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Dipendenza affettiva, quel bisogno d’amore che diventa una droga: intervista alla psicologa Ameya Canovi

Abbiamo parlato con la psicologa PhD Ameya Canovi di uno stato che accomuna moltissime persone, donne in particolare, quando si parla di relazioni: la dipendenza affettiva, il percepire l'altro come vitale e il non riuscire a staccarsene né a vivere la relazione in modo sano

“Amore, fai presto, io non resisto, se tu non arrivi non esisto”: era il 1970 e una giovanissima Ornella Vanoni cantava L'appuntamento, canzone che per molte donne è diventato un inno all’amore. Quello travolgente, intenso, passionale. E anche annichilente. Perché la Vanoni parlava di una donna che senza il suo innamorato non solo non viveva, ma neppure esisteva. Scomparsa, annientata, cancellata da un’assenza. Parole che potrebbero diventare la colonna sonora di uno stato patologico di cui si parla moltissimo soprattutto in questo ultimo periodo, vuoi perché l’interesse è cresciuto, vuoi perché sono sempre di più le persone che vogliono capire che cos’è quella sensazione di vuoto, di malfunzionamento, che la fine di una relazione o una relazione tormentata provoca: la dipendenza affettiva.

Addetti ai lavori come psicologi e psicoterapeuti conoscono bene i sintomi della dipendenza affettiva, e sono sempre di più i professionisti che vi si specializzano per cercare di aiutare i pazienti a ritrovare il senso del sé, la pienezza derivante dall’essere persone integre e autonome anche dopo la fine di una relazione. Chi ne soffre, però, spesso non sa di soffrirne e non riesce a dare il nome a quel malessere che lentamente e inesorabilmente corrode personalità e quotidianità. Ne abbiamo parlato con la dottoressa Ameya Canovi, psicologa PhD esperta di relazioni e dipendenza affettiva: Canovi gestisce una pagina Facebook che si chiama “Di troppo amore” finalizzata proprio a discutere di questi temi e che ha quasi 25.000 follower, mentre su Instagram ne conta più di 8.000. Ci ha aiutato a comprendere cosa sia realmente la dipendenza affettiva, quali sono i segnali che rappresentano campanelli d’allarme e soprattutto come uscirne.

Dottoressa, come possiamo definire la dipendenza affettiva?

È una disfunzionalità della relazione in cui l’altro non diventa più un compagno con cui condividere, ma diventa una ragione di vita di cui non si può fare a meno. C’è un attaccamento eccessivo nei confronti dell’altro, non si riesce a funzionare senza, proprio come accade con la droga: quando si è dipendenti da una sostanza se ne chiedono quantità sempre maggiori, e il non averla dà il senso di non funzionare nella vita. L’astinenza diventa invalidante, e se non c’è l’altro la vita perde di significato.

Eppure c’è questa idea che l’amore non è vero se non è tormentato: le parole che stiamo usando ricalcano molte canzoni, molti libri, molti film. Non vivere senza la persona amata sembra una prerogativa per identificare l’amore con la A maiuscola.

Perché ci hanno fregato nelle rappresentazioni sociali, nei miti. Pensiamo a Platone, che ci definisce “mezzi”. Sinché continuano a riverberare queste credenze che siamo completi solo con l’altro, come in certe canzoni d’amore o in certe favole, se queste forme si tramandano e vengono sdoganate quotidianamente, si scambia la sofferenza e il senso di essere incompleti senza l’altro per amore. L’amore però non può esserci se non c’è prima di tutto verso noi stessi. E la relazione non può diventare l’unico luogo in cui ci sentiamo completi.

Quali sono i tratti del dipendente affettivo?

La prima cosa da dire è che questa condizione la si porta dentro per motivi differenti. Può manifestarsi in una o più relazioni o restare latente per anni ed esplodere all’improvviso: è sempre l’incontro con una specifica persona ad attivare determinati meccanismi, e quando la persona che si incontra ha tratti narcisistici la relazione diventa tossica. In questi casi la relazione diventa un lago in cui specchiarsi, un luogo in cui entrambi di fatto sono narcisisti ma per motivi diversi. E in cui entrambi sono dipendenti a modo loro: il dipendente affettivo è alla ricerca di affetto, amore, riconoscimento da quella persona, la persona con una ferita narcisistica importante non dipende dall’affetto ma dall’applauso. Vuole collezionare applausi e attenzione e non è interessato specificamente alla persona che glieli fornisce. In partenza si cercano cose diverse, il narcisista dice ammirami, il dipendente dice considerami, tienimi.

Ci sono persone che più facilmente potrebbero sviluppare questa condizione?

