L’interpretazione di Zackari Delmas nel film Il mio compleanno, presentato in anteprime a Venezia 81 e scelto dalla Festa del Cinema di Roma nella sezione Alice nella città, offre una profonda finestra sulla complessità psicologica di Riccardino, un personaggio segnato da traumi, speranze e illusioni che accompagnano la sua giovane esistenza. Zackari Delmas, nel descrivere il suo approccio al personaggio, evidenzia un elemento chiave della psicologia di Riccardino: la tensione tra l’innocenza dell’infanzia e il peso delle responsabilità adulte che gli sono state imposte precocemente.
Riccardino è, come afferma Delmas, "un adulto nel corpo di un bambino". La sua esperienza in una casa-famiglia e la separazione dalla madre non solo lo hanno privato di un normale percorso di crescita, ma lo hanno costretto a sviluppare un senso di responsabilità che si scontra violentemente con i suoi desideri e la sua immaginazione. Questa dicotomia tra desiderio di libertà e il senso di oppressione emerge con forza nel personaggio, un giovane che oscilla tra la razionalità e l’impulsività. Zackari Delmas menziona l’allegoria platonica della biga alata per descrivere la sua esperienza personale e quella di Riccardino: il cavallo bianco della ragione e quello nero dell’istinto rappresentano le forze in conflitto che dominano l’interiorità del ragazzo, incapace di gestire la complessità delle sue emozioni.
La sua ossessione per la madre non è solo il desiderio di ritrovare una figura genitoriale, ma assume connotati più profondi e disperati. Il legame con la madre è vissuto da Riccardino con una carica emotiva quasi animalesca, un legame che rischia di scivolare in una trappola pericolosa. Come nota lo stesso Delmas, questo rapporto rischia di diventare un’ossessione, una grande illusione che alimenta le speranze del protagonista, fino a portarlo a decisioni impulsive e autodistruttive.
L’interpretazione di Zackari Delmas sottolinea, inoltre, l’ansia di Riccardino nei confronti della vita adulta e della burocrazia che lo attende. Questa ansia, come afferma il diciannovenne attore, si manifesta in forme di ribellione, una caratteristica che accomuna molti giovani cresciuti senza una guida familiare stabile. Delmas porta sullo schermo un ragazzo pieno di dubbi, in lotta con il sistema e le aspettative sociali, ma anche capace di esprimere quella vitalità ribelle e irriverente che emerge nei momenti di ironia e humor.
In fondo, Zackari Delmas e Riccardino condividono il vivere in bilico tra sogno e realtà, con una ricerca di appartenenza e amore che li rendono il simbolo di una generazione di giovani spesso dotati di una forza interiore sorprendente, nascosta dietro la fragilità della loro esistenza.
Intervista esclusiva a Zackari Delmas
“Sono molto ansioso ma cerco di trasformare l’ansia, quel sentore di farfalle nello stomaco, in gioia”, risponde Zackari Delmas quando gli si fa notare come non capiti poi molto spesso che un film già presentato al Festival di Venezia venga poi accolto dal Festa del Cinema di Roma. “Comunque, sì: sento una certa responsabilità nel presentare Il mio compleanno anche a Roma, la città che mi ha oramai accolto e dove ho tutti i miei amici: è un modo per dire loro che un po’ ce l’ho fatta”.
Dal tuo punto di vista, chi è Riccardino, quel ragazzo che aspetta con ansia il giorno in cui compirà il suo diciottesimo compleanno?
Riccardino è un ragazzo come tutti gli altri, se non fosse che è nato in una condizione difficile. Mi piace definirlo come un adulto nel corpo di un bambino che, dopo aver imparato presto a capire cosa significa la parola responsabilità, deve fare i conti con la burocrazia italiana e affrontare un viaggio epico per incontrare la madre. Non sa nemmeno cosa l’aspetterà dopo l’incontro o come sarà ma lo vuole sopra ogni cosa. Si relaziona però al mondo come se fosse un animale, dopo anni passati all’interno di una comunità che ha rimesso in discussione ogni sua consapevolezza su come ci si rapporti agli altri e a se stessi.
Tanto che il rapporto con la madre, interpretata da Silvia D’Amico, rischia di scivolare nell’ossessione.
Silvia è stata straordinaria sia per la sua interpretazione sia per come mi ha guidato sul set: è stata comunque una maestra e non mi sbagliavo nell’esser contentissimo quando ho scoperto che sarebbe stata lei a interpretare mia madre.
