalla loro comunità, e che rimarrà impressa nel tempo.

Il poster del film Vittoria.
Il poster del film Vittoria.

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Quante volte di fronte a quella che era una storia vera avete dovuto sospendere il vostro giudizio?

CK: Più che sospendere il giudizio, abbiamo dovuto smettere di chiederci perché una figlia femmina o perché l’adozione. Abbiamo provato a darci delle risposte anche ricorrendo a luoghi comuni abbastanza diffusi (“una figlia femmina è colei che solitamente bada alla madre quando invecchia”, ad esempio) ma pian piano abbiamo abbandonato ogni retro pensiero per farci guidare solo dal suo istinto. Tanto che alla fine della storia, quando arriverà Vittoria, nemmeno allo spettatore interesseranno più le ragioni che si celano dietro alla sua scelta.

AC: Il carattere di Marilena è comunque molto particolare: a livello cinematografico, ad esempio, è molto forte. Trattandola come un personaggio, abbiamo forse voluto evitare che diventasse troppo “stronza, addolcendola in determinati frangenti. Ci piace tuttavia lavorare su personaggi complessi tanto che a volte siamo noi stessi a convincere i protagonisti del fatto che è in presenza di qualche difetto che tutto funziona meglio. Più si sospende il giudizio, più si ottiene qualcosa di più autentico.

CK: Tornando a Rino, non conoscendo molto di come funzionino gli archi narrativi di un film, ha dovuto fidarsi totalmente di noi. Per gran parte della storia, sarebbe stato l’antagonista e ciò avrebbe potuto rappresentare un problema quando sua figlia Vittoria, crescendo, avrebbe visto il film. Ma si è fidato, rivelandosi nel finale quell’eroe salvifico che è poi stato.

Cosa vi ha permesso la storia di Marilena di capire o di scoprire della genitorialità?

AC: Ci sono due vie diverse per raccontare una storia, standoci dentro o osservandola dall’esterno. Nel mio caso, non ero un insider ma un outsider: non ho figli ma ero chiamato a raccontare la storia di una donna che, dopo tra figli suoi, ha voluto adottarne una quarta. E, quando sei distante da ciò che ti interessa, è come se il tuo livello di attenzione ma anche di analisi e creativo si alzassero. Anche se può sembrare paradossale, meno sei coinvolto più sei ricettivo a tutto.

Ciò non vuol dire che poi tu metta in pratica ciò che apprendi ma di sicuro sono rimasto colpito dall’idea di genitorialità di Marilena, per cui c’è ben poco da calcolare a priori: “Lo voglio, facciamo e andiamo, perché dove mangiano tre mangiano anche quattro”. Può sembrare il suo un ragionamento arcaico, eppure in qualche modo funziona.

CK: Io ho due figli, una di sette e uno di 5 anni e mezzo. Ma anche un terzo di 5 settimane che cresce nel grembo di mia moglie, che scherzosamente attribuisce la colpa della gravidanza al film stesso. Ho scoperto che una coppia che vuole adottare ha addosso una pressione spesso anche maggiore rispetto a chi fa figli biologici. L’ho avvertito attraverso la storia non solo di Jasmine ma anche di tutte le coppie adottive che abbiamo intervistato: decidere di fare un figlio rappresenta sempre un grande passo nella vita ma per chi adotta è reso ancora più complicato dalla procedura burocratica da seguire, fatta anche di colloqui, controlli a cui sottoporsi e giudizi esterni. Per cui tanto di cappello a chi decide di adottare.

Ma voglio ricollegarmi anche a quanto diceva prima Alessandro sull’essere outside o inside rispetto alla storia. Non c’è un modo corretto o scorretto per raccontare una vicenda e l’ho scoperto anche attraverso i 13 anni di giornalismo all’estero che hanno segnato il mio percorso. Tuttavia, trovo sempre molto interessante l’occhio esterno che osserva e investiga: si crea una dimensione per cui la persona documentata si apre maggiormente con chi non fa parte della sua stessa comunità o del suo stesso contesto, fidandosi.

Nell’intervistare le varie coppie durante la fase di preparazione, abbiamo sempre trovato le porte aperte sebbene fossimo due persone esterne e non fossimo genitori adottivi. Ed è accaduto anche in passato per gli altri nostri film: spesso la gente finiva con il confidarci qualcosa di inaspettato che nessuno intorno a loro sapeva o conosceva.

La genitorialità è sempre raccontata in maniera polarizzata. Secondo voi, può il vostro film aiutare a trovarne una nuova definizione?

AC: Spesso vedo tantissimi coetanei porsi molte domande sul momento in cui divenire genitori: “Ma è la persona giusta? È il momento giusto?”… La storia di Marilena forse insegna che occorre abbracciare totalmente l’idea per cui se sentiamo di voler fare qualcosa dobbiamo farla senza chiederci nulla.

CK: In fondo, Vittoria ci dice che non bisogna pianificare il futuro ma che bisogna avere fiducia nel proprio istinto, senza preoccuparsi più di tanto né dei giudizi altrui né delle questioni pratiche che verranno. Anche di fronte ai “bisogni speciali” che Vittoria avrebbe richiesto, Marilena e Rino hanno lasciato che a dominare fosse l’istinto, supportati comunque da una famiglia allargata che ha dato loro la forza necessaria non facendoli sentire soli. A fare la differenza è ancora una volta lo spirito di accoglienza che nel loro caso hanno trovato. Forse, potremmo rileggere la genitorialità come accoglienza e l’accoglienza come genitorialità in senso anche lato. Non è un caso che nel mondo dell’adozione si usi spesso proprio la parola accoglienza.

Vittoria: Le foto del film

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