Il seme della dipendenza affettiva è di un portatore che ha una fragilità che può rimanere latente per tanto tempo. Fateci caso, capita di sentirsi dire “ma col fidanzato precedente non succedeva così”. Il punto è che queste relazioni non hanno a che fare con l’amore, sono fortemente affettive ma anche negative, ci sono rabbia, sensi di colpa, manipolazioni. Queste dinamiche hanno a che fare con il potere nella relazione, e siccome la persona che ha una dinamica narcisista più esplicita non rinuncia mai alla sua idea di grandiosità, di essere speciale, non è interessato a soddisfare il bisogno di chi invece ha un buco affettivo importante. Quello che non si dice è che la persona con dinamica narcisistica non ha un buco affettivo, ma ha il bisogno di confermare se stesso perché sente che se non si specchia nell’altro non esiste. Chi ha una dipendenza affettiva ha sempre una ferita narcisista, ma perché non è stato nutrito abbastanza. Non si cade nella dipendenza, si ha dentro: alcuni sono consapevoli, qualcuno invece arriva e dice che è colpa dell’altro. Il narcisista però non ti fa venire la dipendenza affettiva. È vero che esistono personalità molto manipolatorie, persone che sono interessante ad avere uno sguardo e poi spariscono, ma la dipendenza affettiva esiste a prescindere che arrivi un narcisista o no. Può succedere che il partner sia carino, affettuoso e gentile, ma al dipendente affettivo questo non basta mai. 

Che cosa succede dentro una persona che soffre di dipendenza affettiva?

L’attitudine del dipendente affettivo è che ha uno stile nella relazione che è molto primario. Ha molte caratteristiche del bambino piccolo che se vede allontanare la figura di accudimento va in panico. La percezione che si ha di se stessi in quel tipo di dinamiche è “io non riuscirò a reggere se l’altro si sposta”. Attenzione, qui non stiamo parlando di donne abusate e maltrattate, in questi casi si tratta di questioni e dinamiche molto più complesse e profonde, parliamo di donne e uomini che magari hanno una realizzazione professionale altissima e un grande successo in molti ambiti della vita, ma che hanno un tratto comune: nella relazione si sentono e si comportano come bambini piccoli, vogliono sentirsi accudite. La relazione però è scambio, una relazione sana è fianco a fianco tra due persone intere, non che io mi appoggio completamente all’altro o l’altro è tutta la mia vita. Un altro tratto comune è che le persone con dipendenza affettiva non concepiscono la fine di una relazione: moltissimi pazienti mi dicono “senza l’altro non vivo, non riesco a dimenticarlo”. Una relazione però nasce, si sviluppa e va avanti nel tempo, ma può anche finire. Questo “per sempre” denota che sull’altra persona c’è la proiezione di una figura genitoriale, e il partner non è mai genitore, ma partner. Se sono una persona adulta soffro della fine di una relazione, ma dopo qualche mese vengo a patti: questo è un atteggiamento sano. Se rimaniamo intrappolati nella dimensione illusoria del per sempre, un contenuto favolistico che non corrisponde alla realtà, arrivano i problemi.

Quali sono i campanelli d’allarme di dipendenza affettiva in una relazione?

Se si vive sospesi, appesi, in una perenne condizione di “io sono secondaria, il movimento lo fa lui, tutto quello che lui dice e fa è primario, decide prima lui e io mi adeguo per la paura di perderlo”, c’è una buona probabilità di soffrire di dipendenza affettiva. In queste situazioni la persona si sente sempre seconda all’altra, sposta la sua vita per fare spazio a quella dell’altro, ha il terrore costante di perderlo. Il punto è che l’altro non lo possiedi, e allora c’è questo senso costante di paura, di timore delll’abbandono, di dire la frase sbagliata, di camminare sulle uova, che è indice di qualcosa che non va. E scambiare questo per atteggiamento normale è sbagliato, perché la relazione inizia da te, e quello che tu trovi fuori è sempre uno specchio della relazione che hai con te stesso. Posso chiedere a qualcuno qualcosa che non so dare a me? I dipendenti affettivi cercano un risarcimento, non una condivisione, un sostituto di uno sguardo, di una figura genitoriale che forse non si è avuto o si è avuto troppo. 

Che cosa si può fare per sottrarsi a questo meccanismo?

La parola chiave è responsabilità. Perché se siamo dipendenti affettivi vogliamo che sia l’altro a farci felici, e invece siamo noi a doverlo fare. Va spostato il focus dall’altro a noi stessi: noi siamo padroni della nostra vita, noi siamo al timone della nostra vita, sennò diamo il volante in mano a qualcun altro e guida lui. L’immaturità affettiva si traduce anche in assenza di una cultura della responsabilità: se io sono una persona matura mi prendo cura io prima di tutto di me stessa, quando l’altro c’è condivido la mia pienezza, non le mie disperazioni, e invece questo è quello che fa un dipendente affettivo. Andare col proprio buco in mano verso l’altro e dire riempimi tu. E spesso succede che l’altro si senta investito di qualcosa che non gli spetta, perché non è un papà o una mamma. La nostra è senz’altro una cultura che incoraggia la dipendenza, e dovremmo provare a formare coscienze e a incentivare lo sviluppo dell’autonomia emotiva. Che non significa affatto non avere relazioni, ma cambiare la postura, incontrare se stessi prima di incontrare l’altro. Bisognerebbe insegnare anche ai bambini e ai ragazzi, magari fare una rilettura delle favole, osservare il ruolo delle ragazze e delle bambine all’interno delle favole: non decidono mai, è sempre qualcun altro che prende le decisioni per loro. Possiamo per esempio rileggere le favole con una lente che stimoli una riflessione nei più piccoli, trovare finali alternativi dove c’è un rovesciamento della prospettiva e dove è la protagonista a prendere in mano la propria vita.

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