Con Riccardino condividi la stessa età: è stato semplice capire la sua psicologia o ti ha destato qualche difficoltà?
Ho diciannove anni ma non credo di avere avuto una vita abbastanza regolare da classico ragazzo italiano. Usando l’allegoria della biga alata del Fedro di Platone, ho sperimentato sia la parte del cavallo nero, quella legata all’irrazionalità e all’istinto, sia quella del cavallo bianco, legata alla ragione. Ho vissuto come Riccardino l’angoscia del non sapere che fare della propria vita: mi sono chiesto ad esempio che personaggio avrei voluto ricoprire in questo mondo o come sopravvivere. Ma ho portato in lui anche la voglia di ribellione, un lato che credo sia insito in ognuno di noi. Desideriamo tuffi non essere assoggettati a regole che non ci corrispondono o che ci limitano.
Non hai fatto appello ai tuoi legami familiari?
Mio padre nasce come artista di strada e lavora da anni nei cabaret. Mia madre invece è sociologa e presta servizio nelle comunità o in carcere. Si sono separati quando avevo sei anni e, a differenza di Riccardino, una madre ce l’ho avuta. Per un periodo della mia vita, la mia domanda esistenziale è stata un’altra: mi sono chiesto a lungo perché i miei si fossero lasciati, fino a quando non sono riuscito ad avere la risposta.
Il rapporto con mia madre è molto bello, oltre forte. È una delle mie più grandi sostenitrici. È grazie a lei che sono riuscito a motivarmi e a coltivarmi quel lato artistico che ho ereditato da mio padre. Ma abbiamo tutti quell’attaccamento alla madre che Riccardino palesa in maniera animalesca: a prescindere da tutto, la madre è sempre la madre.
Considerando il lavoro di tua madre, hai chiesto a lei consigli su come sia la vita in una comunità?
Quand’ero più piccolo, mia madre mi portava spesso con lei nelle comunità di recupero. In quelle circostanze, ho osservato e visto molto. Ma non solo: da persona molto emotiva, tutte le volte che rientrava a casa mamma mi raccontava molto di quello che viveva o accadeva nel suo lavoro. Non ho dunque dovuto cercare lontano l’ispirazione.
Nell’osservare allora gli altri cosa capivi di te stesso?
Sebbene fossi molto piccolo, sentire le storie forti degli altri mi portava a pensare a quanto fortunato fossi stato nel nascere in una famiglia comunque borghese: mi potevo permettere di piangere qualora avessi rotto un vaso o di continuare a vivere anche se fosse morta mia madre. Chi stava o sta in determinate strutture non ha questo lusso… Ho cominciato allora a capire la diversità dei problemi e il loro peso. Per quanto io avessi il “problema” dei genitori separati, continuavo a ricevere ugualmente amore, qualcosa che manca a chi non ha nemmeno una madre o spera di stare in una famiglia affidataria.
Storie forti come quelle che ti piace interpretare sullo schermo: Una sterminata domenica, Il mio compleanno e Diciannove sono i tre film dell'ultimo anno di cui sei tra i protagonisti e che guardano in maniera ravvicinata al reale. È un caso o frutto di una scelta oculata?
A me piace soprattutto il bel cinema. Ed è quello a cui aspiro.
Quando hai realizzato che recitare, una tua passione, poteva essere un lavoro?
Molto presto. Con un padre artista, sin da bambino ho avuto la possibilità di lavorare nei suoi spettacoli e di vedere cosa ci girava intorno. Quello della recitazione è un mondo che mi ha sempre affascinato e quegli ultimi cinque minuti di spettacolo in cui papà mi chiamava in scena mi hanno fatto capire cosa volessi.
Non avevo in testa nient’altro tanto che ho cominciato a studiare presto recitazione frequentando un corso di improvvisazione. E non ho mai mollato la presa: anche quando facendo sport sognavo di diventare il miglior calciatore del mondo o giocando a scacchi mi vedevo come il più bravo scacchista, parallelamente c’era sempre la recitazione.
E ti sei ritrovato su un set all’età di nove anni circa, scelto da Luca Ribuoli per la serie tv Questo nostro amore 70…
Mi è piaciuto molto vivere quell’esperienza ma più che i giorni di riprese ricordo la preparazione meticolosa al personaggio. Rivedo ancora adesso io a casa con mia madre che uso Google Traduttore per sentire come una voce francese (lo sono per via di mio padre, anche se sono nato a Roma) avrebbe pronunciato in italiano le mie battute: dovevo trascorrere l’estate a curare la dizione, con mamma che non sapeva se mi piacesse quello che stavo facendo o meno. Ha poi invece visto quanto mi divertivo e quanta immaginazione avessi. In più, guadagnavo anche… (ride, ndr).
