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Perché non vogliamo smettere di sognare con le Afghan Dreamers

Un gruppo di studentesse afghane della Paghman highschool nel 2003
Hanno tra i 12 e i 18 anni e una passione forte, fortissima, per la robotica. La loro vicenda è il simbolo della speranza spezzata di tante donne afghane.

Mentre i Talebani dichiarano che le donne di Kabul al momento non possono lavorare "per mancanza di sicurezza", un gruppo di venti ragazze della provincia di Herat, nell'Aghanistan occidentale, trova rifugio a Città del Messico.

La loro storia era balzata agli onori della cronaca nel 2017, quando salirono sul podio del campionato di robotica mondiale FIRST Global a Washington. Giovanissime, tutte nate e cresciute dopo l'intervento degli Stati Uniti in Afghanistan, furono premiate per l'invenzione di un robot a energia solare per seminare i campi. Una partecipazione, quella al campionato del 2017, che fu tutt'altro che facile, date le restrizioni del Muslim Ban adottate dagli Stati Uniti. Ma "quando c'è la volontà di fare qualcosa, si trova sempre il modo di farla", come aveva dichiarato Fatemah, l'ex capitana del team. Da quel momento, il gruppo raccolse migliaia di sostenitori in tutto il mondo, portando avanti il proprio lavoro anche durante la pandemia e sviluppando un prototipo di respiratore prodotto con i frammenti di auto usate. "L'idea è nata dal terribile bisogno di ventilatori per salvare la vita delle persone durante la pandemia di COVID-19", ha spiegato Somaya Faruqi, la 17enne attualmente a capo del team. Nel novembre 2020, Somaya è stata inserita dalla BBC tra le 100 donne più influenti e d'ispirazione del mondo.

In un Paese dove soltanto il 40% delle bambine riusciva ad accedere all'istruzione, le Afghan Dreamers rappresentavano un esempio di empowerment femminile. "Vorrei che l'Afghanistan e il mondo intero potessero cambiare mentalità e riconoscere che le ragazze sono uguali ai ragazzi e possono usare la scienza e la tecnologia per creare innovazione", ha dichiarato Somaya all'UNICEF, a cui ha presentato l'ultimo prototipo progettato dalla sua squadra.

Il documentario "The Afghan Dreamers"

Oggi, la loro vicenda diventerà un documentario diretto da David Greenwald e prodotto da Beth Murphy. Il film, ora in post-produzione, ripercorre la nascita del team fino alla fuga dall'Afghanistan. "Sulla strada da Herat a Kabul eravamo molto spaventate", ha scritto alla rivista Variety una ragazza del gruppo mentre cercava di fuggire. "I Talebani entravano in macchina e controllavano l'interno dell'auto. Io indossavo un burqa in modo da non farmi riconoscere".

Il documentario è stato girato nel 2019, durante i negoziati tra i Talebani e gli Stati Uniti. "Le ragazze e le loro famiglie ascoltavano le notizie e prestavano grande attenzione a ciò che stava accadendo. Direi che è proprio in quel momento che le preoccupazioni hanno iniziato a crescere", spiega Greenwald in un'intervista a Variety. "In Afghanistan provi sempre la sensazione che tutto potrebbe andare male in qualsiasi momento. E questo è il tipo di pressione con cui le ragazze vivevano quotidianamente. Per questo motivo, quando abbiamo girato il documentario, facevamo molta attenzione a non dare nell'occhio", prosegue Greenwald.

Le riprese del documentario sono terminate nel febbraio 2020, alla stipula degli accordi tra Stati Uniti e Talebani. "Mi aspettavo di poter chiudere il film con un messaggio di speranza, con l'immagine delle ragazze mentre insegnano robotica in una scuola. Ma le cose non si sono certo sviluppate così", conclude Greenwald.

Chi sono le altre sognatrici afghane

Artiste, direttrici d'orchestra, calciatrici. Sono le donne afghane che hanno trovato rifugio in altri Paesi al ritorno dei Talebani al potere. Le loro storie si assomigliano. C'è quella di Negin Khpalwak, la prima donna diventata direttrice d'orchestra in Afghanistan. Il suo amore per la musica nacque a soli 3 anni e mezzo, nel 1997, quando sentì il padre suonare il sitar (rigorosamente in privato, dato che per i Talebani la musica è immorale). Quando aveva 13 anni il padre la portò a Kabul a studiare. Fu l'inizio di un sogno. C'è poi la storia delle quattro calciatrici di Herat da poco atterrate a Fiumicino, simbolo di quella libertà riconquistata dalle donne con grande difficoltà negli ultimi vent'anni. E poi c'è quella di Shamsia Hassani, la street artist che sui muri di Kabul disegnava il volto delle donne afghane, fragili eppure forti dell'amore per un mondo nuovo. I loro sogni, per ora, si sono spezzati. Ma la speranza che un giorno possano tornare nel loro Paese per dare il via a un nuovo movimento di donne libere e indipendenti non morirà certo così.

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