Il mio compleanno: Le foto
1 / 9Cosa dava la recitazione a quel bambino e cosa ti da oggi?
Mentre a scuola non andavo molto bene, al corso di recitazione non avevo alcun problema. Il mio cervello riusciva a ragionare e lavorare senza chissà quale fatica: minima spesa, massima resa. Ma mi serviva anche per incanalare tutte le mie energie in una sola direzione. Ancora oggi recitare mi restituisce benessere, è una specie di droga a cui non posso resistere: vivere un’altra vita in un altro momento in un mondo parallelo mi permette persino di vincere le mie stesse ombre o i miei stessi dubbi. Recitare accresce anche il mio livello di conoscenza della realtà: per me non si tratta di semplice finzione, sperimento e prendo consapevolezza.
Anche se adesso vorrei tornare nella bolla dello studente…
…perché pensi di aver bruciato qualche tappa?
No, ma ho sentito presto il peso della responsabilità. Ho solo diciannove anni, vivo a Roma da solo da due anni e mi piacerebbe tornare a scuola anche per giocare al “gioco dell’autorità”, avere dei compiti da fare ed essere comandato. Vorrei tornare a pensare meno, a essere “lobotomizzato”.
Com’è stato trasferirsi nella capitale a diciassette anni?
Era quello che in fondo volevo ma all’inizio non è stato semplice: il primo anno sarei voluto scappare. Vivevo a casa di nonno, lavorava tutto il giorno e le mie responsabilità erano maggiori di quanto mi aspettassi. Ma è stato comunque un periodo molto strano: sebbene volessi andar via, secondo me ero già innamorato della città. Tanto che alla fine ci sono rimasto… forse perché non ce la facevo più di Torino e della sua dimensione underground.
Ti ha mai causato problemi l’essere stato comunque un attore bambino?
Non particolarmente. Ho forse vissuto un periodo di disagio alle medie: non avevo amici veri con cui confrontarmi. Poi, fortunatamente, ho girato POV per Rai Gulp e ho così incontrato Christian Carere, diventato il mio migliore amico.
Quando ti guardi incontro, cos’è che ti fa paura?
Un po’ come Riccardino, la burocrazia e le incombenze a essa legate, da un affitto da pagare al biglietto dell’autobus da timbrare, tutte cose che servono in qualche modo a certificare un’autorità, l’“è così e basta” o le etichette da rispettare perché “si fa così”. Di recente, ho faticato semplicemente per le trafile richieste per prendere la patente: ho dovuto necessariamente far parlare mia madre al posto mio, come se si necessitasse di mostrare di avere anch’io con la mia età un’autorità da esibire.
Ma ho sempre detestato l’imposizione dell’autorità. A scuola, non andavo nemmeno in bagno a far la pipì per non chiedere il permesso alla professoressa. All’ansia che mi metteva quell’insegnante preferivo il mal di pancia che mi veniva dopo e mi costringeva a chiamare mio padre per farmi venire a prendere. Capitava anche che nell’aspettare papà riuscissi poi ad andare in bagno e che mi passasse il mal di pancia ma chi glielo diceva che non doveva più venire a prendermi (ride, ndr)?
Ho imparato solo dopo ad andare in bagno, anche se non ne sentivo l’esigenza, prima che cominciasse la lezione incriminata…
Non riesci proprio a mentire… ti sei mai raccontato bugie?
No, amo e pretendo la sincerità. Ragione per cui quando mi rivedo sullo schermo mi analizzo e sono super critico nei miei confronti. Sono quasi ossessionato dalla mia resa artistica: vedo tutti i miei errori e calibro tutto quello che potevo fare anche meglio. Ma lo faccio sin da quando ero bambino, anche a livello inconscio.
E se ti guardi allo specchio ti piaci?
Non mi sono mai posto domande a livello estetico sul mio corpo o sulla mia faccia. Mi piace semmai concentrarmi sullo stile, qualcosa su cui punto molto per le mie interpretazioni ma anche nella vita di tutti i giorni: in base ai vestiti che indosso, posso interpretare comunque un personaggio nella società circostante.